Il trionfo chilometrico delle improbabili alpiniste boliviane

Percepire, nel giro di un momento, il dissolversi del velo che divide le diverse percezioni, trasportando il proprio essere al di là del tempo. Mentre il vento che discende dalla stratosfera, trasportato oltre i confini dei continenti, discende contro il proprio volto ricoperto da un passamontagna in lana, occhiali protettivi e il casco simbolo di un’attività elettiva. Ovvero il sogno di molti abitanti del grigiore contesto urbano: venire fin quassù, assieme a buone amiche, costruire un valido ricordo e stabilire nuovi record come fosse una cosa da nulla. Mentre pensa questo, salutando mentalmente suo marito e il figlio, la capo-cordata abbassa i polsi lungo i fianchi variopinti; “Maldita sea!” sarà stato per un vortice di bassa pressione, che la prima e la seconda gonna minacciavano d’ingarbugliarsi?
Costituisce un’idea molto diffusa, anche grazie ai chiari precedenti, che l’attività di scalare una delle sette montagne più alte dei rispettivi continenti possa essere intrapresa a qualsiasi età, grazie a quella risorsa inesauribile che è la forza di volontà umana. Ciò è del resto riferito, per il semplice senso comune, a tutti coloro che un simile sport l’hanno saputo praticare per lunghi anni, a partire dalla gloria dei successi conseguiti in gioventù. Non a cinque donne di famiglia, cuoche per professione e anche nel fisico, con un’età che oscilla tra i 44 e 50 anni, la cui esperienza pregressa in campo montanaro prima del 2014 ammontava unicamente a preparare il cibo e l’equipaggiamento per i propri mariti, guide montanare della città di La Paz. E di certo, indossando qualsiasi cosa, tranne l’ingombrante abito tradizionale del suo popolo, interconnesso strettamente alla particolare categoria sociale delle cosiddette cholita, un termine che forse qui in Italia non saremmo abituati ad associare al ben più noto maschile, non diminutivo cholo (pl. cholos) il cui significato originario dovrebbe essere ricondotto al concetto “mezzosangue”. Laddove in effetti, attraverso i secoli, lo slittamento semantico l’avrebbe portato a riferirsi ad un concetto differente a seconda del paese di utilizzo: un gangster messicano, un immigrato negli Stati Uniti e in Sud America, secondo una lunga tradizione, quella fascia di popolazione indigena che un volta entrata in contatto con la civiltà europea, intraprese una serie di mutamenti nelle proprie dinamiche sociali. Tra cui una particolarmente degna d’encomio: l’emancipazione della donna. Di cholitas possiamo vederne tantissime, percorrendo con gli occhi e l’immaginazione le principali città e aree semi-rurali di paesi come il Cile ed il Perù. Sono spesso venditrici di strada, padrone di negozi o addette a servizi di vario tipo, sempre rigorosamente vestite di tutto punto, ingioiellate e col coronamento totalmente fuori dal contesto, specialmente in Bolivia, di quella che potrebbe quasi definirsi una bombetta in pieno stile londinese, se non fosse di due misure troppo piccola rispetto al diametro della testa. È tuttavia importante notare, a proposito di questo gruppo culturale composto largamente d’indigene di etnia Aymara e Quechua, come il termine cholitas avesse in origine un’accezione per lo più negativa. Ragion per cui riuscire ad incarnare un tale spirito, persino sulla cima dei 6.962 metri dell’impressionante monte Acocangua, maggiore al mondo fuori dall’Asia (il che lo rende ad ogni modo “soltanto” il 189° più alto della Terra) è la dimostrazione di un rinnovato orgoglio di categoria, acquisito attraverso i lunghi anni di conquiste di cui questa costituisce solamente l’ultima, benché di certo, una delle più notevoli ad aver trovato terreno fertile tra le vorticose correnti dell’informazione moderna.

Attentamente ripiegata nelle borse al seguito, una dotazione essenziale di queste vere e proprie eroine dell’America Meridionale è la bandiera dai riconoscibili colori boliviani, dispiegata con orgoglio al raggiungimento del punto più alto a disposizione. In un attimo saliente che non può certo fare a meno di richiamare qualche trattenuta lacrima di commozione.

