Nella nostra percezione delle terre al di la dell’Atlantico, esiste spesso un netto meridiano che distingue gli Stati Uniti dal più grande paese nordamericano, famoso per gli alci, puma ed orsi delle alterne circostanze. Laddove la terra di Buffalo Bill, ispirata dal suo concetto fondativo del cosiddetto destino manifesto (“Uomo bianco, ciò che vedi ti appartiene di diritto”) ha percorso fino all’epoca contemporanea il più severo percorso di sfruttamento delle sue risorse, ricoprendo valli di cemento e laghi di oleodotti, perforando il deserto e tagliandolo mediante l’uso di rotaie, scardinando le montagne alla ricerca di bauxite o altri minerali di valore; mentre l’uomo nato sotto il segno della foglia d’acero, più tranquillo nel suo approccio alla natura e in qualche modo più “francese”, addirittura, rappresenterebbe un buon esempio di coesistenza con quest’ultima, a cui lascia un ampio spazio vergine e incontaminato. Il che non è del tutto privo di una base reale, capace di trarre l’origine da una coppia di particolari contingenze: in primo luogo, quanti POCHI siano effettivamente i canadesi, con una densità di popolazione concentrata unicamente al di sotto di una certa latitudine e che riesce a raggiungere, in media, appena i 4 abitanti per chilometro quadrato. Secondariamente, va considerato il movimento popolare acceso verso l’inizio degli anni ’90 con le cosiddette proteste di Clayoquot o Guerre della Foresta, culminanti con l’arresto di oltre 900 attivisti per i diritti degli arbusti e nel contempo, la nascita di una tardiva coscienza collettiva in merito all’aghifoglie questione. Iniziativa mai davvero terminata i cui attuali sostenitori, diretti discendenti di quel gruppo di coraggiosi contestatori, soltanto nel 2011 hanno trovato il proprio simbolo e monumento.
Soprannominato “Il grande Doug solitario” dall’appellativo comune della sua specie di appartenenza, l’abete di Douglas, questo è un albero che assai difficilmente può passare inosservato: situato non troppo distante dalla cittadina di Port Renfrew sull’isola di Vancouver, sulle coste del canale che conduce all’indirizzo dello Stretto di Puget, coi suoi 66 metri di altezza e 3,8 di diametro raggiunti attraverso almeno 1.000 d’esistenza riuscirebbe a spiccare anche tra i suoi simili, se pure lo circondassero da presso come per la prassi paesaggistica locale. Ma un destino più crudele dev’essersi abbattuto sulla punta del titano legnoso, come reso palese dal suo trovarsi in uno spazio di svariate centinaia di metri rimasto per lo più vuoto, fatta eccezione per i monconi dei suoi molti simili, abbattuti in un momento imprecisato di questi ultimi 10 anni. E quel disastro, come vuole la convenzione, è ancora una volta l’uomo.
