Molte sono le attrazioni d’importante rilevanza storica situate a ridosso del Mar Nero, particolarmente nella parte nord-occidentale dell’odierna Turchia, dove ebbe modo di prosperare per un periodo di oltre 2 secoli il più forte degli stati successori, eredi del potere e del prestigio di Costantinopoli la Grande. L’impero di Trebisonda, fondato dalla famosa dinastia dei Comneni a partire dal 1204 d.C, la cui forza d’animo e capacità di comando avrebbero permesso di sopravvivere persino alla possente Roma d’Oriente. Eppure il monastero di Sumela ovvero la “Montagna Nera” (Sou Melà) situato nel distretto di Maçka spicca in modo singolare per la sua lunga e articolata storia, a partire da un’epoca che si perde oltre le nebbie più remote dell’Alto Medioevo. Proprio quando, secondo le cronache acquisite, i due monaci itineranti provenienti da Atene, Barnabas e Sophronios, scalarono queste rocce alla ricerca di una visione inviata dalla Vergine Panaghia (“la più santa nei Cieli”) in persona, che indicava una grotta mistica come luogo in cui era stata nascosta una sua icona dall’apostolo Luca Evangelista durante la sua fuga verso Occidente. E fu così che ritrovandola e ponendola sul piedistallo d’ordinanza, gli ecclesiastici fondarono quella che sarebbe diventata in seguito la chiesa nella caverna, il sancta sanctorum di uno degli edifici turchi più incredibili che siano giunti intatti fino all’epoca contemporanea sostanzialmente intatti in ogni loro aspetto.
La ragione per la complicata architettura di questo luogo da anni chiuso al pubblico, nonostante la sua fondamentale importanza culturale, va del resto rintracciata dall’alto numero di potenti governanti e condottieri, che a più riprese scelsero di farne, indipendentemente dalla loro fede, un importante gioiello sulla corona del loro prestigio. A partire dal generale Belisario, inviato durante il VI secolo dall’imperatore Giustiniano I nella difficile (se non impossibile) missione di riconquistare i territori un tempo appartenuti alla gloria imprescindibile del grande Impero Romano. Il quale, investendo una parte considerevole dei propri fondi di guerra, ampliò e fortificò questo complesso, con il probabile piano contingente di farne una base per il proprio presidio nella regione. Ma fu soprattutto Alessio III Comneno (1349–1390) in un momento imprecisato del XII secolo, a investire gli ampi fondi del suo patrimonio per trasformare queste mura fin quasi all’impressionante aspetto contemporaneo, chiamando gli artisti più abili allo scopo di abbellirle con affreschi memorabili con l’obiettivo di rendere omaggio alla Vergine e il Salvatore, che gli erano apparsi per salvarlo durante una tempesta in mare. Fu questa l’epoca in cui la casta monacale di Sumela avrebbe assunto una notevole influenza politica e sociale, arrivando ad essere citata in una crisobolla del 1365 (decreto imperiale) per l’esenzione virtualmente completa dalle tasse, punendo allo stesso tempo tutti quei funzionari che avessero osato esigerne tributi considerati eccessivi. Ma al possente impero di Trebisonda, a quel punto, restavano esattamente 110 anni di storia, prima che i potenti Ottomani ne facessero una propria provincia al sibilo di lame e il boato degli archibugi. Eppure in qualche modo, ancora una volta, il monastero sarebbe sopravvissuto…
Sumela all’apice del suo splendore, e per come si presenta strutturalmente in maniera sostanzialmente invariata tutt’ora, costituiva un’impressionante esempio di architettura montanara, abbarbicata in uno spazio concavo dell’omonima montagna, che si affaccia sugli emozionanti boschi e la natura incontaminata del parco naturale della valle di Altındere. Il complesso colpisce per la maniera in cui sembra essere cresciuto in maniera del tutto organica e stratificata, a partire dalla lunga scalinata intagliata nella montagna che conduce dritta verso la chiesa scavata nella roccia, in parallelo ad un alto acquedotto probabilmente costruito in epoca soltanto molto successiva. Ed è lì quindi che, procedendo oltre un piccolo posto di guardia, si accede allo spazio altamente difendibile di una vera e propria serie di bastioni, oltre la quale trova posto il piazzale propriamente detto costruito su una serie di gradoni. Proprio qui, attorno a una fonte considerata sacra dalla fede Ortodossa, furono collocate attraverso i secoli svariate cappelle, le cucine, le stanze degli ospiti e degli studenti e la biblioteca del monastero. Strutture risalenti, in una buona percentuale, al periodo storico successivo al 1682, quando in tale sede venne formato e diventò celebre il frontistirio (la scuola) di Trebisonda, influente luogo di apprendimento e principale centro della corrente nota come Nuovo Illuminismo Greco. Dovete in effetti considerare come, all’epoca, le spropositate ricchezze depositate dai dinasti Comneni tra queste alte mura fossero state in buona parte prelevate e spostate altrove durante i lunghi due secoli di egemonia ottomana, e benché il monastero fosse stato posto a più riprese sotto la protezione dei sultani, come importante simbolo della loro egemonia nel Ponto, molta della sua intoccabile sacralità fosse andata via con esse, riportandolo nuovamente all’antico stato di fortezza montana.
