Quando si osserva la catena sportiva dei possibili controsensi, appare evidente che asfalto e Rollerblade costituiscono una coppia di concetti inscindibili, per cui l’uno perpetra l’altro, permettendo il realizzarsi dell’energia contenuta in ciascuna singola falcata dell’utilizzatore di turno. Eppure, tutto questo non può essere soltanto un effetto speciale: Dustin Werbeski, lo skater canadese di ritorno dopo tanti anni dall’epoca della sua nascita professionale in Spagna, che esplora i densi boschi circostanti la città natìa di Vancouver, Canada. E per farlo sceglie di utilizzare, neanche a dirlo, le mercuriali scarpe che hanno contribuito a renderlo famoso, prima come fotografo e regista dell’operato altrui, poi in prima persona, a seguito della realizzazione che in effetti, poteva fare persino di meglio. Il mondo di quelli che oggi vengono definiti “sport d’azione”, come è noto, costituisce un ambiente estremamente competitivo. Dove per emergere, la strada migliore va ricercata nella propria stessa capacità d’innovare e se possibile, sorprendere gli spettatori; il che comporta, il più delle volte, il tentativo riuscito di cavalcare l’onda di un qualche progresso tecnologico e funzionale. Come quello, largamente sconosciuto al di fuori di un pubblico di appassionati, del pattinaggio in linea off-road.
Lo sportivo racconta di aver conosciuto per la prima volta questa disciplina il giorno stesso del suo arrivo a Barcellona, intorno al 2012, quando l’azienda Powerslide di Bindlach, in Baviera, aveva iniziato da poco il revival di un concetto che aveva in realtà già vissuto un’epoca d’oro negli anni ’90, grazie all’opera della stessa antonomasia di settore, la Rollerblade. Chiamati in gergo big wheel bladers, questi pattini particolari facenti parte della collezione dell’amico Oli Benet presentavano prestazioni tecniche decisamente al di sopra della media, con una struttura solida e ammortizzata, allacci estremamente rigidi e un punto particolare di rottura rispetto alla tradizione: tre ruote, invece di quattro, dal diametro quasi raddoppiato. Ora la dimensione di queste ultime, generalmente, costituisce nei pattini in linea un importante tratto di distinzione: poiché fin da quando Scott e Brenan Olson, i due giocatori di hockey del Minnesota che avevano trovato un modo per fare pratica in estate sostituendo le lame da ghiaccio della propria disciplina di provenienza, riuscirono a vendere la propria idea alla multinazionale di articoli sportivi italiana Roces nei primi anni ’80, fu estremamente chiaro il concetto secondo cui ruote maggiorate comportassero una velocità raggiungibile superiore, ma anche maggiori difficoltà nelle curve e al momento in cui diventava necessario fermarsi senza un significativo preavviso. Eppure col trascorrere degli anni ciò che appariva adatto soltanto a dei veri professionisti diventò, gradualmente, lo standard accettato, facendo figurare pattini con diametri da 70 e 80 mm nei cataloghi ad uso generalista, laddove in origine venivano considerati l’ideale soltanto per il freestyle, le gare di velocità e lo slalom. Mentre in questi ultimi prendevano piede i più moderni modelli da 100. E qualcuno sceglieva, di sua personale iniziativa, d’indossare qualcosa di ancora diverso. Ruote ai piedi capaci di superare abbondantemente i 125 mm per unità, ritrovando in un certo senso quello che aveva costituito, ancor prima dell’epoca contemporanea, il significato stesso del mettersi i pattini ai piedi: scappare via dal chaos inquinato della città, oltre i confini stessi dell’asfalto. Per immergersi, attraverso la forza delle proprie stesse falcate energiche, nel regno selvaggio e incontaminato della natura.
