L’aspetto a cui molti non pensano guardando il cartone animato de “Gli Antenati” (a.k.a, The Flintstones) è che sebbene immaginare pterodattili che migliorano la ricezione della TV, pellicani lavapiatti, spazzole coniglio e così via dicendo appartenga decisamente alla metà meno coerente dello spettro del possibile, l’intento creativo dietro a simili soluzioni tecnologiche non era del tutto scevro di riferimenti a una possibile grande realtà: che prima di possedere metodi avanzati per imbrigliare e mettere al proprio servizio la natura, l’umanità non poteva far altro che sfruttarla per quello che era, addomesticando più o meno letteralmente i processi alla base del suo effettivo funzionamento. Il che costituisce soltanto un ulteriore modo per dire che si, c’è una macchina invisibile che governa il moto essenziale di cause ed effetti di questo mondo, ed il suo funzionamento, pur essendo spesso contro-intuitivo, può essere previsto mediante l’impiego delle giuste risorse analitiche o mentali. Ed è proprio questa, la fonte dei dogmi previsti nelle antiche discipline o filosofie religiose, molto più pragmatiche di quanto si possa pensare: tu indosserai vestiti, poiché in questo modo il tuo corpo sarà meno vulnerabile alle malattie; tu non mangerai carne di un determinato animale, poiché se si tratta di cibo che proviene da lontano, rischieresti d’introdurre nel tuo organismo batteri pericolosi; tu renderai omaggio al clero (questa è un’assoluta costante di tutte le culture); ed infine, una volta emulsionata e separata la parte semi-solida della sostanza alimentare di provenienza generalmente bovina e chiamata latticello, la rinchiuderai all’interno di un involucro di legno, pelli o corteccia, per procedere quindi in un sacro rituale di “offerta agli Dei”. O almeno, questo è quello che è stato ritenuto a lungo dagli archeologi, sulla base del comune processo d’iterazione che conduce spesso ad attribuire a motivazioni di carattere religioso o in qualche modo folkloristico tutte quelle attività, per una ragione o per l’altra attribuite all’uomo preistorico, la cui funzione appare massivamente poco chiara.
Un “burro di palude” (ammesso e non concesso che si possa usare la forma singolare di questo nome plurale indicante una quantità) è nei fatti un ammasso di sostanza cerosa solidificata e attentamente inscatolata, prevalentemente a base di grassi dalla chiara provenienza animale, ripescato più o meno accidentalmente dalle profondità di una palude di torba dell’isola inglese o d’Irlanda, in merito a cui datazione al carbonio permette di attribuire un periodo di origine tra i 1.500 e i 2.000 anni a questa parte, variabile a seconda dei singoli casi. Sepolto dagli abitanti di queste terre attorno alla tarda Età del Bronzo, probabilmente nei periodi di maggiore opulenza e in cui l’esistenza di un surplus permetteva di separarsi, anche soltanto temporaneamente, da copiose quantità di un fluido tanto prezioso. Sappiamo per certo in effetti, grazie a frammenti letterari e trattazioni risalenti all’epoca Medievale, di come il burro, lo strutto e il sego (alternativo prodotte dalla carne dell’animale stesso piuttosto che la sua secrezione naturalmente nutritiva) venissero comunemente utilizzati per produrre candele, impermeabilizzare le abitazioni e mescolato alla ghiaia e sabbia, al fine di creare una sorta di rudimentale cemento. Il che in aggiunta alla sua funzione alimentare, lo rendeva anticamente una merce di scambio piuttosto ambita, benché a differenza del sale o le spezie provenienti da terre lontane, avesse un problema di gravissima entità: dopo un periodo relativamente breve, diventava rancido, maleodorante e incommestibile. A meno che…
Veniamo a questo punto, come corollario essenziale della trattazione, alle effettive caratteristiche di una palude di torba. Quel tipo di bioma che sottintende, come è noto, vaste distese di resti vegetali semi-liquefatti e mescolati a terreno cedevole, sostanzialmente non troppo dissimile da un’altro stereotipo dei cartoni animati, le sabbie mobili. Fornendo nel contempo la base perfetta per far attecchire grosse quantità di muschio e licheni, che “succhiano via”, quasi letteralmente, fino all’ultima molecola di ossigeno presente nell’acqua che permea gli strati superiori del sottosuolo. Il quale si guadagna in un tale modo, in aggiunta alla temperatura gelida che tende inerentemente a caratterizzarlo, la capacità spontanea di generare le condizioni desiderabili del sotto vuoto. Attraverso gli anni, sulla base di questo, sono state ripescate dalle torbiere le cose più disparate, tra cui antiche mummie talmente ben conservate, da far pensare ai primi testimoni del loro ritrovamento di essersi trovati sulla scena di un vero e proprio crimine contemporaneo. Ed oggetti di tutti i tipi anche in materiali deperibili, come parti in legno di carri o canoe, o spade e scudi il cui metallo ancor sfavillante non presentava la benché minima traccia di ossidazione. Il che ci conduce, senza ulteriori indugi, al nesso e il cruccio centrale della questione: il burro di palude sarebbe a tutti gli effetti, volendo, ancora commestibile?
