La tartaruga bastarda del Pacifico (Lepidochelys olivacea) costituisce, tra le sei specie superstiti della famiglia dei Chelonidi, una delle più comuni soprattutto nei mari tropicali, dove spazia liberamente nel corso delle sue migrazioni attraverso le acque di 80 nazioni differenti. Detto ciò, è stato stimato come oltre un milione di esemplari vengano pescati per la loro carne annualmente soltanto all’interno dei confini messicani, senza neanche menzionare il valore commerciale purtroppo attribuito alle loro uova, molto apprezzate sopratutto nei paesi dell’Estremo Oriente. C’è un’importante distinzione da individuare, in effetti, tra le possibili ragioni per cui uno specifico animale viene inserito negli indici considerati a rischio d’estinzione. Uno status che può essere determinato a seconda dei casi, da un habitat relativamente ridotto, una popolazione in stato critico oppure come nel caso di quest’animale, soltanto perché ogni logica ci permette d’intuire come, attraverso gli anni, la bilancia del suo destino stia pendendo in modo progressivamente più sfavorevole e deleterio. Per ragioni di cui potremmo trovare l’esempio in un video come questo: la rete costruita artigianalmente, con indistruttibile quanto economica fibra di nylon, annodata a una collezione di semplici bottiglie di plastica e abbandonata da un pescatore locale, nella speranza di ritrovarla gremita a seguire, poco prima che il mare mosso, i venti e la semplice insistenza degli elementi la trasportassero altrove. Flash-forward di qualche settimana e quest’oggetto latore di condanna lo ritroviamo il giorno di Santo Stefano a largo della famosa località turistica di Puerto Vallerta, proprio di fronte alla prua di una piccola imbarcazione da diporto. Quella acquistata in Messico, come parte fondamentale di un viaggio avventuroso pianificato da molti anni, dai due fratelli norvegesi Magnus e Sverre Wiig, intenti nella loro prima escursione esplorativa documentata con tanto di ausilio alla navigazione fornito da un familiare iPad.
Cosa fare, dunque? Nel momento in cui si avvista tra i flutti un cumulo di… Qualcosa. Che potrebbe essere, al primo sguardo, inguardabile spazzatura, ovvero quello che in molti le triste implicazioni del mondo contemporaneo ci hanno insegnato ad ignorare. Molti ma non tutti e certamente non loro, che nell’avvicinarsi decidono di spegnere il motore e calare in acqua quello che potrebbe essere il gommone più sgonfio a nord dell’Equatore, con la ferma intenzione di raccogliere il tutto e trasportarlo in un cassonetto alla loro prossima destinazione. Se non che, verso il principio dell’operazione, il capelluto Magnus si accorge di una massa verde scuro intrappolata tra le spire di plastica fluorescente, quindi di altre due apparentemente immobili, immediatamente identificabili come tartarughe di mare. “Sono… Morte?” Chiede al fratello esitando soltanto un attimo. Perché ciascuno dei malcapitati animali, alquanto incredibilmente, respirava ancora.
