Leonardo da Vinci e l’uovo di struzzo che conteneva il mondo

Ci sono nomi, attraverso il corso della storiografia, la cui semplice menzione ai margini di un artefatto, un luogo, una situazione o un evento, tendono a surclassare ogni tipo di considerazione precedente, causando una valutazione del tutto diversa dei fattori effettivamente in gioco. Uno di questi, per lo studio del Rinascimento italiano, può essere senz’altro individuato nella figura dell’uomo d’ingegno universale Leonardo da Vinci, altrettanto importante per la sua arte, quanto riuscì ad esserlo nello studio e l’applicazione di numerose branche embrionali della scienza. Così è piuttosto difficile biasimare l’attribuzione incerta, nonché suggestiva, del curioso artefatto creato a partire da due gusci d’uovo di struzzo incollati assieme, ritrovato in una fiera delle mappe a Londra nel 2012 dal collezionista austriaco Stefaan Missinne, il quale si sarebbe trovato soltanto pochi anni dopo al centro di un letterale vortice d’ipotesi, suggerimenti più o meno accademici ed anche un libro, intitolato, forse per analogia con uno dei romanzi thriller più popolari dell’ultimi vent’anni, The Da Vinci Globe. E tutto ciò per la mera presenza, nel bel mezzo dell’Oceano Indiano per come fu rappresentato dall’incerto autore nel suo piccolo mappamondo, di una piccola barca molto simile alla caracca di un dipinto attribuito a Cristoforo de Predis, che ospitò con la sua famiglia il grande uomo nel 1482, esattamente dieci anni prima della scoperta dell’America ad opera di Cristoforo Colombo.
È importante notare, d’altra parte, come l’uovo in questione non potesse avere origine di sicuro in quel particolare periodo in quanto, e ciò è davvero molto, molto significativo, agli antipodi della suddetta imbarcazione figurava su di esso qualcosa di potenzialmente ancor più inaspettato: un continente triangolare identificato con la dicitura Mundus Novus, corrispondente grossomodo all’America meridionale, sovrastato soltanto da una piccola isola che potrebbe anche ipoteticamente essere la Groenlandia. Il che basterebbe a farne, con la datazione stabilita attorno all’anno 1504, il singolo più antico mappamondo il cui autore si fosse preoccupato di rappresentare uno dei continenti a ridosso dell’Oceano Pacifico, nella parte per così dire occidentale del mondo. Ancor prima, tra l’altro, della fondamentale mappa di Waldseemüller o Universalis Cosmographia, prima rappresentazione bidimensionale della stessa, ritrovata o rinnovata, cognizione da parte dei popoli Europei. In conseguenza di questo, ci misero decisamente poco le testate internazionali e gli altri articoli generalisti a far passare il messaggio che tale monumentale oggetto dovesse essere in qualche modo l’opera delle mani che, in quello stesso anno, avevano dipinto la Gioconda. Il può anche essere plausibile, se non probabile, benché il principale mistero del globo d’origine aviaria sia in effetti di tutt’altro tipo e relativo all’esistenza corrente, presso la Biblioteca di New York, di un altro mappamondo in rame noto fin dal remoto 1855, in cui ogni singolo dettaglio incluse le diciture testuali in bassorilievo ricalca perfettamente quelli che caratterizzano il soggetto di tante parole spese dai sedicenti studiosi dei nostri giorni…

Oggetti che attraversano i secoli nei modi più diversi, spalancando una finestra carica di significato verso i trascorsi dei nostri antenati più aperti all’avventura e la ricerca di nuove scoperte. Chissà perché così pochi, tra i primi mappamondi, sono giunti intatti fino alla nostra epoca corrente?

