Cos’è antico, cos’è moderno? Cosa è prezioso ed insostituibile, perché frutto dell’artigianato manuale di qualcuno? Cosa merita di essere per lungo tempo preservato? Vi sono oggetti dinnanzi ai quali assolutamente nessuno si sognerebbe di alimentare il benché minimo barlume del dubbio: gioielli ereditati, vasi della terza o quarta Dinastia, tele dipinte dalla mano di un celebre maestro. E orpelli di poco conto che derivano, piuttosto, dalla produzione in serie dell’industria, catene di montaggio prive di un cuore, sentimenti o soggettività, che nessuno penserebbe di salvare dalla cupa penombra di un robivecchi. A meno che risplendano di un tenue barlume arancione, configurato (casualmente?) Nella forma di una o più cifre dallo zero al nove. Che cambiano con alternanza che potremmo solamente definire, digitale… Nixie, Nixie tube o valvola termoionica fredda, un termine che potremmo definire l’ossimoro elettrico per eccellenza. Nella cultura germanica, il Nix o Näcken era uno spirito mutaforma, che emergeva dalle acque di un fiume assumendo una forma attraente per gli umani (molto spesso, si trattava di un cavallo) per trascinarli quindi in mezzo ai flutti fino al sopraggiungere dell’annegamento. Ma non c’era alcun intento subdolo, a parte di quello portare un qualche tipo di guadagno alla sua nuova azienda, nell’intento dell’ingegnere elettrico Saul Kuchinsky, che scelse un tale doppio senso per la contrazione commerciale del “Numerical Indicator Experiment No. 1” del 1955, creato con lo scopo di permettere alla Burroughs Corporation di imporsi come standard nel mercato dell’indicazione digitale. Per un fine che, soltanto dieci anni prima, nessuno avrebbe considerato in alcun modo necessario: offrire ai nuovi e più veloci calcolatori del mondo un modo per mostrare i dati all’utilizzatore, senza dover mettersi a stampare ogni volta un nastro, oppure far ricorso ai lenti, ed imprecisi indicatori analogici a lancette.
Come spesso avviene nei campi dell’ingegneria applicata, ad ogni modo, il più famoso Nixie non fu il primo, né l’unico dei metodi a disposizione della sua generazione tecnologica per perseguire lo scopo di partenza. Questa classe di meccanismi erano sostanzialmente un’evoluzione degli esperimenti del fisico tedesco Heinrich Geissler, compiuti nel XIX secolo con i tubi che portano il suo nome. Dei recipienti di gas le cui particelle costituenti vengono eccitate mediante la corrente elettrica, creando giochi di luce e inutili bagliori colorati. Successivamente fatti circolare, più che altro nelle aule di scuola, come curiosità scientifica o dimostrazione pratica del funzionamento dell’elettricità, almeno finché ad Hermann Pressler e Hans Richter non venne in mente, nel 1938, che il flusso ionizzante poteva essere fatto sfogare all’interno di un catodo (polo negativo del sistema) dalla forma intenzionalmente suggestiva, del messaggio al centro di un’insegna o qualche tipo di cartello luminoso. Per la prima volta, qualcuno osava sfidare il monopolio pubblicitario delle tradizionali insegne al neon…
Il limite fondamentale della “Nuova lampada a scarica del neon” era che pur soprassedendo in via teorica la costosa e difficile soffiatura del vetro nella forma desiderata, essa risultava limitata nelle dimensioni, in quanto la bolla per contenere il gas avrebbe dovuto avere dimensioni comparativamente molto superiori. Fu quindi l’immigrato tedesco a Londra
Hans P. Boswau, nel 1934, ad ottenere il primo brevetto che riusciva a compiere il passo successivo: se un catodo metallico immerso nel gas avrebbe avuto la capacità di comporre un qualche tipo di messaggio, perché limitarsi soltanto a quello? All’interno della bolla potevano trovare posto una pluralità di essi, capaci di cambiare in base all’apertura o la chiusura di un circuito di controllo. Era questa, la descrizione potenziale del primo apparato con tubi di Nixie al mondo, benché per quanto ci sia dato di sapere, l’invenzione non venne mai commercializzata ma soltanto mantenuta al sicuro nel segreto della sua abitazione, per un periodo di almeno vent’anni, anche in assenza di applicazioni pratiche nella società di allora. Fin quando, nel ’54, una compagnia americana di nome National Union Radio riuscì a produrre il cosiddetto Inditron, un tubo all’interno del quale la cifra in metallo piegato a mano avrebbe agito come catodo, mentre le altre nove spente di volta in volta sarebbero state riconfigurate elettricamente facendo funzione di anodo (polo positivo) lasciando risplendere il risultato dell’operazione immessa nel calcolatore. E fu già questa l’opera, come potenzialmente desumibile dal nome accattivante, di quello stesso Kuchinsky che avrebbe trovato un nuovo impiego, metodo e successo di pubblico presso la concorrente commerciale Burroughs Corp.