La storia delle Cholita Climbers, un gruppo in effetti formato da ben 11 donne in pianta più o meno stabile tra cui le fedelissime Domitila Alana, 42 anni, Bertha Vedia, 48, Lidia Huayllas, 48 e Dora Magueno, 50,  inizia come accennato poco sopra cinque anni fa, con la scalata molto tecnica ma relativamente poco elevata del monte Huayna Potosí, coi suoi 6.088 metri circa 25 Km a nord di la Paz. Impresa a cui avrebbero fatto seguito, nel giro di soli due anni, l’Acotango (6.052 metri), il Parinacota (6.348), il Pomerape (6.281) e il notoriamente difficilissimo Illimani (6.402) tutti rigorosamente oltre la soglia dei sei chilometri e corrispondenti al tipo d’impresa che potrebbe, idealmente, risplendere sul curriculum di un qualsivoglia alpinista viaggiatore. Fino al succitato traguardo raggiunto verso la fine di questo gennaio, di quello che aveva rappresentato per loro un sogno di vecchia data: i 6,9 chilometri del maestoso Acocangua, capace di competere nelle grafiche di riferimento con l’Everest e gli altri principali monti del nostro pianeta. E questo sempre con gli strati sovrapposti di gonne e altri capi d’abbigliamento, rigorosamente indossati a coprire l’attrezzatura da scalata, come fondamentale simbolo del senso ultimo e il principale motivo della missione. Completo in ogni sua parte tranne che, per ovvie ragioni, le elaborate spille d’oro o d’argento e la fondamentale bombetta, in realtà uno tra gli elementi più riconoscibili del cosiddetto “stile cholita”, in merito alla quale c’è una storia in realtà piuttosto interessante. Vuole infatti la leggenda che, verso la fine del XIX secolo, due fratelli commercianti di Manchester avessero fatto produrre uno stock del popolare cappello britannico, da vendere a coloro che si stavano occupando di costruire in quel remoto paese la ferrovia. Ma che successivamente alla consegna, si fosse scoperto che gli scuri copricapi avessero per errore una dimensione troppo piccola per essere calcati da un uomo, ragion per cui gli addetti ne avessero fatto dono alle loro signore. E non è certo difficile immaginare il tipo di associazione che sarebbe venuta a crearsi, per lo più mentalmente, tra un indumento presumibilmente maschile e le sue portatrici appartenenti all’altro lato del confine tra i sessi: intraprendenza, rottura rispetto alle tradizioni e i costumi acquisiti, la ricerca ultrarapida della più avveniristica modernità. Un tipo di proficua equivalenza, tra i mondi maschile e femminile, che ritroviamo anche nella storia delle Climbing Cholitas, la cui origine parrebbe risalire a uno scambio quasi umoristico tra la fondatrice e il suo consorte, guida alpina dell’Illimani, al quale lei avrebbe chiesto con tono irritato “Ma una volta arrivati lassù, cosa fate?” Soltanto per sentirsi rispondere: “Perché la prossima volta, non vieni a vederlo anche tu di persona?”

Fighting Cholitas, le famose lottatrici di wrestling che operano nella città di El Alto: un altro tipo di sport alquanto estremo praticato dalle iconiche donne in costume boliviano, nel quale persino una ciabatta, se ce n’è l’occasione, può diventare un’arma dalla comprovata efficienza.

C’è un’ideale narrazione in tutto questo, e quella che potrebbe definirsi la perfetta realizzazione di un compito d’assoluta importanza, dinanzi alla categoria, il ruolo sociale e i doveri mantenuti nei riguardi dei propri parenti. Dimostrando a se stesse, ancor prima che agli altri, la maniera in cui determinate scelte prese non condizionano più di tanto ciò che si può scegliere di diventare un giorno… Persino se questo dovesse presentarsi sul cammino una volta superata la svolta centrale del nostro periodo di permanenza su questa Terra. Che tutti possono affermare, con basi solide, di aver conosciuto dal basso, mentre ben pochi hanno visto dall’angolazione diametralmente opposta, sopra le nubi ed oltre i confini del cielo distante. Perché riconoscersi come cholita o cholo non è soltanto un appellativo di classe, né tanto meno uno stile fashion relativamente fuori dal coro. Ma un potenziale stile di vita, che tuttavia non definisce, o contiene i limiti dei propri traguardi. O almeno così dovrebbe essere in una società, quella contemporanea, in cui le nozioni presunte soverchiano, molto spesso, l’eguaglianza palese di ogni etnia e nazionalità.

Lascia un commento