Diversi studi sono stati condotti sull’argomento, per lo più empirici (trattandosi dopo tutto, di reperti archeologici totalmente insostituibili) ed anche in funzione della logica che ci dice come, se pure una cosa non è andata a male in migliaia di anni dentro il suo perfetto “frigorifero naturale” tale stato di grazia dovrà cessare immediatamente, non appena la sostanza quasi del tutto solidificata viene esposta all’aria. In particolare l’archeologo sperimentale Ben Reade di Edinburgo, lavorando con mezzi per lo più primitivi, ha famosamente iniziato a riprodurre nel 2013 interi secchi della leggendaria sostanza, seppellendoli al fine di tirarli fuori ed assaggiarli a distanza di settimane, mesi ed infine, anni. Una procedura seguendo la quale né lui né alcun membro della sua famiglia, fino ad oggi, hanno subito conseguenze fisiologiche avverse. Poiché come in effetti già provato dalla scienza, la compatta pressione della torba impedisce a qualsiasi batterio malevolo di attaccare ciò che vie era stato sepolto, previa adeguata filtratura realizzata mediante un panno di stoffa, o una sorta di nido intrecciato con fili d’erba, sorprendentemente efficace nel rimuovere qualsivoglia traccia d’impurità. Di un qualcosa il cui sapore stagionato è stato a più riprese descritto mediante l’impiego di termini quali “selvatico” oppure “pungente” e “aromatico”. Traete pure le vostre legittime conclusioni. Lungi dal perdere il proprio interesse lungo il trascorrere del tempo, quindi, la sua impresa continuativa ha continuato a venire citata spesso su Internet e nel mondo accademico, fino alla recente pubblicazione di un nuovo studio dell’Università di Dublino (recante la firma di Jessica Smyth e colleghi) comparso sul numero di marzo della rivista “Scientific Reports” e finalizzato a una disanima dell’effettiva composizione di molti degli esempi di burro ritrovati negli ultimi anni, per un numero sorprendente dei quali è stato possibile rilevare l’effettiva presenza di latticini. In grado di renderli, essenzialmente, paragonabili alla versione contemporanea di un così universalmente apprezzato e apprezzabile alimento.
Detto tutto ciò ad ogni modo, l’interrogativo di partenza non può che riproporsi negli stessi termini, o quasi: per quale ragione gli uomini primitivi seppellivano il burro, se poi mancavano di tornare a prenderlo e impiegarlo in un qualsivoglia modo nel corso della loro esistenza su questa Terra? Le ragioni possono essere molteplici, a partire ovviamente da quelle rituali concepite in origine (Volere del Grande Spirito degli Antenati etc, etc…) benché esista una considerazione pragmatica che nel contempo, avrebbe ottime ragioni di probabilità. E una tale visione del mondo, assai prevedibilmente, è l’accumulo, altrimenti detto antenato preistorico del capitalismo. Se vogliamo tornare all’effettiva visione secondo cui il burro rappresentava un assai misurabile tipo di ricchezza, perché mai dovremmo dunque mancare d’immaginare i più facoltosi proprietari di armenti o capi villaggio del preistorico settentrione, che al fine di mantenere elevato il proprio prestigio ne immagazzinavano copiose quantità in luoghi probabilmente segreti, affinché il loro prossimo fosse eternamente cosciente del potere, e della maestosa presenza di questi veri e propri principi druidici del piazzale dei menhir…
In epoche successive della loro dinastia familiare, quindi, i nascondigli venivano potenzialmente dimenticati, mentre guerre, carestie o pestilenze causavano l’estinzione degli ultimi depositari di una così importante serie di coordinate. E il burro originariamente depositato a medio termine finiva per essere lanciato in maniera ragionevolmente integra, grazie alle caratteristiche particolari del suo luogo d’immagazzinamento, verso i più inimmaginabili recessi dei millenni a venire.
Sebbene oggi possiamo dire, grazie a dettagliati lavori come il recente studio condotto in Irlanda, di conoscere perfettamente l’effettiva composizione del burro di palude, il suo ruolo e la sua funzione sociale restano tutt’ora largamente incerte. Come è inevitabile, quando si parla di epoche in cui la registrazione puntuale degli eventi non avveniva mediante metodologie durature attraverso i secoli, o almeno non quanto l’approccio coévo impiegato per conservare il cibo. Dopo tutto per chi ancora ricorda, o ha visto di recente il cartone animato dei Flintstones, non risulta inerentemente difficile immaginare una società in cui molte delle nostre moderne comodità già esistevano, sotto una guisa o attraverso approcci risolutivi di tutt’altra natura. Le gomme dell’automobile tendevano a non consumarsi tanto presto, poiché granitiche, come del resto la pianta dei piedi impiegata dal capo famiglia, al posto di un fin troppo anacronistico motore. Ma chissà quali altri segreti inusitati, presto o tardi, potranno riemergere dagli ammassi di muschio e fango inglesi!