Procedendo a ritroso nella storia pregressa del pattinaggio in linea fuoristrada, appare quindi evidente come insigne sperimentatrice la stessa Rollerblade con una linea destinata ad essere celebrata ancora per molti anni a venire: quella dei cosiddetti Coyotes, prodotti per la prima volta nel 1997 e pubblicizzati con una lunga serie di segmenti televisivi girati da alcuni dei migliori registi operativi nel settore. Pattini prodotti espressamente per l’uso su superfici diseguali e lo sterrato, dotati di tre ruote ciascuno dal diametro esatto di 150 mm, oggi considerato eccessivo persino per questa tipologia d’utilizzo. Estremamente difficili da usare, sopratutto in un’epoca in cui il pattinaggio di questa classe stava ancora prendendo piede tra il pubblico generalista, nonché inerentemente costosi (minimo 350-400 dollari al paio) la nuova interpretazione del concetto di spostamento con ruote non ebbe mai modo di prendere effettivamente piede, benché gli studiosi di marketing abbiano più volte fatto notare l’importanza del ruolo degli ambassador products, proposte delle aziende concepite per dimostrare la loro efficienza tecnologica, aumentando la percezione pubblica dell’intero brand. Oggetti estremamente di nicchia nella loro stessa concezione e destinati a vendere relativamente poco, pur restando impressi pressoché a chiunque abbia anche soltanto un interesse passeggero nel concetto di partenza. E non è certo un caso se ancora oggi, un paio di Coyotes in buono stato riesce a vendersi per il prezzo che aveva al momento del suo remoto lancio sul mercato, trattandosi di modelli sostanzialmente introvabili ed assai desiderati dal tipo più affascinante di collezionisti: quelli intenzionati a farne un uso diretto, sui sentieri stessi del proprio sport preferito.
Stando a quanto emerge da una ricerca online, tuttavia, il campo dei pattini in linea fuoristrada non risulta essere affatto così recente ma si può anzi ricondurre, alquanto inaspettatamente, alle più remote origini di tale disciplina. Sam Nieswiski, cita nel suo libro Rollermania, come riportato da Alexandre Chartier”Alfathor” presso il blog Online-Skating, la figura rinascimentale di Maximiliaan Lodewijk Van Lede, artista e scultore belga naturalizzato francese, che nel 1789 ebbe modo d’inventare all’età di 30 anni a Parigi dei “pattini per il terreno” utili a spostarsi come da tempo si usava fare su ghiaccio, con ruote evidentemente di grosse dimensioni. Questo perché il concetto stesso di “strada” all’epoca sarebbe risultato ben diverso da quello odierno, e alcune illustrazioni coéve ci permettono di conoscere un tipo di pattini dotati di due sole ruote ciascuno, ma assai probabilmente capaci di funzionare egregiamente anche sullo sterrato. Gli eventi incombenti della grande Rivoluzione, quindi, lo avrebbero costretto ad emigrare facendo ritorno al suo paese d’origine, dove si sarebbe mantenuto dipingendo quadri ad olio esportati verso l’Inghilterra fino alla sua morte nel 1834. Ma il sogno di lanciarsi in discesa in mezzo agli alberi, senz’altro veicolo che le proprie stesse calzature, non sarebbe certamente perito con lui…
La lezione che possiamo trarre dall’esperienza di Dustin Werbeski, uno dei primi, nonché dei pochi professionisti operativi in modo specifico nel settore del pattinaggio fuoristrada, è che l’unica gabbia che condizioni l’attività creativa di un qualsiasi sportivo è quella auto-imposta, sulla base di quanto siano riusciti a fare coloro che hanno disegnato determinati confini nel corso delle generazioni trascorse. Poiché la differenza tra otto e sei ruote, in ultima analisi, è talmente profonda da cambiare radicalmente ciò che sia lecito anche soltanto PENSARE di fare con un paio di pattini ai piedi. E tornare indietro una volta trovata la propria dimensione espressiva ideale sarebbe non soltanto impensabile, ma addirittura controproducente.
Un significativo e responsabile appunto che potremmo muovergli, per lo meno in merito al video mostrato in apertura, realizzato per il suo sponsor ormai decennale Powerline, è che allontanarsi dalla città non ti esonera dal “dimenticare a casa” casco, ginocchiere & co. L’asfalto è già sufficientemente ruvido, per non parlare della corteccia di un tipico abete canadese.
risposta: sono due cose diverse!