Il principale fraintendimento che condiziona la percezione generalista del drago d’Asia è che esso sia una creatura esclusivamente celeste, serpeggiante tra le alti nubi che nascondono il Sole e la Terra. Ma la realtà è che simili esseri, contrariamente ai loro omonimi occidentali asserragliati in vaste caverne, tra scheletri di vergini sacrificali, equipaggiamento carbonizzato di avventurieri e letterali cumuli d’oro, possiedono più di un’interpretazione valida a definirli. Con un ruolo che corrisponde, essenzialmente, a quello di veri e propri signori degli elementi. Tutti e cinque (secondo l’alchimia cinese) inclusa l’acqua, dove risiedeva il più antico e potente di tutti loro. Huánglóng, il Drago Giallo: signore supremo dei mari, fiumi e laghi, sovrano capace d’indurre la caduta delle piogge e con esse, il passaggio delle stagioni. Il che implica, incidentalmente, un certo potere latente nel cadenzare la metamorfosi e la schiusa dei suoi rappresentanti più prossimi nel mondo degli insetti, queste farfalle del genus Lamproptera, capaci di volare e nuotare allo stesso tempo.
Insetti chiamati anche Yàn fèng dié shǔ (燕鳳蝶屬 – Coda di Drago Verde) come determinato da una piccola macchia cangiante sulla sommità delle due ali principali. Che non è certo l’elemento maggiormente visibile, né memorabile della creatura, misurante appena 55-60 mm di lunghezza. Il cui tratto dominante risiede, in effetti, nella capacità di attirare gli sguardi dalle due lunghe derivazioni che partono dal fondo delle sue ali posteriori, estendendosi per una lunghezza capace di raddoppiare quella complessiva dell’animale. Per non parlare della vistosa livrea a strisce bianche e nere che s’intersecano, tutto attorno a una finestra cartilaginea completamente trasparente posta in posizione centrale (lo ialino). Ma tutto il resto svanisce dal secondo istante d’osservazione, nel momento stesso in cui questi memorabili lepidotteri spiccano il volo. Con un’agilità certamente invidiabile da parte dei loro simili di altre provenienze, riuscendo a ruotare sul posto e potendo così restare sospesi, così, quasi come fossero dei piccoli colibrì. Tanto che, con una leggera brezza sollevargli le code, l’impressione che se ne riceve è che ci si trovi dinnanzi a dei pesci magici in uno strato d’acqua totalmente impossibile da vedere, ove il significato della parola “gravità” tende ad assumere un significato radicalmente diverso da quello di superficie.
Finché stanchi per la loro ricerca frenetica di una consorte (dopo tutto, una volta compiuta la trasformazione dallo stato primigenio di bruco, gli restano soltanto pochi giorni di vita) le aggraziate creature si posano a suggere l’acqua da una pozza tranquilla ai margini del sentiero, le ali ordinatamente raccolte al di sopra del tozzo addome. Per iniziare prosaicamente, pochi secondi dopo, a spruzzare dei getti d’urina perpendicolarmente al suolo.
Svariati aspetti dunque, nella L. meges così come nella sua specie consorte più rara della L. curius (differenziata unicamente dal colore bianco della macchia sopra le ali) sono concepite dall’evoluzione per associarle a un tutt’altro tipo d’insetto, la cosiddetta libellula o in lingua inglese, dragonfly o la sua unica compagna superstite del Carbonifero, l’effimera dalla brevissima esistenza (Ord. Ephemeroptera). Vedi lo stile di volo, l’associazione indissolubile ai corsi d’acqua, la forma allungata richiamata dalle due affusolate “code”. Ciò è tipico della loro intera famiglia dei Papilionidi, in cui il mimetismo aposematico, sopratutto per le femmine, è una dote irrinunciabile della forma adulta/riproduttiva, la spesso stravagante ed in qualche modo memorabile imago, concepita per ricordare vespe, uccelli predatori, serpenti ed altre temibili amenità. Un gruppo a cui appartengono alcune delle farfalle più grandi al mondo, oltre a questi piccoli e serpeggianti visitatori dei pomeriggi trascorsi tra la natura di Thailandia, Laos, Vietnam, Cina e le Filippine, così sostanzialmente attestati nell’intero Sud-Est Asiatico, benché non sempre comuni all’interno del proprio habitat di appartenenza. Tanto che esiste almeno un luogo, la foresta di Rani-Garbhanga nella parte nord-orientale dell’India (regione di Assam) in cui gli enti governativi si sono sentiti di nominarle animali protetti, salvo andare incontro ad una probabile quanto irrimediabile sparizione dall’intero territorio locale.
