Fu per molti versi, il momento culmine della nostra trasferta d’affari lunga 10 ore dalle mille luci riflesse nella baia della nostra affollatissima Shanghai verso il remoto distretto minerario di Krasnojark, nella parte estremo orientale della Russia, oltre le acque parzialmente ghiacciate del lago Baikal. Ma prima di varcare quella meta e con essa il confine del paese più vasto al mondo, il compagno di viaggio m’invitò a scrutare fuori dal finestrino, che secondo la metrica da noi acquisita in tante simili avventure finanziarie, questa volta era toccato a me: “In questo momento ci troviamo proprio sopra il distretto di Darhan” disse, scrutando attentamente Google Maps sul fido phablet aziendale. Tra poco, potrai scorgere la sommità della loro antica capitale, dove un tempo i khan dovevano prostrarsi innanzi a Zanabazar, il più potente sacerdote della Terra. Guarda, e vedrai.” Incorniciato nel grosso finestrino del 737NG della China Airlines, a quel punto, si profilò quello che poteva essere soltanto il monte Bogd Han uul, ricoperto da uno spesso manto d’alberi, così diverso dallo stereotipo dell’erbosa e pianeggiante Mongolia. “Eccola laggiù!” indicai d’un tratto, preso da un entusiasmo quasi fanciullesco. Ma c’era qualcosa che non andava, capii immediatamente. Nonostante il cielo terso e limpido, infatti, non vidi alcuna traccia di palazzi, strade o i famosi quartieri composti da file interminabili di ger, le tende nomadiche trasformate dalle famiglie in residenze di città. Il che sarebbe certamente apparso impossibile, per un centro abitato di oltre 1,3 milioni di persone, se non fosse stato per quello che figurava al suo posto: una cappa densa e pesante di fumo grigiastro, all’apparenza denso come orribile panna montata. “Tu credi?” Fece allora il mio collega. “Allora prova ad indicarmi il giardino del monastero. E sappi che a d’inverno, praticamente nessuno è mai riuscito a trovarlo.” Aggrottando le sopracciglia e stringendo ancor di più gli occhi, concentrai la mia attenzione al massimo consentito dalla stanchezza trattenuta con la cravatta…
Ulan Bator, o Ulaanbaatar (traslitterazione anglofona) che dir si voglia, si presenta come portatrice di numerosi pregi nella storia contemporanea mongola, come polo di concentrazione per tutte quelle famiglie che, in funzione della crisi economica globale e i mutamenti del clima, hanno finito per perdere gli antichi armenti del loro articolato percorso culturale. Per trasformarsi, da allevatori, in artigiani, accademici, amministratori, minatori… Ma questo luogo dagli elevati meriti caratteristici, e notoriamente un’industria musicale in grado di catturare l’attenzione dell’intero paese, presenta anche un problema fondamentale: il più alto tasso di malattie respiratorie nei bambini sotto i dieci anni d’età al mondo. Questo per una serie di contingenze sfortunate che derivano, in egual misura, dalle caratteristiche topografiche del suo luogo d’appartenenza e uno stile di vita condizionato dalle rigide temperature invernali latenti, capaci di raggiungere fin troppo spesso il punto in cui i gradi Fahreneit convergono con quelli Celsius (40 sotto zero). Ora, come potrete facilmente immaginare, è assai raro che una tenda per quanto accessoriata possa vantare un collegamento alla rete urbana per il trasferimento del gas, ragione per cui la gente tende a scaldarsi per così dire, alla vecchia maniera. Il che comporta, immancabilmente, l’impiego di quel tipo di stufa collocata al centro esatto dell’ambiente che può trasformare in calore pressoché qualunque cosa: legna quando disponibile, scorie di vario tipo, vecchi pneumatici ma soprattutto quando disponibile, quella sostanza amica di Prometeo che prende il nome familiare di carbone. E a scanso di equivoci, qui a Ulan Bator è particolarmente facile procurarsela, considerato come ci troviamo presso uno dei principali poli asiatici per la produzione di un tale materiale. Ovviamente, ad ogni singola stufa corrisponde una canna fumaria che fuoriesce al culmine del tetto lievemente spiovente della ger. Moltiplicate, adesso, quel visibile pennacchio per qualche centinaio di migliaia, se non addirittura un milione di volte…
Per comprendere perché sia tanto grave la situazione della capitale della Mongolia, che ha recentemente superato metropoli spropositate come Nuova Delhi e Pechino nella quantità misurabile di PM10 (particolato nocivo) nell’aria, occorre a questo punto spendere qualche parola sulla sua specifica collocazione all’interno del paesaggio: da quando ha cessato le sue peregrinazioni come città nomade del XVII secolo, questo popoloso centro abitato si trova, in effetti, in una letterale fortezza climatica tra il deserto del Gobi e le sconfinate steppe, fornita dalla zona collinare di Buyant-Ukhaa, il massiccio Songinokhairkhan e la già citata nonché sacra montagna di Bogd Han uul. Ragion per cui, l’aria che giunge fino a questo punto, è naturalmente soggetta al ricambio offerto dai venti degli strati superiori dell’atmosfera. E nulla più. In un mondo ideale, chiaramente, ciò non arriverebbe a costituire un ostacolo particolare al benessere della popolazione sottostante. Mentre sul nostro azzurro pianeta, purtroppo, occorre considerare il fenomeno dell’inversione termica. Conoscete quello di cui sto parlando? Quel momento fatidico, ampiamente documentato, in cui anomalie nel gradiente di temperatura portano a un riscaldamento delle correnti d’aria soprastanti, impedendo sostanzialmente al fluido sottostante di compiere la sua naturale risalita. Ed è a quel punto che ogni cosa smette di muoversi, inclusa l’aria satura di particelle potenzialmente letali. In casi estremi, come l’epocale e terribile grande smog di Londra del 1952 costato la vita a una quantità stimata di 4.000 persone, la città può trovarsi letteralmente ricoperta da una cappa impenetrabile di veleni, in una serie di giornate in cui la moltitudine dei ricoveri per i sintomi d’asma viene istantaneamente rimpiazzata da una conta sistematica dei defunti.
