Il pesante silenzio di Varosia, città abitata dagli spettri del suo passato


Nessun movimento, zero automobili, neanche l’ombra di una persona. Mura cascanti di edifici parzialmente consumati, dopo 45 anni d’abbandono ed incuria situazionale. Chi avrebbe mai pensato di riuscire a incorporare in una singola occhiata dal cielo priva di artefatti o scenografie l’intero aspetto di una catastrofe urbana dalle cause non evidenti, così drammaticamente simili nei loro chiari effetti alle radiazioni sprigionate da una catastrofe nucleare? Ma questa non è Pripyat, vicino Chernobyl, né una vecchia scena ripresa dai Hiroshima o Nagasaki. Attraverso la storia più recente dei media autogestiti e indipendenti, quasi nessun strumento si è rivelato maggiormente versatile ed efficace dell’umile drone. Una piattaforma telecomandata e a basso costo, in grado di sorvolare le circostanze che si desidera documentare, senza mettersi direttamente in pericolo come con l’impiego di elicotteri tradizionali. E in casi come questo, dove il livello di rischio si avvicina molto a quello di una zona di guerra, proprio perché formalmente, siamo nel luogo che in tutto il Mediterraneo, presenta una storia maggiormente simile alla zona demilitarizzata tra le due Coree. Con una significativa differenza, in grado di renderlo se possibile, ancor più inquietante: il fatto che il territorio fatto oggetto di sorveglianza continua e un severo divieto d’accesso, punibile immediatamente mediante l’impiego di armi da fuoco sempre cariche, contenga l’intero estendersi di una vera e propria città, un tempo popolata da 35/40.000 abitanti ed oggi l’unico quartiere completamente disabitato di un centro abitato che la circonda, al di là di un alta recinzione formata da filo spinato, muri invalicabili e fichi d’India. Benvenuti a Famagosta, sull’assolata isola di Cipro ed in particolare nella zona derelitta di Varosia, il tempio del turismo un tempo noto come “la Riviera francese a largo della Turchia” prima che proprio quel problematico vicino nazionale intervenisse, con carri armati, elicotteri e truppe d’assalto, per porre la parola fine ad una crisi politica e d’ordine pubblico dalle pesanti implicazioni umanitarie. Ma sarebbe certamente ben difficile interpretare l’impiego diretto delle armi, in questo come altri eventi della storia antica e moderna, come un qualsivoglia tipo di miglioramento…
L’evento trasformativo noto come Operazione di Pace a Cipro (ironico, nevvero?) ebbe inizio nell’estate del 1974, benché la sua origine remota possa essere fatta risalire all’accordo stipulato a Zurigo nel 1960 per la lungamente desiderata indipendenza dell’isola, col beneplacito della potenza coloniale inglese e i due vicini territoriali Turchia e Grecia, che restituiva formalmente il controllo di questi luoghi al moderato leader politico Makarios III, arcivescovo e primo presidente di un paese che purtuttavia, non sembrava destinato a conoscere uno stato sociale di quiete solida e duratura. Vigeva tra queste coste fin dall’epoca dell’impero Ottomano, infatti, una situazione di convivenza interculturale tra la maggioranza della popolazione di etnia greca e quella proveniente dalla vicina Turchia, costituente circa il 30% del totale. Con occasionali, eppur sempre risolvibili attriti, sempre più spesso stemperati dallo spontaneo senso di amicizia e fratellanza delle nuovissime generazioni. Finché nella primavera del 1974, non venne scoperto come l’organizzazione nazionalista greca EOKA-B stesse organizzando un colpo di stato armato contro il governo pacificatore di Makarios III, che subito si affrettò a scappare dal palazzo presidenziale, venendo prelevato e portato in salvo a Londra. La situazione precipitò e i casi di violenza ai danni dei turco-ciprioti aumentarono drasticamente. Gruppi armati di milizie e vigilanti pattugliavano le strade. E fu allora, impugnando con furia le parole scritte nel trattato di Zurigo, che prevedeva il possibile intervento di ciascuno dei tre firmatari allo scopo di mantenere il delicato status quo vigente, che il capo di stato turco ed ex-ufficiale di marina Fahri Korutürk ordinò l’intervento militare da parte delle truppe del suo paese. E il destino del quartiere/città di Varosia, in quel preciso momento, intraprese la sua drammatica strada futura…

Così lungamente lasciato a se stesso, dietro continua sorveglianza da truppe armate, il quartiere di Varosia è stato progressivamente riconquistato dalla natura. Con piante che oggi crescono tra i muri e sopra i pavimenti, mentre l’acqua scivola copiosa tra le fessure dei muri. Ma dal punto di vista biologico e ambientale, qualcosa di sinistro prepara la sua venuta…