Il globo di Hunt-Lenox risalente al 1510, mostrato in questo video di Atlas Obscura e così chiamato in funzione dell’architetto Richard Morris Hunt, che ne aveva fatto dono al filantropo e futuro mecenate della principale istituzione libraria della città James Lenox, figurava in effetti, almeno in precedenza, come il detentore di svariati record di tipo cronologico. Primo mappamondo a raffigurare (parte de) le Americhe, terzo più antico ad essere giunto intatto fino ai nostri giorni e primo utilizzo documentato, su un effettiva espressione di tipo cartografico, della frase estremamente celebre in letteratura hic sunt dracones (qui ci sono i draghi) usata idealmente per sottolineare la sostanziale natura sconosciuta delle terre emerse in corrispondenza dell’area attualmente nota come il Sud-Est Asiatico. Forse la portatrice di un senso e un alone di mistero destinati a durare ben più a lungo di quelli al di là dell’Atlantico attraversato in diversi momenti da Cristoforo e Amerigo. Vige tra l’altro una connessione piuttosto interessante tra questi due aspetti contrapposti, che possiamo far risalire al nome insigne di un altro grande esploratore italiano, Marco Polo. Sembra, infatti, che tale locuzione potesse effettivamente riferirsi al popolo da lui citato dei Dagroian, cannibali che a suo parere, “Erano soliti divorare i propri stessi morti”. Ad ogni modo è certamente una fortuna che tale globo di metallo, prima di essere messo al sicuro nella sfera armillare che attualmente lo custodisce come uno dei tesori storici più rilevanti dell’intera biblioteca, non sia rimasto danneggiato dal figlio di James Lenox, che era solito giocarci come fosse una palla con il beneplacito del suo genitore, il quale rimase lungamente del tutto immune al suo fascino, non sospettando nemmeno che potesse valere una cifra in qualche modo significativa. Tutt’altra storia rispetto all’oggetto assolutamente coévo (1510) del cosiddetto Globus Jagellonicus, che successivamente alla datazione dell’altro gli ha conteso, per lungo tempo, il primato di prima mappa sferoidale rappresentante il Nuovo Mondo, in grado di costituire fin dal 1817 uno dei simboli più importanti dell’Accademia di Cracovia, nonostante alcuni errori geografici oggi assolutamente spropositati. Come la curiosa iniziativa, da parte dell’ignoto autore, di rappresentare le coste conosciute dell’area caraibica non una bensì due volte, nella posizione ad ovest d’Europa e poi ancora, in quelle che venivano all’epoca considerate in maniera piuttosto generica le “Indie Orientali”. Il che doveva aver trovato, per quanto ci è dato di capire, una motivazione di tipo per lo più matematico, in un impossibile tentativo di riconciliare i valori della longitudine tolemaica con l’evidenza delle nuove scoperte geografiche, ancora in corso di razionalizzazione dopo i viaggi dei grandi esploratori di quel tempo.

A volte i presupposti di sopravvivenza da parte di un oggetto sono misurabili nel suo valore estetico, capace di evidenziarne il valore agli occhi dei non iniziati. Ed è perciò possibile che la fortuna maggiore del globo Jagellonicus possa venire imputata anche alla sua superficie placcata in oro, certamente più attraente del marrone spento del più lungamente bistrattato Hunt-Lenox.

Tutti esempi ed evoluzioni successive rispetto all’uovo di struzzo attribuito (?) a Leonardo da Vinci, il che potrebbe effettivamente portare a chiederci, è possibile che esso rappresenti non soltanto il più antico globo a mostrare il Nuovo Mondo, ma anche quello più remoto ad essere giunto, miracolosamente intatto, fino alla nostra epoca del mondo contemporaneo appassionato di geografia? Tutt’altro, a dire il vero, per la pregressa esistenza di un altro mappamondo chiamato l’Erdapfel (mela terrestre) prodotto dall’esploratore di Norimberga Martin Behaim tra gli anni 1490 e 1492, costituito da una palla di lino laminata e ricoperta da una mappa dipinta da Georg Glockendon, oggi messo in mostra presso il Germanisches Nationalmuseum della città. Mappa nella quale figurano, esclusivamente, il macro-continente eurasiatico ed un immenso mare al di là dell’arcipelago di Cipangu (il Giappone) da un lato e l’isola leggendaria di San Brandano dall’altro, posizionata a largo d’Europa ben oltre le Canarie. Grandi assenti, tuttavia, di questa particolare rappresentazione cartografica, sono i consueti serpenti marini e vari altri mostri della tradizione risalente all’ormai trascorso Medioevo, dimostrando quanto meno un intento scientifico di partenza il quale, ad oggi, incrementa notevolmente il significato di un simile apparato.

Il globo dell’Erdapfel, unico tra quelli citati, è stato sottoposto ad un approfondito processo di mappatura tridimensionale, che oggi permette di visionarlo nella sua interezza in una famosa applicazione per cellulari. Un iniziativa simile è attualmente in corso di studio anche per l’Hunt-Lenox della biblioteca di New York.

Chi può dire, d’altra parte, che fine abbiano fatto tutti i mappamondi che devono necessariamente aver occupato le sale del potere e i palazzi degli uomini e donne più potenti della storia? Poiché sappiamo con certezza, checché ne dicano alcuni, che la forma sferoidale del nostro pianeta era nota agli antichi fin dall’epoca dell’astronomia greca, ed abbiamo notizia di un primo oggetto appartenente a questa classe di realizzazioni nel secondo secolo a.C, ad opera del filosofo Cratete di Mallo nell’odierna Turchia. Mentre il più antico esempio di un globo nella cultura del nostro paese può essere rintracciato nella statua classica dell’Atlante di Farnese, copia di una probabile scultura ellenistica, rappresentante l’omonimo titano che sorregge la sfera celeste, una raffigurazione mitologica delle 48 costellazioni osservabili ad occhio nudo dall’uomo.
Il che, pur non rappresentando direttamente la Terra che giace insistentemente al di sotto del lungo percorso dei nostri piedi, offriva un esempio evidente di quanto già in molti, credevano (ancora) di sapere: che niente è piatto, nell’universo, poiché le curve sono una funzione essenziale della natura. Men che meno la dura scorza dell’uovo, dal quale può nascere l’uccello più imponente in grado di galoppare sulle polverose strade della nostra Era.

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