Al volgere del diciottesimo secondo, smetto di avere un’espressione comprensibile, a causa dell’accelerazione che mi distorce il volto: in quel guscio rugginoso dalle grandi ruote, scagliato a 320 Km/h sulla superficie salina delle vaste pianure saline di Bonneville nello Utah, guardo momentaneamente in basso e innanzi verso il suolo che si trova a poco più di mezzo metro di distanza, a lato del mio principale implemento di guida. “Ah, ti chiamano volante” penso, “…Quale splendida ironia”. Poiché ciò che lo circonda, l’oggetto che un tempo decollava assieme a quei velivoli pensati per scagliare nei cieli fino all’ultimo tracciante contenuto nel caricatore, non dovrà più necessariamente staccarsi da terra. Oppur se lo facesse, questo avrebbe conseguenze chiaramente deleterie ai danni della mia incolumità fisica. A dir poco.
Nello schema ideale degli appellativi statunitensi attribuiti alle diverse coorti di nascite dell’ultimo secolo, ne figura uno la cui etimologia risulta tutt’ora dubbia, in funzione di almeno due possibili interpretazioni. Sto parlando della Silent Generation, sinonimo un po’ meno pessimistico del binomio Lucky Few (i pochi fortunati) ovvero coloro che, essendo venuti al mondo tra gli anni ’20 e ’40, hanno avuto il dubbio onore di venire al mondo durante la grande depressione, vivendo in pieno, e in molti casi combattendo, quell’evento catastrofico che fu la seconda guerra mondiale. Silenziosi perché secondo la teoria più accreditata, essendo cresciuti durante gli anni di dura repressione ideologica noti come maccartismo, impararono a non protestare, né esternare mai in qualsiasi modo le proprie idee politiche se in qualsivoglia modo disallineate dallo status quo vigente. Nell’opinione d’altri, invece, questo essere di poche parole deriverebbe dal comprensibile desiderio di dimenticare le terribili esperienze vissute al fronte, incluse potenziali violenze indicibili o la triste necessità di uccidere il prossimo, al fine di tornare vivi dai propri cari. Esiste ad ogni modo, almeno una terza possibile spiegazione: questi uomini e donne che potrebbero anche aver attraversato l’inferno, prima di approdare alla serena tranquillità e sicurezza economica degli anni ’60 e ’70, sono silenziosi perché al dispendio di parole inutili, nella maggior parte dei casi, preferirono gesti concreti e risolutivi. In altri termini, l’espressione spregiudicata delle proprie scelte di vita. Personaggi come il celebre creatore di vetture modificate Bill Burke, che tornato in patria dopo il tour nella marina che l’aveva portato a far la guardia nei distanti mari del Pacifico Meridionale, e trovato impiego verso la fine degli anni ’40 nel prospero garage californiano So-Cal Speed Shop fondato da Alex Xydias, si ricordò di uno specifico momento vissuto durante la guerra. E del pensiero che aveva attraversato la sua mente, alla velocità di Fangio e Nuvolari, assistendo coi suoi occhi alle operazioni portuali per lo scarico di un’intero stock di serbatoi esterni, usati all’epoca dai caccia intercettori per accompagnare i bombardieri oggetto della loro scorta. Qualcosa sulla falsariga di “Caspita, che linea aerodinamica intrigante. Possibile che nessuno abbia mai pensato abbinargli due paia di ruote, e un motore?”
