Tentai d’ignorare il ronzio di una zanzara grossa (all’apparenza) come un passero, mentre il battito di una falena minacciava di offuscare il mio equilibrio, facendomi cadere dall’altezza di circa 15 metri. Nel gettare momentaneamente uno sguardo di sfuggita all’orologio sotto il pallido lucore della luna, scorsi un paio di lancette che indicavano all’incirca le 3 di notte. “Come, come ho fatto a ritrovarmi in questa situazione?” Mi chiesi allora, il braccio destro saldamente avvolto attorno al ramo biforcuto dell’albero di Paraiba, l’altro a stringere la telecamera con luce incorporata, impugnata per il bene della scienza e la maggiore gloria del mio cognome, tra tutti gli altri pubblicisti dei diari scientifici attinenti all’ambito degli animali sudamericani. Fu esattamente quello il momento in cui sentii di nuovo il suo richiamo: BO-OU, BO-ou, bo-ou, bo-ou in dissolvenza, come il lamento di un Saci Pererê, la creatura mitologica brasiliana con l’aspetto di un elfo saltellante su una gamba sola, l’eterna pipa in bocca e l’indole notoriamente dispettosa… Eppure non c’era assolutamente niente dinnanzi al mio sguardo attentamente triangolato sulla fonte di quel suono misterioso: “Perfetto, proprio quello che volevo. Ciò conferma al massimo le aspettative di partenza. Click!” Spinsi allora il piccolo pulsante in cima all’apparato di ripresa, confidando nell’effetto riflettente di quegli occhi QUASI totalmente chiusi. Ed infatti, con mio senso estremo di soddisfazione lui/lei era lì. Perfettamente immobile, come una lucertola a mezzogiorno, in posizione ragionevolmente verticale in cima alla diramazione verticale di un ramo spezzato, probabilmente per l’effetto di un fulmine, dell’albero di fico antistante al mio. Molto più in basso di quanto sarebbe stato lecito aspettarsi, forse perché prossimo a lanciarsi a caccia d’insetti, sua forma di sostentamento principale. Le due fessure larghe circa un paio di centimetri ciascuna, come da copione, riflettevano perfettamente quel bagliore artificiale, mentre abbandonata per un attimo la recita, sapendo anche fin troppo bene di essere stato scovato, l’uccello aprì ancora il largo becco, formando il triangolo rosato di un arcano simbolo contro il fondale della notte. Fu allora il suo richiamo, all’apparenza disperato, aumentò all’improvviso di tono ed intensità, mentre l’uccello si apprestava a decollare e diversi tra i suoi simili rispondevano tutto attorno, nell’inizio dell’unico sistema di autodifesa che potessero annoverare nel loro repertorio aviario: l’attacco in massa. “What in tarnation!?” Sussurrai allora, in perfetto accento cockney del proletariato londinese…
La questione principale relativa ad un qualsiasi tipo di trattazione del nittibio, comunemente detto in lingua inglese potoo (contrazione di poor-me-ones, povero me) è che il suo intero genere dei caprimulgiformi presenta ancora numerosi aspetti non chiari, come del resto spesso capita per le creature che abitano principalmente la sommità degli alberi di uno dei luoghi più incontaminati ed inaccessibili del pianeta: le grandi foreste pluviali di Brasile, Colombia, Venezuela e dintorni, con piccole popolazioni distaccate nel Centro America e la parte meridionale del Messico. Il che, unito all’assoluta assenza di tratti distintivi tra i due sessi, rende ancora totalmente ignota quale sia il rappresentante della coppia che riceve l’incarico di custodire lo strano “nido”. Se così possiamo definire un semplice incavo scovato nella parte superiore di un arbusto, dove trova collocazione il singolo uovo deposto verso l’inizio della stagione piovosa nel tentativo e la speranza che possa passare inosservato. Perché tutto, nell’uccello che i locali chiamano urutao, è concepito per renderlo effettivamente trasparente allo sguardo di ogni potenziale predatore…
L’intero genere dei Nyctibiidae è costituito da sette specie molto simili tra loro e classificate un tempo tra i passeriformi, laddove in qualità d’insettivori notturni, la loro parentela più prossima è in effetti con i succiacapre e podarghi, comuni cacciatori dall’ampio becco del contesto forestale europeo. Rispetto a loro, tuttavia, questi singolari piccoli Gremlins presentano un adattamento ancora migliorato al mimetismo, con un piumaggio a macchie marroni e neri capace d’imitare alla perfezione la corteccia degli alberi, fino al particolare pattern delle scaglie sovrapposte di quest’ultima, che s’interseca in maniera estremamente realistica sul dorso delle loro ali. Normalmente il potoo, sopratutto quando si è accoppiato di recente e deve proteggere il suo nido, si preoccupa di cercare un tronco che ricordi il più possibile la sua specifica livrea, di cui sembra essere istintivamente a conoscenza. Successivamente alla schiusa, quindi, il piccolo dal piumaggio totalmente bianco tenderà a sembrare un muschio o lichene, saldamente abbarbicato alla cima del tronco tanto attentamente selezionato. Ma ciò che colpisce maggiormente la fantasia è lui/lei, esemplare adulto, perfettamente immobile col becco rivolto verso il cielo, al fine di nascondere perfettamente la sua sagoma, creando la continuazione essenzialmente indistinguibile del ramo. Questi uccelli, inoltre, possiedono la sorprendente capacità di vedere anche con gli occhi chiusi, grazie ad apposite fessure nella parte inferiore delle palpebre, potendo in questo modo determinare l’attimo preciso in cui sono stati scoperti, per fuggire o… Tentare l’ultima risorsa dell’attacco preventivo.