La situazione, ad ogni modo, non sarebbe precipitata prima di altri due secoli e mezzo, quando successivamente all’inizio di quel problematico secolo che fu il Novecento, un accordo al vertice tra Grecia e Turchia avrebbe decretato uno scambio forzoso delle rispettive popolazioni a scopo di integrazione demografica, capace di causare terribili sconvolgimenti e di pari passo, l’abbandono sostanziale del monastero di Sumela. Successivamente a tale evento, con uno scopo probabilmente anche politico, gruppi sconosciuti di vandali s’inoltrarono a più riprese oltre la lunga scalinata, arrecando danni considerevoli alle antiche mura e gli affreschi contenuti al suo interno. Nel 1930 quindi, un uomo che si riconosceva come ultimo monaco depositario del culto della Vergine
Panaghia avrebbe sottratto di nascosto l’icona sacra dipinta da Luca Evangelista, per fondare attorno ad essa un nuovo luogo di culto sul monte Vermion, vicino la città di Naousa in Macedonia. Da quel momento e successivamente alla seconda guerra mondiale, riacquistando ironicamente parte dell’antica fama, il monastero sarebbe diventato una meta turistica rinomata, facendo la fortuna di svariati piccoli villaggi e comunità locali.
Restaurato per quanto possibile senza tuttavia tornare allo splendore degli anni del Medioevo, il monastero sarebbe quindi diventato una meta fissa di molti viaggiatori e pellegrini, fino alla sua chiusura nel 2015, perché minacciato da un rischio crescente di frante provenienti dalla cima della montagna di Sumela. Estensive opere di ripristino furono quindi, ancora una volta, intraprese, mancando più volte la riapertura prevista per un generico “anno successivo”. Benché alcuni sospettino che il governo turco stesse più che altro implementando nuove misure di sicurezza, in forza dell’associazione in ampie fasce della popolazione tra questo luogo e le deportazioni del primo ventennio dello scorso secolo, per non parlare delle dure repressioni culturali e religiose condotte a più riprese nella regione. La riapertura del complesso ad ogni caso sembra quasi certa entro la fine del 2019, anche in forza di un nuovo progetto assolutamente completo su carta, per la costruzione di una moderna funivia in grado di condurre con efficienza notevole gli aspiranti visitatori a destinazione. Perché non c’è sacralità di un simbolo, religioso o meno, che possa competere col tipo di risorse finanziarie e sociali concesse da una fiorente industria del turismo. E il dover percorrere faticosamente una lunga scala sconnessa di rocce erose dagli elementi, oggi come allora, limita in modo considerevole il target di una qualsivoglia presunta “attrazione”.
Dai muri parzialmente scrostati, eppur mantenuti in condizioni di pulizia assoluta dai loro moderni custodi, la Vergine Pataghia e suo figlio scrutano immoti gli spazi riecheggianti delle spaziose sale. Ben sapendo che molto presto, la loro veglia eternamente solitaria avrà fine.