Vivere costantemente assediati dall’inquinamento è una condizione orribile, difficilmente immaginabile per chi non l’ha vissuta: questa forza tenebrosa che non soltanto ti attende nel momento in cui metti piede in strada, ma segue il tuo passaggio oltre la soglia, permeando i tuoi oggetti, suppellettili e vestiti. E naturalmente, chi si trova a pagare il prezzo maggiormente salato sono proprio le persone più vulnerabili ovvero i bambini, coi loro polmoni dal volume inferiore e ancora non del tutto formati.
La storia recente dell’unica grande città mongola è quindi un susseguirsi di tentativi effettuati dal governo allo scopo di sensibilizzare una popolazione che, per quanto possiamo facilmente desumere, è già al corrente del problema. Ma semplicemente, non può fare a meno di renderlo sempre più grave. Lo scorso marzo il Times inglese descriveva in un articolo la situazione drammatica della famiglia Totalkhan, il cui bambino piccolo già soffre di evidenti problemi respiratori per curare i quali, i genitori hanno bisogno dello stipendio da minatore del padre, che ironicamente lavora per estrarre ogni giorno il carbone dalle miniere appena fuori città, facendo della nera sostanza, allo stesso tempo, al sua condanna ed unica salvezza residua. Ed è particolarmente facile immaginare, per letterali migliaia di famiglie che continuando ad occupare le tende semi-congelate con la convinzione nata dal bisogno, storie o situazioni simili, semplicemente ineluttabili nel corso della propria difficile esistenza.
All’inizio di questo 2019 più o meno ricco di speranze, dunque, nessuna soluzione immediata sembrerebbe profilarsi all’orizzonte. La strada intrapresa quasi vent’anni fa mediante un finanziamento della Banca Mondiale, per distribuire tra la popolazione modelli più nuovi ed efficienti di stufe a carbone, si è infatti rivelato un mero palliativo, con i guadagni iniziali presto surclassati dall’aumento progressivo della popolazione cittadina. Mentre il piano per l’ampliamento dei quartieri con case in muratura connesse alla rete del gas, associato in via istituzionale a una data indicativa del 2030, potrebbe assai probabilmente giungere in grave ritardo. Nel frattempo la gente si arrangia come può, con mascherine protettive, filtri domestici e improbabili cocktail d’ossigeno, bevande letteralmente infuse di bolle tramite comuni macchine per l’acqua frizzante, pubblicizzate come valide alternative a “due ore di camminata nella foresta”. Va da se che la loro efficacia appare più che mai dubbia, anche soltanto in funzione del mero senso critico di chi le acquista, in mancanza di soluzioni migliori.
Che il mondo moderno abbia portato con se innegabili vantaggi nella vita degli ex-pastori nomadi della Mongolia, al culmine di quest’analisi, non possiamo certamente negarlo. Ciò che grava sulla testa della sfortunata gente di Ulan Bator, tuttavia, è la solita distribuzione diseguale di metodi e risorse. In assenza di un organo centrale per la tutela dell’ambiente o soluzioni e metodi alternativi per tutelare la purezza dell’aria (tutt’altro che una “mera” responsabilità di civile di tipo ambientalista) ciò che resta è solamente congelare per morire subito, o scegliere una fine più subdola e nel medio periodo. Rivolgete a loro i vostri pensieri almeno per un attimo, la prossima volta che viene chiuso il traffico nel centro della vostra grande città di appartenenza.