Esistono svariati miti e leggende popolari nel contesto del suo areale di appartenenza, che tendono ad associare l’urutao col suo caratteristico verso a un senso ultramondano di nostalgia. Pare infatti che verso l’era della Creazione, l’uccello un tempo superbo avesse tentato in ogni modo di raggiungere la luna, di cui si era impossibilmente innamorato. E che nel fallimento prevedibile di una simile ambizione, precipitando rovinosamente dagli strati superiori dell’atmosfera, avesse iniziato a praticare quel lamento che trascende i secoli, perennemente associato all’aleatoria cupezza delle notti brasiliane. E chissà che fosse stata proprio una così terribile esperienza, a donargli il suo aspetto vagamente bruciacchiato e distorto, vagamente suggestivo del concetto di un gufo alieno?
Il comportamento difensivo identificato con il termine anglosassone di mobbing (attacco di gruppo) è attestato soprattutto nella specie del nittibio comune (N. griseus) generalmente ai danni di qualche malcapitata marmosetta o altra scimmia pigmea eccessivamente esuberante nell’avvinarsi al prezioso uovo dell’uccello durante le ore diurne. Occasione in cui il preoccupato genitore, di una specie normalmente solitaria che s’incontra coi suoi simili soltanto durante l’accoppiamento, inizia a emettere un diverso tipo di richiamo, capace di attirare l’attenzione di tutti i volatili negli immediati dintorni, indipendentemente dalla loro genìa e provenienza. I quali, per una sorta di solidarietà pennuta, accorrono sulla scena dell’incombente disastro, volteggiando attorno e minacciando l’incauto primate, cercando di darsi il coraggio l’un l’altro per giungere a beccarlo direttamente. Un obiettivo molto spesso conseguito a pieno titolo, perché… Oltre il manto semi-solido che copre la foresta vale soltanto la legge degli uccelli. E chiunque osa trasgredire, andrà incontro alla più severa delle punizioni concepita da questi ultimi: tornare rovinosamente a terra, esiliati eternamente dalla luce del più grande e splendido astro notturno.
“Femmina, sono sicuro che fosse una femmina!” Esclamo allora all’indirizzo dell’infermiere dalla probabile discendenza Guaraní, che mi scruta con l’espressione perplessa di chi non riesce a comprendere una singola parola: “Era relativamente piccola per la sua specie, e poi le piume remiganti si sono spostate verso l’alto, mentre apriva gli occhi simili a fari per prendere meglio la mira.” Mentre il nativo, con un sorriso intimidito di circostanza, posizionava il grosso cerotto al centro della mia fronte dannatamente fortunata. Precipitata, con tutto il resto del corpo, direttamente dalla parte più bassa del tronco di ficus in un folto cespuglio sottostante. “Capisci, se fossi rimasto lassù avrei spaventato il piccolo e l’uccello adulto avrebbe ricevuto una dose immotivata di stress…” Fu allora che nel prolungato attimo di silenzio imbarazzato, l’infermiere si voltò d’un tratto verso la finestra del pronto soccorso, quasi totalmente spalancata. Dalla quale proveniva, in lontananza, l’ormai familiare BO-OU, BO-ou, bo-ou, bo-ou […] Con un sorriso lievemente sghembo inviai lo sguardo alla custodia della telecamera appoggiata a lato della mia gamba sinistra, sotto il braccio dell’addetto ospedaliero. Che alzò lievemente le spalle, mentre pronunciavo in modo udibile: “La scienza non ammette infortuni, non c’è alcun motivo di fermarmi adesso…”