Tra tutti rifiuti e relitti che possono venire abbandonati nell’Oceano, i flaconi, le bombolette, sacchi di plastica e le terribili ragnatele semi-trasparenti per lattine, la vera e propria rete da pesca è probabilmente il peggiore per le tartarughe di mare. Poiché resta a galla e quando quest’ultime, come costituisce loro abitudine, riemergono per prendere fiato, finiscono per trovarsele avvolte tutto attorno al guscio e alle pinne. Quindi, a seguito dei loro tentativi di liberarsi, la situazione non può che peggiorare. Una china apparentemente percorsa soltanto per un periodo piuttosto contenuto dal primo animale a cui Magnus si avvicina a bordo dell’incerta lancia di salvataggio (“Sponsorizzate un dinghy a quest’uomo!” Scherza nel suo commento audio il fratello) facilmente liberata sporgendosi fuori e mediante l’uso diretto delle mani. Ma è già dal secondo cliente dal giovane guscio che diventa chiara la necessità d’impiegare un paio di affilate forbici apparentemente facenti parte della dotazione di bordo, che dovranno essere usate dopo averne tirato a bordo la massa tutt’altro che indifferente. Niente al confronto, tuttavia, del terzo esemplare di tartaruga olivastra, assai più vicina al peso medio registrato per la sua specie di circa 50 Kg, la quale non soltanto risulta intrappolata ancor più a fondo nella rete, ma si agita e tenta di fuggire anticipatamente dall’abbraccio sdrucciolevole del suo salvatore “Torna qui [CENSORED]!” Esclama quindi l’eroico marinaio, afferrando con prontezza uno dei fili parzialmente tagliati, per continuare e portare a termine la sua opera di samaritano. Il piccolo contrattempo, tuttavia, si rivela una fortuna perché proprio mentre stava per ritornare a bordo dell’imbarcazione principale, Magnus avvista un quarto esemplare di chelonide, ormai talmente indebolito da non essere neppure riuscito a muoversi fino a quel fatidico momento.
La tartaruga bastarda (nome anglofono: olive ridley sea turtle) è normalmente un animale solitario al di fuori delle sue interazioni riproduttive, ragione per cui sembra altamente improbabile che i quattro esemplari trovati nella rete dai fratelli norvegesi appartenessero a una singola famiglia, intrappolata tutta assieme nel medesimo momento. L’unica occasione in cui questi animali usano radunarsi in veri e propri branchi è la ricorrenza annuale della cosiddetta arribada, quando centinaia se non migliaia di esemplari femmina prendono letteralmente d’assalto le spiagge messicane, industriandosi a scavare e deporre il loro prezioso carico di uova. Occasione in cui, molto spesso, diventano le peggiori nemiche di loro stesse, calpestando e facendo letteralmente a pezzi i potenziali futuri figli del turno precedente, ancor prima che possano farlo i coyotes, corvi, gabbiani o un qualsiasi rappresentante dei loro molti nemici naturali.
Ma poiché l’evenienza del salvataggio, molto evidentemente per una mera questione numerica, non è riconducibile a una simile drammatica occasione, apparirà assai probabile che le quattro tartarughe fossero rimaste intrappolate in momenti relativamente diversi tra loro. Teoria largamente riconfermata dallo stato pietoso della quarta malcapitata creatura, letteralmente ricoperta dal nylon come una mosca nella ragnatela, sulla quale l’Aquaman norvegese si troverà a dover armeggiare per un periodo decisamente più lungo, sopratutto nella regione del collo e della gola, dove i fili si erano ormai tesi minacciando di strangolare la tartaruga. Dopo aver pronunciato le fatidiche parole “Sembra un film dell’orrore!” Il paio di forbici raggiunge quindi l’obiettivo prefissato, e con la liberazione della povera vittima delle circostanze verso il mondo sommerso che gli appartiene, Magnus può finalmente tirare un sospiro di sollievo all’interno del suo gommone, ormai semi-sepolto sotto un groviglio color giallo paglierino.
Nella breve intervista post-operativa condotta dal suo collega e parente con tono evidentemente semi-serio, avrà quindi l’occasione di trasferirci un drammatico treno di pensieri: “Ad un tratto provavo ansia ed una sorta di legame con loro, quasi materno. Ho pensato NO! Io vi salverò, tartarughe!” Ben fatto, risponde il fratello. Un’altra vittoria per la causa più grande. E se vorrete seguire le future avventure dei due durante le loro esplorazioni marittime delle coste americane, vi consiglio di seguirli su Instagram, YouTube e magari con Google Translate sul Blog ufficiale in lingua norvegese (al momento in cui scrivo, non ancora aggiornato con l’esperienza incredibile delle quattro tartarughe). Qualunque sia l’itinerario che sceglieranno di seguire dopo questo meritato momento di celebrità, sono pronto a scommettere che ci sarà da divertirsi.