Molto del successo che la cucina dell’arcipelago è riuscita ad acquisire attraverso le ultime generazioni della gastronomia internazionale deriva, con conclamata evidenza, dall’abilità e il fascino della presentazione tipica di taluni piatti, che nutrono il nostro senso estetico ancor prima dell’organismo perennemente in cerca di nuovi metodi per garantirsi il sostentamento. Chi non conosce, soltanto per fare qualche esempio, l’aspetto invitante del sushi attentamente arrotolato nell’alga nori, la composizione artistica del pasto da asporto bento nella sua scatolina tradizionale in legno, oppure l’armonia di colori dei wagashi (dolci nazionali) con l’impasto di mochi (pasta appiccicosa di riso) o fagioli azuki, o ancora l’aspetto corroborante di un piatto di ramen o somen, pasta lunga con l’accompagnamento di una varietà d’ingredienti straordinariamente vari e diversificati tra loro. Potrebbe dunque certamente lasciare basiti sedersi all’interno di un ristorante alla moda di una grande città come Tokyo e ordinare un misterioso piatto di hachinoko (蜂の子) soltanto per vedersi portare una pietanza che non sfigurerebbe certamente in una qualsiasi puntata degli show di sopravvivenza dell’ex-soldato delle forze speciali inglesi Bear Grylls, famoso per nutrirsi di cose che in molti non si azzarderebbero neppure a chiamare “cibo”. Perché il problema vedete, è che l’occidentale medio può anche apprendere in linea teorica il significato di una combinazione d’ideogrammi ma il più delle volte, tenderà a interpretare le cose in maniera più o meno letterale soltanto in base alla situazione e il contesto. Ragion per cui difficilmente, qualora si trovasse a ordinare una pietanza denominata “figli (ko – 子) di (no – の) ape/vespa (蜂 – hachi)” egli penserà di stare per mangiare effettivamente, le larve di alcune delle più note impollinatrici vegetali, con tutto l’accompagnamento di orrore potenziale che ciò comporta. Ma la pressione sociale, reale o percepita, può portare a fare molte cose. E nell’ambiente formale di una simile situazione, circondati da un’atmosfera di assoluta serietà professionale, si può persino giungere a scoprire il fascino di un nuovo sapore…
Ora quando un giapponese usa il termine hachi, può in effetti riferirsi ad un vasto ventaglio di specie artropodi, grossomodo corrispondenti al clade tassonomico ancora non ufficialmente riconosciuto degli Anthophila, ovvero tutti quei particolari imenotteri, volanti per la maggior parte della propria vita, che sopravvivono utilizzando un apparato boccale succhiatore perfezionato per estrarre sostanze nutritive dai fiori. Nel momento in cui in Giappone ci si approccia all’argomento da un’ambito alimentare, tuttavia, è altamente probabile che l’insetto preso in considerazione sia la Vespula flaviceps, un calabrone tipico dell’Asia Orientale temuto da secoli per il dolore causato dal potente veleno del suo pungiglione. Ed assai amato, nel contempo, per il sapore notoriamente gradevole dei suoi neonati vermiformi, particolarmente apprezzati in prefetture come quelle di Nagano, Gifu ed Aichi, dove la distanza dalle coste rendeva assai difficile, soprattutto in epoca pre-moderna, poter disporre del principale cibo invernale dell’arcipelago, il pesce. È soltanto nel momento in cui si dovessero finalmente lasciare le ombre degli alti grattacieli metropolitani, meta di una soverchiante percentuale del turismo interessato a quel paese distante, che sarà possibile scoprire tutte le più profonde e complesse ramificazioni di una simile fonte d’alimentazione. Nonché una marcata propensione giapponese, certamente insospettata da molti, verso il campo apparentemente nuovo dell’entomofagia…