L’intervento militare turco a Cipro ebbe un gravissimo costo in termini di vite umane: almeno 6.000 persone, tra militari, para-militari e gente comune dell’isola di cultura e lingua greca, oltre ad ulteriori 800 facenti parte del gruppo dei sostenitori tra la minoranza etnica e il corpo di spedizione armato. E altrettanto grave, in termini di ramificazioni storiche, seppe dimostrarsi l’effetto ai danni del territorio. Come esemplificato dalla famosa “linea verde” che il generale britannico Peter Young aveva tracciato lungo una mappa della capitale Nicosia ben 10 anni prima, durante i moti popolari e le sommosse che stavano costituendo, all’insaputa di tutti, un antefatto dei rovinosi eventi futuri. Disegno di una zona critica che adesso, a fronte della fallimentare rivoluzione e conseguente assalto, si trovava esteso lungo l’intera terra emersa cipriota, fino alla celebre città turistica della costa Est, Famagosta.
Ma il problema principale, per un così ricco e allora popoloso centro abitato, era il modo in cui proprio qui i turchi avessero stabilito la propria base delle operazioni, causando l’evacuazione e conseguente segregazione dell’intero quartiere di Nicosia. Nel giro di quella fatidica notte tra il 14 e 15 agosto del 1974, data del secondo sbarco, decine di migliaia di persone furono costrette a lasciare le proprie case, indipendentemente dall’etnia di appartenenza, senza neppure il tempo di consumare la propria cena, chiudere l’acqua o il gas e preparare con criterio i propri bagagli. Diventando nei fatti, profughi nella loro stessa nazione, ormai fatalmente divisa. Tutti credevano che si sarebbe trattato di una situazione temporanea. Ma come c’insegna la storia nonché l’evidenza delle immagini riprese da quel sibilante drone di YouTube, così non fu.

Immagini di un’epoca felice e un tempo in cui il sole splendeva più luminoso: negli anni ’60 e ’70, Varosia aveva costituito un resort turistico dalle molte attrattive, frequentato abitualmente da star internazionali del calibro di Richard Burton, Elizabeth Taylor e Brigitte Bardot.

Appare del tutto impensabile, sotto più di un punto di vista, il fatto che con tante crisi degli spazi abitativi in corso nel Mediterraneo, dovute principalmente ai flussi migratori provenienti dal meridione del mondo, a nessuno sia venuto ancora in mente di sfruttare un’area tanto vasta e piena di palazzi all’apparenza ancora del tutto usabili e funzionali (un’impressione che in realtà svanisce non appena si varca una qualsiasi di quelle porte parzialmente corrose dall’umidità). Le ragioni in realtà sono molteplici, a partire da quella fondamentale di tipo normativo: il fatto che almeno formalmente, gli originali proprietari delle case o i loro discendenti sono ancora i proprietari dell’intero quartiere dove per ragioni meramente tecniche, ad oggi non è gli concesso di fare ritorno. E questo nonostante il decreto delle Nazioni Unite del 1984, che ordinava formalmente al neonato stato di “Cipro Settentrionale” (riconosciuto ufficialmente e per ovvie ragioni di convenienza, dalla Turchia) di restituire la zona d’esclusione ai suoi precedenti abitanti. Numerosi piani sono stati stilati quindi negli anni, il più famoso dei quali da niente meno che il settimo Segretario generale delle UN Kofi Annan, per la riqualifica e il recupero di Varosia, più volte rifiutati dalla classe politica dei due schieramenti o in veri e propri referendum popolari, in grado di oltrepassare eccezionalmente i confini blindati tra i due paesi. Mentre nel frattempo, la situazione architettonica del vecchio centro abitato continuava a degenerare, arrivando ad ospitare un pericoloso focolaio di cocciniglia e altre malattie vegetali, in grado di diffondersi rapidamente alle piantagioni di fichi d’India che costituiscono uno dei principali mezzi di sostentamento agricolo della comunità. E il tutto in una zona talmente vicina che talvolta, il muro con la parte abitata della città corrisponde con quello di scuole, parchi o altre istituzioni di pubblica utilità. Ed a ben poco sono servite, fino ad ora, le proposte provenienti da diversi visionari dell’urbanistica per il recupero della perduta perla all’altro lato di quella che era, un tempo, soltanto una strada indistinguibile da tutte le altre.
Il che è la prova, ultima e innegabile, che nessun tipo di catastrofe formalmente irrimediabile risulterà necessaria perché il mondo, per come lo conosciamo, vada incontro alla trasformazione di tanti romanzi e film di genere post-apocalittico, a cui sopravviveranno, come si usa dire nei proverbi, soltanto gli insetti dell’ordine Blattodea. Poiché col passare del tempo e i progressivi tentativi di riavvicinamento da parte degli attuali capi di stato, la riapertura di Varosia appare sempre più probabile o quanto meno auspicabile nel nostro immediato futuro. Così come, molto chiaramente, un suo ipotetico recupero potrà iniziare soltanto in un modo: la demolizione, e non soltanto metaforica, di tutto quel che ad oggi può soltanto costituire un terribile ricordo.

Lascia un commento