Vita e morte nella sfera sotto il bombardiere americano

Mentre osservava le scie tratteggiate dei traccianti tedeschi, mitragliate attraverso il cielo come altrettante code di cometa rispedite in un’orbita geostazionaria, Melvin scelse di esprimere il suo pensiero senza neppure curarsi di appoggiare il rotolo di carta bianca: “Ce l’abbiamo fatta, ragazzi, siamo sopra la dannata fabbrica di Wiener Neustadt! Proprio come provato durante l’addestramento…” Raymond e Kenneth, i due addetti ai cannoni laterali, fecero una smorfia tra il nervoso e il divertito. Joseph del pezzo posizionato in corrispondenza della coda aprì la bocca come se stesse per dire qualcosa, poi la chiuse di nuovo, tappandosi in maniera drammatica il naso. Ma fu il capo George, ingegnere di volo/manovratore della mitragliatrice posizionata al di sopra della fusoliera a rispondergli per primo: “Adesso fai silenzio ragazzo e vieni qui. Ti aiuto a metterti in posizione.” C’era stata in effetti una piccola violazione del protocollo di missione sulla fortezza volante B-17G numero 44-85413, nome in codice Fiery Rebellion, concessa dal capitano in considerazione della giovane età del torrettista assegnato all’essenziale sfera da combattimento Sperry, l’unico apparato capace di rispondere al fuoco nel punto più esposto al fuoco dei caccia nemici. Melvin mise quindi da parte il vaso da notte, non senza una punta di vergogna, confidando che qualcun altro se ne sarebbe occupato in considerazione del suo importantissimo dovere militare. Affrettandosi a tirare su i pantaloni dell’uniforme, accarezzò quindi il piccolo ciondolo a forma di martello di Thor che gli era stato regalato da suo nonno, veterano della grande guerra, e aiutò il capo a girare la manovella collegata all’impianto idraulico, usata per rimettere in posizione la botola superiore della Sperry. Dopo appena una quindicina di secondi, con la doppia canna delle potenti Browning calibro 50 incorporate negli alloggiamenti rivolte quasi perpendicolari al suolo, le maniglie del portellone si presentarono in tutta la loro scintillante magnificenza di fronte ai due, assieme alla scritta KEEP LOCKED (Come dimenticare, del resto, la leggenda cautelativa del malcapitato collega che avendo mancato di chiudere adeguatamente la sfera, era precipitato lungo un tragitto di 20.000 piedi fin sopra le fortificazioni del suo stesso campo di volo, a Nashville…) Tirato quindi a se il meccanismo di apertura, George lo sorresse per le spalle come avevano provato più volte, mentre lui posizionava in un solo fluido movimento i piedi in corrispondenza degli appositi supporti sul fondo dell’angusta capsula di combattimento. Odore di grasso per motore e cordite, emanato dalle due scatole di munizione a lato del sedile. Mentre afferrava quindi il sistema di controllo collegato all’impianto elettrico, con le ginocchia praticamente all’altezza del mento e le orecchie tese a prendere nota della corretta chiusura del portellone, Melvin pensò per l’ennesima volta: “Non me lo ricordavo tanto scomodo, il grembo materno…”
Tra tutti i racconti di coloro che presero parte durante la seconda guerra mondiale alle missioni di bombardamento americane, nessuno risulta probabilmente ansiogeno e rocambolesco quanto quello di chi, abitualmente, si trovava a dover controllare l’arma più caratteristica e rappresentativa di tali velivoli, mai riprodotta da nessun altro schieramento del più grave e costoso conflitto nella storia dell’umanità. Benché dal punto di vista organizzativo, in effetti, ciascuno degli addetti alla difesa dei B-17 Flying Fortress e B-25 Liberator fosse abilitato all’uso di ogni singola postazione (per sostituirsi ad eventuali vittime rimaste fuori gioco durante l’azione) tale ruolo tendeva ad essere assegnato sempre agli stessi individui, in funzione della loro costituzione gracile e/o statura al di sotto del metro e sessantacinque, considerata l’ideale per rannicchiarsi all’interno dell’angusta bara globulare in acciaio e plexiglass, frutto di un lungo percorso ingegneristico per il superamento, più che mai necessario, dei limiti di vulnerabilità dimostrati dai Lancaster inglesi e gli altri bombardieri delle prime battute del conflitto. I tedeschi in effetti, che non credevano particolarmente nella dottrina dei grossi quadrimotori a lungo raggio per l’attacco al suolo preferendogli spesso il sibilo minaccioso di velivoli come i più agili e leggeri Junkers Ju 87 “Stuka” erano di contro ferventi sostenitori dell’armamento pesante sui caccia intercettori come il Me 109, 110 e il temuto Focke-Wulf 190, che poteva arrivare a vantare un totale di sei mitragliatrici da 7.92 mm posizionate in vari punti delle ali. Abbastanza per fare a pezzi persino l’involucro corazzato del B-17, un aereo rinomato per la sua capacità di resistere anche a danni di gravità notevole, riportando i suoi passeggeri sani e salvi alla base. A meno che… Il pilota nemico non fosse abbastanza furbo ed abile da attaccare il bombardiere dal basso, colpendo i serbatoi integrati e trasformando il falco da guerra in una letterale trappola infuocata. Al tempo della conferenza di Casablanca tra Roosevelt, Churchill e de Gaulle nel 1943, quindi, durante la quale fu elaborato il piano per il bombardamento a tappeto d’Europa denominato “Operazione Pointblank” la torretta Sperry era una ormai dotazione standard di questi aeromobili, costituendo il maggiore vantaggio tecnologico delle versioni successive dei principali aerei da attacco al suolo americani. Il loro funzionamento, tuttavia, non era semplice, ne sicuro…

Alcuni partecipanti del Bomber Camp del museo di aviazione di Stockton Field, California, dopo aver pagato gli oltre 1.000 dollari necessari per entrare fare parte dell’equipaggio di una delle poche fortezze volanti ancora capaci di volare in una missione simulata, provano l’emozione di far fuoco con la Sperry, attraverso costose raffiche in rapida sequenza contro alcuni bersagli accuratamente posizionati.

