Non è affatto semplice, dal punto di vista dell’interfaccia uomo-macchina, inquadrare a 7828 metri profondità un qualcosa dai contorni indistinti, nonché dimensioni, forma e caratteristiche ignote. Eppure vien presto da immaginarsi, mentre si guarda il più famoso filmato mai ripreso da un ROV (Sottomarino a Comando Remoto) della Shell Oil Company presso Houston nel Golfo del Messico, che sia proprio la leggendaria creatura soggetto di tale registrazione a spostarsi in maniera impossibilmente rapida da un lato all’altro della scena, ricomparendo ogni volta un po’ più vicino all’osservatore. Imitando alcuni degli orrori eldritchiani immaginati dallo scrittore dell’horror fantastico H.P. Lovecraft, coi quali del resto è presente anche una certa somiglianza esteriore di base. A voler essere ottimisti, s’intende: poiché non c’è nulla, nella seppia gigante Magnapinna atlantica delle familiari membra antropomorfe di Cthulhu o Nyarlathotep, né del ventre materno della capra nera Shub-Niggurath, per non parlare della rassicurante onniscenza e illuminazione del loro eterno supervisore cosmico, la chiave e la porta, Yog-Sothoth. A meno di voler considerare ciò che potrebbe nascondersi al di sotto dell’ampio mantello (termine tecnico nella descrizione dei cefalopodi) o “corpo principale” al di sotto del quale si estendono lunghi tentacoli che scendono a scomparire nelle oscure profondità marine.
Risulta comunque assai importante questa testimonianza, risalente all’ormai remoto 2007, per la maniera in cui riuscì a fare breccia nella coscienza pubblica, forse proprio in funzione della sua visibilità non propriamente ideale, simile a quelle naturalmente associate agli avvistamenti di Bigfoot, Nessie ed altri criptidi più vicini alla superficie. Con un’importante differenza, al di sopra di tutte le altre: il fatto che a simili profondità, e in luoghi tanto remoti, l’ignoto abbia ancora ragione e modo d’esistere, riservando spazi a creature che potrebbero anche, per quanto ci è offerto di comprendere, provenire da universi paralleli o pianeti remoti. È un fatto pienamente acclarato, a tal proposito, che l’esistenza di un simile animale (se di ciò si tratta) non poté essere confermata da occhi umani prima del 1907, per un esemplare catturato accidentalmente a largo delle Azzorre da un gruppo di pescatori. Il quale comunque, tirato su dagli abissi della sua placida (?) esistenza, risulto a tal punto danneggiato da sfuggire inizialmente ad alcun tentativo di classificazione più approfondita che un’inserimento dubbio nella famiglia Mastigoteuthidae (seppie con tentacoli a frusta). Esperienza che ebbe modo di ripetersi almeno in parte nel 1956 presso le acque incontaminate dell’Atlantico del Sud, quando il biologo marino inglese Alister Hardy tentò d’inserire un secondo ritrovamento tra gli Octopoteuthidae, senza basi solide basate su metodi impossibili da confutare. Ma la svolta sarebbe avvenuta nel 1980, quando ai due studiosi Michael Vecchione e Richard Young vennero sottoposti altrettanti campioni rinvenuti questa volta nel Pacifico di quelli che potevano soltanto essere esemplari molto giovani dello stesso essere precedentemente annotato nelle pubblicazioni scientifiche, per il quale sarebbe stato finalmente coniato dopo 18 anni di studi e approfondimenti l’appellativo familiare Magnapinnidae, tutt’ora dato per buono. Ma la natura e la portata di un simile mistero, dinnanzi all’evidenza dei fatti, erano ancora ben lontane da un qualsivoglia grado significativo di risoluzione…
Volendo accennare quindi alle poche nozioni di natura biologica e comportamentale di cui disponiamo, quasi tutte di natura assolutamente empirica, sul tema di questa seppia straordinariamente elusiva ed almeno per quanto ci è dato di comprendere, rara, possiamo iniziare dal dato stranamente incerto delle sue dimensioni: ciò che occorre infatti considerare quando si osservano registrazioni effettuate a svariate migliaia di metri di profondità è l’oscurità del fondale, con conseguente assenza pressoché totale di punti di riferimento. Ciò che è stato possibile desumere tuttavia dalle immagini riprese nel 2007, poste subito in relazione con un video altrettanto famoso risalente a sei anni prima e girato da un ROV dello MBARI (Monterey Bay Aquarium Research Institute) presso l’isola hawaiana di Oʻahu, alla profondità di 3.380 metri, è una probabile dimensione degli esemplari osservati tra gli 8 e i 9 metri tentacoli inclusi, benché gli scienziati siano tutt’ora dubbiosi che ciò possa corrispondere alle proporzioni di un esemplare adulto. Il quale del resto, assai probabilmente, non si sarebbe mai spinto tanto in “prossimità” della superficie. Per quanto concerne d’altra parte l’aspetto ecologico, il tipo di sostentamento più probabile acquisito dalle seppie Magnapinnidae è stato giudicato provenire dagli stessi fondali marini, presumibilmente esplorati e rastrellati dalla creatura grazie al trascinamento sistematico dei propri lunghissimi tentacoli, oppure potenzialmente alla disposizione degli stessi in uno stato d’immobilità tale da fungere come trappole, pronte a serrarsi sull’incolpevole ed inconsapevole preda. È del resto palese, nell’atipica presenza di un vero e proprio “gomito” ad angolo retto nella parte più alta degli stessi, un qualche tipo d’intento evolutivo nell’ampliare la superficie al suolo coperta dagli stessi, esattamente come avverrebbe per l’attrezzatura di un sinistro burattinaio. Anche la lunghezza, ipotizzata essere uguale per ciascun braccio (diversamente da quanto avviene per le seppie comuni che hanno due tentacoli più lunghi, facilmente riconducibili alle trecce dei bambini-cefalopodi protagonisti del videogame Splatoon) potrebbe avere una funzione valida a tale scopo, oltre ad accomunare inerentemente l’intera famiglia alla categoria preistorica dei Belemniti, antichi cefalopodi dotati di uno scheletro solido e appendici chitinose.
Delle modalità con cui simili seppie trovano il proprio partner per l’accoppiamento attraverso le oscure distese del vasto mare, invece, non sappiamo alcunché. Certamente, dovranno disporre di un sistema dalla notevole efficienza e complessità, affine a quello di taluni pesci abissali o rane pescatrici.
Come? Dove? Perché? Il quando, almeno per ora, lasciamolo ad altri tipi di misteri! Quantunque simili essenziali domande possano, in relazione all’analisi situazionale di testimonianze variabilmente arcane, offrire strumenti per l’acquisizione mentale di proporzioni soddisfacenti, va di rimando considerata una semplice verità, pur sempre applicabile nell’Universo: che la pazienza è la più importante virtù di uno scienziato. La capacità di attendere, nonché rassegnazione al fatto che, per quanto ci è lecito comprendere, talvolta le rivelazioni non avvengono nel corso della nostra intera insignificante vita.
Continueremo, dunque, a inviare i nostri sottomarini telecomandati alla ricerca di… Qualcosa. Sperando, e temendo allo stesso tempo, che simili macchine possa un giorno arrivare al cospetto di… Qualcosa. O forse dovremmo a questo punto chiamare tale specifica scheggia d’esistenza col nome che gli compete. Ovvero… Egli, Colui. Qualcuno?