Nel suono cristallino dell’acqua che scorre spiraleggiando attorno alla colonna sempiterna riecheggia la nota di una distante risata, che si estende attraverso i secoli sull’ultimo capoverso di una curiosa storiella. Che inizia così: uno spagnolo, una svizzera e una francese entrano in un bar. Lo spagnolo è Pablo Picasso. La svizzera è l’artista concettuale di origini tedesche Méret Oppenheim. La francese è Dora Maar, fotografa, poetessa e pittrice nonché allieva ed amante del grande pittore e scultore di Malaga. Mera testimone silente di questo aneddoto, considerato tra i più importanti punti di svolta per l’arte del Novecento. Lo scenario: il prestigioso Café de Flore, luogo di ritrovo a Parigi per un’intera generazione d’innovatori e creativi di calibro assolutamente di primo piano nel panorama coévo. È il 1936, anno in bilico tra le due guerre mondiali e Oppenheim porta al polso il più curioso degli accessori, un bracciale di bronzo ricoperto da una folta pelliccia, probabilmente prelevata in maniera diretta a da un cervide o simile quadrupede del Settentrione. Al che Picasso, sorridendo, gli dice: “Ah, mia cara! Se soltanto potessi, ricopriresti di pelo qualsiasi cosa!” Lei sorride, lo guarda negli occhi, scruta Dora, poi volge gli occhi al tavolo. Sul tavolo c’è una tazzina di tè, ormai quasi freddo nel pomeriggio che volge al crepuscolo serale. Allora chiama con un gesto enfatico il cameriere per dirgli: “Buon uomo, potrei avere una pelliccia per la mai bevanda, prima che rischi di congelarsi del tutto?” Poi saluta gli amici, si alza e corre a far spese, prima di costruire la prima tra le sue opere che sarebbe stata acquistata da un’istituzione di fama, il Museo MOMA di Parigi.
Méret Oppenheim, unica donna e contributrice più giovane del movimento del surrealismo fondato dal suo ex Max Ernst, ulteriore evoluzione del Dadaismo, rimase per buona parte della sua carriera associata a questo concetto della decorazione irsuta degli oggetti comuni, benché essa costituisca soltanto una parte minima della sua carriera d’artista. A meno che non si voglia considerare un simile gesto in maniera figurativa, come per i celebri baffi tracciati sull’immagine della Gioconda dal suo mentore e maestro Marcel Duchamp, elementi fuori dal contesto in grado di modificare la percezione sostanziale del loro vicinato. Ed è proprio in tal senso, che potremmo scegliere di reinterpretare anche la creazione della maturità ed unica opera pubblica di lei, la più insolita e memorabile delle fontane collocata nella piazza che porta convenzionalmente il suo nome, posizionata esattamente al centro della capitale del cantone omonimo, nonché ufficiosamente, la Svizzera intera.
In un’intervista la nipote di Oppenheim, Lisa Wenger, afferma: “Quando la vidi per la prima volta ritornando dall’Italia, pensai subito quanto la gente di Berna fosse stata coraggiosa.” E con ciò lei intendeva riferirsi ovviamente soltanto a una parte della popolazione locale, poiché non poche furono fin da subito le petizioni e proteste per la rimozione di quella che poteva soltanto apparire come un’aggiunta terribilmente appariscente nella compunta e ordinata città medievale, ricca di testimonianze di un tempo per nulla psicanalitico e per certi versi, molto più facile da interpretare. Si trattava di una struttura principalmente in alluminio a sviluppo verticale, con uno scivolo a spirale per l’acqua tutto attorno e la versione ultra-stilizzata di un tempio di epoca classica a pianta circolare, soavemente collocato sulla sua sommità a ricordare l’Olimpo degli Dei distanti. Ma la parte migliore, nella storia della sua opera forse più (involontariamente) controversa, doveva ancora venire…