Come si può facilmente notare da uno dei milioni di video disponibili online in effetti, il concetto moderno del tubo di Nixie segue una strada molto più pratica e funzionale, in cui le 10 cifre possibili per ciascun elemento agiscono sempre e unicamente come catodi risplendenti, mentre l’anodo è costituito da una singola griglia metallica usata per mantenerle in posizione nella stessa bolla vetrosa di contenimento. Con il risultato finale di un contatore manovrabile tramite l’instradamento ad arte della corrente elettrica, in cui la posizione sovrapposta lungo l’asse della profondità delle dieci cifre possibili crea un’effetto estetico altamente caratteristico e considerato in qualche modo suggestivo dell’epoca trascorsa in cui simili meccanismi diventarono, per un breve periodo, sostanzialmente ubiqui in molti campi della scienza e dell’allora nascente ingegneria informatica.
La storia commerciale dei tubi di Nixie aveva tuttavia le ore contate, sopratutto in forza dei continui miglioramenti a cui andò incontro, a partire dalla metà degli anni ’50, l’ambito nascente dei Diodi Emettitori di Luce (LED) ben presto trasformati in un qualcosa di più economicamente conveniente, duraturo nel tempo e versatile nelle possibili applicazioni. Ciononostante, soprattutto in Russia un tale approccio continuò ad essere prodotto fino all’inizio degli anni ’90, creando un surplus di apparecchiature, calcolatrici ed orologi che tutt’ora vengono altamente ricercati dai collezionisti, con prezzi anche decuplicati rispetti al loro valore coévo. Tanto che nell’epoca di Internet, ancora una volta, è nata una sorta di sottocultura di estimatori trasversale ai rispettivi campi di competenza o background culturali, devota all’apprezzamento e la catalogazione di simili meccanismi, per non parlare di coloro che, armamentario da vetraio e piegatore di metallo alla mano, si sono messi a ricostruirli per preservarne l’arte costituiva, a potenziale vantaggio delle future generazioni.
Come ampiamente dimostrato in un certo tipo di cinematografia di fantascienza, quella rispondente ai crismi e i canoni dello Steampunk, ben pochi sono in grado di resistere al fascino retrofuturista di una lampadina usata al posto dei ben più mondani cristalli liquidi nella configurazione a sette segmenti. Laddove una sequenza prospettica di numeri, concepita per ostruirsi il meno possibile (in genere si usava 6 7 5 8 4 3 9 2 0 1) può indicare la linea temporale possibile in cui si sta vivendo la propria esistenza (il videogioco e l’anime di Steins: Gate) oppure il conto alla rovescia verso la “nascita” del Dr. Manhattan (la pellicola supereroistica Watchmen) o ancora, più semplicemente, l’ora terrestre nella stazione spaziale sospesa nell’infinità del cosmo… (Kubrick, Odissea nello Spazio).
Perché di certo, esistono alternative più pratiche al giorno d’oggi. Ma c’è davvero un qualche tipo di merito, nel seguire pedissequamente la linea della logica che ci guida in modo prevedibile alla fine del sentiero?