Famoso, nonché spesso rappresentato nella cinematografia di genere, è il concetto secondo cui la posizione del bombardiere nella sfera fosse la più pericolosa dell’intero bombardiere, benché le statistiche delle vittime cadute durante l’onorato servizio dimostri in effetti l’esatto opposto. Questo presumibilmente perché, ben conoscendo il pericolo rappresentato dalle formidabili difese dei B-17 e B-25, dopo le primissime battute della guerra aerea i piloti dell’Asse iniziarono ad attaccarli preferibilmente da davanti, colpendo direttamente l’equipaggio incaricato di mantenere in volo l’aeromobile, che precipitava quindi rovinosamente al suolo. Esistono tuttavia casi in cui le problematiche affrontate dagli addetti alla Sperry risultavano particolarmente difficili e per così dire, particolari. L’insolita torretta, appesa tramite un complesso sistema di sostegni alla parte superiore della carlinga, necessitava infatti per muoversi di alimentazione elettrica ottenuta dai motori e non era insolito, nel caso in cui uno o più di questi ultimi venisse danneggiato o spento per precauzione, che finisse per restare del tutto immobilizzata e impossibile da aprire. In una situazione in cui l’incaricato, tr al’altro, restava impossibilitato a fare ricorso all’interfono posto a sua disposizione, diventando essenzialmente isolato dal resto dell’equipaggio ed incapace di chiedere aiuto. Nel B-17, e questa restava forse la cosa più  terrificante, la sfera non poteva neppure essere sollevata all’interno della carlinga durante gli atterraggi, costringendo le vittime di un simile imprevisto a restare in attesa, pregando che il carrello si bloccasse correttamente in posizione al rientro dopo una missione particolarmente concitata, e ben sapendo come in caso contrario, sarebbero stati uccisi nella letterale macina costituita tra l’asfalto della pista ed il ventre dell’aereo. Terribile fato toccato a un commilitone del personaggio televisivo ed ex-aviere americano Andy Rooney, da lui narrato in più occasioni, benché l’autenticità di tale evento risulti tutt’ora difficile da verificare.
Quando funzionava al meglio, d’altra parte, la torretta Sperry era il miglior angelo custode a disposizione di tutti i partecipanti a una missione di attacco aereo diurna, come voleva la dottrina statunitense, onde massimizzare le probabilità di colpire correttamente il bersaglio prefissato. I caccia di scorta infatti, per quanto ancor maggiormente efficaci, erano spesso costretti ad abbandonare la formazione in anticipo per mancanza di carburante, mentre qualche dozzina di fortezze volanti adeguatamente ravvicinate potevano costruire una letterale cortina di proiettili a difendere i loro fianchi e ventri soltanto apparentemente esposti. Il che d’altra parte, unito alla capacità di volare al di sopra del fuoco della contraerea, forniva una ragionevole percentuale di successo alle costanti prove a cui venivano chiamati i loro manovratori.

Un addetto del Bomber Camp dimostra il laborioso processo necessario a prendere posizione nella torretta sferica, benché si affretti ad aggiungere “Non è poi così male come ve la raccontano. Una volta all’interno, ci si trova piuttosto comodi”. Del resto, oggi giorno, nessuno avrà bisogno di starci rannicchiato per delle ORE…

Cullato dal suono regolare dei motori, accompagnato dal ronzio occasionale dei suoi movimenti a 360° gradi orizzontali usati per tenere d’occhio l’intera zona circostante all’aereo, il mitragliere sobbalzò lievemente al trillo atteso dell’interfono “Mel, parla il capitano. Girati a ore 7, mi sembra di aver visto qualcosa.” E fu allora che azionando rapidamente la leva, li vide: proprio al centro del mirino reflex fornito al centro esatto della sua finestra panoramica, due caccia color grigio topo con la riconoscibile insegna della croce di ferro. Uno dei quali chiaramente riconoscibile, dalle ali più corte e sottili, come il nuovo modello di Fw 190, dal motore prestante ed una pericolosa coppia di cannoni aggiuntivi. Mentre tentava di mettere in pratica la tecnica del tiro in deflessione, mirando alla posizione prevista del temuto nemico in base alla distanza che aveva frettolosamente elaborato da occhio nudo, l’aspirante astronomo prelevato dall’ultimo mese d’università sentì il rumore sputacchiante della mitragliatrice di coda che anticipava le operazioni di contrattacco, subito seguita dal grido chiaramente udibile di Joseph. Possibile che… Una ferita superficiale, dev’essersi trattato soltanto di questo. Allora Melvin tirò indietro i grossi grilletti a molla, gli occhi semichiusi per farsi scudo dal Sole. Qualunque cosa fosse successa entro i prossimi, cruciali momenti, avrebbe protetto il piccolo appezzamento di metallico suolo americano che gli era stato affidato dal comando di volo. Assieme al suo prezioso ruolo in battaglia che un tempo era stato occupato, in circostanze del tutto diverse, dal suo nonno ormai prossimo a lasciarci su questa Terra tutt’ora infuocata. Certo, sarebbe stato davvero ironico e triste se, come avveniva ai vichinghi di un tempo distante, ci fossero state soltanto ulteriori battaglie ad attenderli all’altro lato…

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