Sfortunatamente per tutti esattamente tre anni dopo l’installazione della fontana nel 1983, l’artista morì all’età di soli 72 anni. Per questo nessuno, tranne chi ha il desiderio e la capacità di trarre conclusioni dalla sua storia personale, potrebbe ipotizzare l’effetto che l’attuale stato della Spiralsaule avrebbe su di lei. Il problema principale dell’intera questione, dovete sapere, è che l’acqua di Berna presenta un contenuto particolarmente elevato di minerali. Abbastanza, in effetti, perché scorrendo sviluppi l’accumulo di depositi di quel particolare tipo di pietra porosa nota come tufo calcareo (da non confondere con il tufo comune, di origine vulcanica) analogamente a quanto avviene con le appuntite stalattiti che pendono in una caverna. O come nel caso di una scivolosa colonna verticale con appigli multipli offerti dal passaggio spiraleggiante dell’acqua, veri e propri bulbi sporgenti destinati ad offrire terreno fertile per varie tipologie d’infiorescenze erbose. Il che è altamente ironico, vedete, poiché la
Oppenheim aveva previsto in origine una forte connotazione vegetale per la fontana, con piante e fiori disposti tutto attorno al cilindro di metallo. Un’ipotesi considerata semplicemente irrealizzabile per come lei l’aveva descritta, finché nel progetto non venne coinvolto il professore di biologia e botanica dell’Università di Berna Klaus Ammann, che dopo un colloquio telefonico con l’artista ebbe l’idea di incollare alcune specie di muschio ed alghe altamente specializzate in diversi punti strategici della scultura. Con il risultato che queste non soltanto riuscirono a sopravvivere, bensì prosperare all’inverosimile, ricoprendo completamente ogni singolo centimetro a disposizione.
Ecco, dunque, come si presenta oggi la Spiralsaule: una struttura vagamente fallica, rugginosa e coperta di pietrosi tumori, con piante disordinate a fargli da chioma, in continua trasformazione per quanto concerne la propria forma e i colori che la caratterizzano. Questo perché mentre in primavera e in estate la fontana si ricopre di fiori e boccioli, durante l’inverno numerosi ghiaccioli pendenti si formano lungo il percorso spiraleggiante dell’acqua, nel realizzarsi di un effetto esplicitamente pianificato dall’artista. Vi lascio quindi immaginare il tipo di reazione che una simile condizione all’apparenza derelitta possa aver suscitato nei sempre più vocali detrattori dell’opera, benché non siano in pochi a pensare che l’intento creativo all’origine della fontana, in realtà avesse sperato in un risultato simile, estremamente suggestivo del processo creativo e al tempo stesso distruttivo della natura. Un imminente progetto di restauro, nel frattempo, è stato pianificato ma non ancora messo in atto per rimuovere alcuni degli accumuli più importanti di tufo calcareo, ma soltanto per il rischio che possano staccarsi all’improvviso, arrecando danni ai passanti.
La stessa nipote Lisa Wenger si è nel frattempo pronunciata sulla questione, affermando che l’autrice avrebbe senz’altro voluto un tipo di restauro più approfondito, mirato a riportare la colonna all’originale ed empireo splendore. Ciò in funzione di alcuni suoi ricordi della zia, sempre molto precisa nei suoi disegni ed attenta a far potare in maniera geometrica l’edera che cresceva sui muri esterni, affinché non compromettesse l’armonia architettonica della sua villa in campagna.
Il che costituisce senz’altro un appunto valido, benché conduca direttamente alla sempre rilevante domanda: si può davvero affermare che un’opera di natura pubblica, una volta entrata a far parte del patrimonio di una città, debba restare appannaggio esclusivo e sotto il controllo di colei o colui che l’ha creata? Perché se la Spiralsaule di Berna ha attualmente raggiunto uno stato all’apparenza così derelitto, ciò non può essere soltanto per un effetto della noncuranza, ma un effettivo intento di.
Il risultato, del resto, è sotto gli occhi di tutti: persiste un fascino assai unico, vagamente riconducibile all’estetica rigorosa ed essenziale del Wabi-sabi (侘寂) di talune opere estremo orientali, in questo gesto di lasciare che le cose continuino a procedere fino alle loro più estreme conseguenze. Di certo potrebbe trattarsi di una mera coincidenza! Ma non arriverei mai a definirla, una sfortuna…