Particolarmente nel caso in cui capiti di assistere all’attività tutt’altro che rara, nei succitati luoghi, di un cacciatore di vespe fornito dell’attrezzatura tradizionale, che prevede l’impiego di un’esca a base di carne (molto spesso, si usa una rana) infarcita di una certa quantità di cotone. Ciò che avviene quindi in un ambiente sufficientemente rurale, è che le vespe in cerca di cibo aggrediscono piombano sull’insperata manna, iniziando a cibarsene e prelevando nel contempo dei piccoli pezzettini da trasportare fino ai propri nidi e alla prole in perenne attesa. Ma nel momento in cui si trovano a stringere tra le proprie zampe o mandibole dei voluminosi fiocchi di fibre filamentose, inizieranno necessariamente a volare più lentamente per via della resistenza dell’aria, risultando nel contempo assai più visibili in funzione della colorazione candida delle stesse, finendo per guidare il loro più temibile nemico fino alle sacre stanze esagonali della propria tana. Al che l’individuo attualmente in caccia procederà alla fumigazione, per stordire o addormentare le vespe, prima di raccogliere e fare completamente a pezzi il favo. Un destino da cui sono invece esenti le api, per ovvie ragioni economiche, dato che nel loro caso vige la regola di preservare la produzione parallela e ben più sostenibile del dolce, dolce miele. Attraverso le ultime generazioni dell’epoca moderna tra l’altro, data la progressiva nonché prevedibile riduzione della popolazione nazionale di vespe, i più spericolati apicoltori dell’isola maggiore dello Honshu hanno iniziato ad allevare in parallelo proprio quest’ultime, all’interno di speciali arnie completamente sigillate che vengono protette da freddo nei mesi invernali, continuando ad aggiungere fonti di nutrimento al fine di garantire un’idonea crescita dell’alveare. L’apertura di quest’ultime quindi, generalmente effettuata nei mesi all’apice della stagione fredda (novembre-dicembre-gennaio) costituisce un’occasione lieta, particolarmente in comunità dove fa seguito ad una festa folkloristica (matsuri – 祭) accompagnata da pietanze tipiche di sicuro effetto. Il cui sapore viene descritto, incidentalmente, come particolarmente ricco e simile a quello dei gamberi tritati o fritti. I quali del resto, a voler essere razionali, non è che abbiano un aspetto meno mostruoso tra il vasto consorzio delle bestie che abitano il pianeta Terra.
Per quanto concerne il nutrimento a base d’insetti d’altra parte, largamente consigliato dai nutrizionisti per l’alto contenuto di grassi insaturi, i giapponesi non sono certamente secondi ad alcun altro paese dell’Asia orientale. Altro piatto dalla diffusione piuttosto marcata è ad esempio l’inago (cavalletta o locusta) preparata mediante il metodo tsukudani, che consiste nella cottura con salsa di soia e zucchero, al fine di garantire la conservazione molto a lungo, facendone uno snack ideale per la vendita con funzione di prodotto tipico della terra (omiyage – お土産) o regalo di ringraziamento da parte dell’ospite (temiyage – 手土産) benché necessitino, per essere veramente apprezzati, di un palato e gusti percepiti come divergenti dalla visione urbana contemporanea. Non figurano del resto in maniera affatto rara i classici scenari proposti su YouTube di “sfide gastronomiche” condotti da giapponesi, che si cimentano nel fagocitare, con smorfie orribili, proprio quei cibi che i propri connazionali ancora apprezzano e stimano degni di un posto d’onore a tavola, assieme ad altre pietanze maggiormente convenzionali. Il che tende a generare ulteriore convinzione in coloro che preparano e mangiano abitualmente larve di vespa, cavallette, tricotteri o plecotteri (collettivamente chiamati zazamushi) come antico ausilio al fabbisogno stagionale di proteine, un bisogno più percepito che effettivo grazie alla rete moderna dei trasporti, benché interconnesso ad un gusto e un’atmosfera decisamente difficili da sostituire. Per non parlare del percepito valore aggiunto fornito dalla larva del mostruoso calabrone gigante o Vespa mandarinia (oosuzumebachi –
大雀蜂) a particolari bevande alcoliche, nelle quali viene talvolta sospesa e preservata a vantaggio dei futuri bevitori.
Detto questo, comprendete le implicazioni? Quando si ordina il cibo nei luoghi di ristoro di un paese non familiare, sarebbe appropriato aiutarsi col dizionario, oppure evitare i luoghi che non presentano un menù bilingue. Perché di sicuro assaggiare simili delicatezze gastronomiche così drammaticamente lontane dal nostro sentire può far piacere, nel tempo e nel luogo giusto. Ma sarebbe assai opportuno, prima di trovarsele nel piatto, essere pienamente coscienti della sfida verso cui stiamo instradando le nostre preziose papille gustative.