Come dire “non m’interessa” del resto, a innumerevoli tonnellate del famoso legno di questi esseri, tanto resistente e pregevole da permettere di guadagnare oltre 10.000 dollari ad albero abbattuto, purché si tratti di un rappresentante del club superiore ai 50 metri… E poi cos’hanno mai fatto gli alberi per noi? Voglio dire, a parte permetterci di respirare…
Detto questo e in considerazione del fatto che il gigantesco Doug si trova, dopo tutto, ancora in verticale, va lodata almeno la scelta di qualcuno che seppe incarnare lo spirito dei vecchi tempi, ovvero quel forestale di nome Dennis Cronin, successivamente assai celebrato dall’autore letterario e giornalista canadese Harley Rustad, il quale avendo ricevuto l’incarico aziendale di marcare possibili zone di foresta primordiale da sottoporre la trattamento della sega elettrica, marcò questo particolare tronco e lui soltanto con la dicitura operativa “Leave tree” (albero da lasciar stare). Ed è impressionante pensare quanto sia labile questo scudo protettivo tutt’ora preservato a vantaggio del gigante, mentre il paese manca del tutto di una norma specifica per i suoi alberi più eccezionali. Una direttiva destinata tuttavia ad essere rispettata, fino al termine della complessa operazione del tutto compiuta a mano, perché non esistono macchinari automatici capaci di tagliare e preparare tronchi tanto svettanti quanto quelli degli Pseudotsuga menziesii, dal nome del naturalista scozzese Archibald Menzies che per primo li classificò nel 1791 all’interno di questo genus rigorosamente distinto da quello dell’abete tradizionale. Laddove David Douglas era un botanico suo compatriota, responsabile del prelievo e la spedizione del materiale di propagazione dell’albero verso la terra distante d’Europa. Preparando il terreno per la più assurda ed improbabile delle finalità future: ovvero l’eccellenza di questi veri e propri titani nella funzione di arbusti di Natale, purché tagliati prima di raggiungere la svettante presenza della loro maturità. La storia dell’esemplare Doug dell’isola di Vancouver fu tuttavia particolare sin da principio, o per lo meno dal momento imprecisato del nostro Medioevo in cui, secondo gli studi compiuti successivamente, una possente tempesta si sarebbe abbattuta nel suo particolare ritaglio di foresta. Spazzando via tutti i suoi simili ma non lui, rimasto solo ed imperterrito, capace di resistere ai venti grazie alla sua massa straordinariamente corposa. Forse la principale ragione per cui nel più recente 2011, successivamente al rinnovato abbattimento artificiale dei suoi vicini, si sta dimostrando altrettanto capace di resistere all’insistente crudeltà degli elementi. Il che risulta tanto più importante e lodevole, quando si considera che siamo di fronte, dopo tutto, al secondo abete più alto di tutto il Canada e di conseguenza, il mondo intero.
Della storia di Doug in epoca recente non c’è purtroppo moltissimo altro da dire. Più volte posto al centro delle campagne della Ancient Forest Alliance, influente associazione non profit con un largo sostegno popolare in Canada, famosa per aver trasformato il film dal messaggio ambientalista Avatar in un proprio emblema ricorrente, si è tentato a più riprese di proporlo come centro esatto di un nuovo possibile parco naturale, che potrebbe in teoria accrescere di molto il valore turistico dell’intera regione di Port Renfrew. Ciononostante la provincia, forse preoccupata di tagliare completamente i rapporti con le industrie del legname che ne hanno sostenuto tanto a lungo l’economia, tutt’ora esita nel dare al popolo dei Na’vi ciò che tanto enfaticamente chiede, come del resto, guardando la situazione dal nostro distante contesto di europei, sembrerebbe molto più facile e giusto fare.
Occorre tuttavia ricordare, in qualità di corollario all’intera faccenda, le famose parole dello stesso Cronin, boscaiolo dai 100.000 abbattimenti che seppe redimersi prima della sua recente dipartita per un brutto male, salvando il più incredibile degli alberi incontrati nel corso della sua carriera: “Se non avessimo lavorato tutta la vita in quella foresta, oggi nessuno conoscerebbe neppure il grande Doug solitario.” Nient’altro che un’ulteriore sostegno al concetto secondo la civiltà moderna sfrutta, instrada e coltiva la natura, non soltanto per semplici ragioni di profitto. Ma perché tante volte, ciò costituisce l’unica metodologia d’approccio possibile per interfacciarsi con essa, senza ritornare letteralmente alle origini di un’esistenza faticosa e grama. La domanda da porsi in ultima analisi è sempre la stessa: qual’è il valore di un albero, esistere e basta? Oppure esistere, ed essere conosciuto? Perché nel secondo caso, è inevitabile che qualche suo simile finisca per pagare il prezzo più elevato, facendo l’unico rumore che qualcuno sia disposto ad udire. Senza espansione, non può esserci esplorazione. È un concetto intrinseco nella logica basilare della grande frontiera americana.