Formalmente, rientrano nella categoria delle hot rods: così questo particolare ambito in materia di motori potenziati e scocche costruite in casa, così tipicamente nordamericano, ebbe modo di arricchirsi di una nuova e performante categoria, basata su un oggetto tanto sottovalutato che, durante l’immediato dopoguerra, poteva essere acquistato al prezzo di appena 35 o 40 dollari. Dovete infatti considerare come il tipico belly tank (serbatoio ventrale) attaccato sotto alla carlina di un caccia, pur essendo costruito in acciaio o alluminio, non doveva costituire altro che un involucro protettivo per la sacca impermeabile contenente il carburante, all’esaurimento del quale veniva normalmente sganciato senza alcun rammarico sopra il territorio nemico. Quindi ne venivano assemblati moltissimi, con un valore conseguentemente abbassato dal funzionamento dell’economia di scala. Detto questo, la prima lakester (letteralmente, [auto] dei laghi salini) di Burke & Xydias, destinata a diventare trionfatrice di molte delle frequenti gare condotte nei deserti statunitensi nonché almeno momentaneamente, una delle auto più veloci al mondo, aveva il problema di essere stata assemblata a partire dalle due metà inferiori di altrettanti serbatoi esterni per l’agile P-51 Mustang, abbastanza piccolo affinché il motore di questa coraggiosa reinterpretazione dovesse trovar posto davanti al pilota, soluzione tutt’altro che ideale per un’auto da corsa, lasciando inoltre la testa del malcapitato, seduto su un sellino di bicicletta, pericolosamente esposta ad un eventuale nonché drammatico cappottamento. Ragion per cui, nella seconda versione dell’idea, prodotta sempre dal So-Cal Speed Shop nel 1951, i due diavoli creativi scelsero di utilizzare invece come componente principale un imponente serbatoio per il grosso bimotore P-38 Lightning, l’iconico velivolo che ricordava vagamente un catamarano. Destinata a diventare ben presto “l’auto più onorata di Bonneville” la loro belly tanker bianca e rossa identificata con il numero 28 avrebbe quindi costituito la base progettuale per innumerevoli imitazioni, più o meno riuscite, che avrebbero continuato a succedersi attraverso gli anni di quella spregiudicata serie di gare. Auto come il rinomato “secchio rugginoso” di Tom Beatty (anch’esso risalente al 1951) che non si era neppure preoccupato di ridipingerne la carrozzeria, spinto innanzi da un motore Ford Flathead V8 capace di raggiungere agevolmente i 250 Km/h. O in epoca decisamente più recente, veicoli comparabili alla “Blonde Bitch” di Andrew Welker, basata su un serbatoio per bombardieri MKVIII da 300 galloni e capace di raggiungere, grazie a quella che potrebbe formalmente essere descritta come la versione moderna dello stesso motore, la velocità impressionante di 315 Km/h. A bordo di quello che potrebbe anche ricordare al suo folle pilota, in un certo senso, la versione soltanto lievemente più sicura di un infernale go-kart.
Si usa attribuire la ricerca di simili emozioni potenzialmente fatali all’effetto assuefacente dell’ormone adrenalinico sul nostro organismo, inerentemente collegato alla sensazione di trovarsi a pochi secondi dall’improvvisa quanto istantanea espulsione dall’universo dei viventi. Ma io credo che dar seguito a un’associazione d’idee tanto ingegnose relative al riciclo informato, applicando tutta la propria esperienza di meccanici al perfezionamento di un qualcosa di così profondamente, esclusivamente americano, comporti il senso dell’orgoglio e l’intenzione di far parte di una lunga e significativa corrente, quella di coloro che non possono soltanto accontentarsi di “utilizzare” un motore. Ma devono comprenderlo in maniera più profonda ed in qualche modo, integrarlo nella loro particolare visione di cosa sia, esattamente, un’impresa degna di entrare nella leggenda.
Da qualche parte in mezzo alle distese corrosive di uno dei luoghi più inospitali della Terra, i serbatoi per aerei della seconda guerra mondiale continueranno ancora per qualche tempo le loro corse sfrenate verso una pagina sull’albo d’oro dei bolidi fai-da-te. Finché diventati troppo rari e preziosi per un simile utilizzo, verranno sostituiti da riproduzioni non coéve, come già capita in diversi casi oggigiorno. Ma la particolare forma a goccia, e le doti aerodinamiche di una tradizionale lakester, molto probabilmente, figureranno ancora finché esisterà quel mondo. Il che è soltanto un altro modo, se vogliamo, di ricordare coloro che ci hanno preceduto, combattendo coraggiosamente, in cielo, in terra e per mare, al fine di proteggere quegli ideali in cui credevano davvero.