Per quanto riguarda la loro sopravvivenza durante il periodo relativamente lungo trascorso con lo status di bruchi (circa 3-4 settimane) le larve delle farfalle-drago risultano d’altra parte tutt’altro che prive di strumenti di autodifesa. Possedendo sulla sommità della testa, come molti dei loro più prossimi vicini genetici, la corta proboscide biforcuta dell’organo noto come osmeterium, capace di sprigionare una sostanza maleodorante ed appiccicosa, egualmente invisa a formiche, ragni e vari tipi di possibili parassiti. Per il resto, la larva appare di colore verde chiaro con piccoli puntini neri e la testa del tutto nera, benché l’unica immagine reperibile facilmente su Internet appartenga, purtroppo, a un catalogo di fotografie stock per l’ambito pubblicitario (non che io vi stia consigliando di andarvela a cercare su Google…). La differenza a questo stadio della vita tra le due specie tradizionalmente riconosciute risulta essere del tutto trascurabile, così come quella della terza varietà identificata soltanto nel 2014 in uno studio di Shao-ji Hu et al. (Discovery of a third species of Lamproptera Gray, 1832) la L. paracurius riconoscibile nella sua forma adulta principalmente da una forma più sofisticata dell’apparato genitale. Una volta che il maschio avrà quindi raggiunto la sua consorte, e passatogli il prezioso tesoro biologico dello spermatoforo (previa cauta “otturazione” del condotto di fecondazione mediante l’uso di un’apposita secrezione appiccicosa) sarà quest’ultima a doversi recare presso la pianta ospite, generalmente un rampicante o liana del genus Illigera, al fine di deporre le proprie 100-200 uova, saldamente assicurate alla parte inferiore di una foglia. Affinché dopo la schiusa, i suoi pargoli possano farne un verdeggiante quanto simbolico colabrodo.
Una caratteristica del Re dei Draghi secondo la filosofia orientale era, come avviene per molte divinità di matrice taoista esportate dalla Cina, la tendenza a manifestarsi sotto mentite spoglie, spesso molto facili da sottovalutare. Come nella leggenda giapponese del grande guerriero Takenouchi no Sukune, vissuto all’epoca dell’imperatrice semi-leggendaria Jingo Kogo (170-269 d.C.) da lui fedelmente servita per un periodo di molti anni. Quando all’improvviso ricevette, per il tramite di una misteriosa figura che gli era apparsa in sogno, il compito di uccidere il più terribile dei mostri marini. A chiederlo, una figura presentatosi al suo cospetto con l’aspetto di un anziano signore, accompagnato dal suo famiglio travestito da aragosta, che gli fece dono di una magica sfera capace di controllare le tempeste ed il moto delle onde. Sicché l’eroe, immergendosi coraggiosamente con la spada ben stretta tra i denti, ebbe modo di portare prevedibilmente a termine l’ardua Ricerca. Sarebbe tuttavia del tutto superficiale, nonché approssimativo, considerare l’aspetto di un fragile vecchio come quello preferito da un Dio nel momento di chiedere un favore a un umano, per mere ragioni di convenienza. Il drago, come sua innata prerogativa, costituisce il trasporto ai più elevati termini del suo contesto generativo di appartenenza. Così nelle sale di un’imperatrice, egli non potrà che essere un rispettoso ed amichevole funzionario. Nel tempio buddhista, un bonzo meditabondo e silenzioso. Mentre nelle profondità della foresta, potrebbe scegliere di librarsi lieve, tra il fruscio delle fronde incostanti. Come in tutte le cose, occorre un occhio attento per scrutare i più significativi dettagli. E cogliere, tra scaglie iridescenti, il lieve baluginìo della perla che può condurre all’immortalità.