Ci sono almeno due modi per abbattere un albero: il primo è per l’appunto, abbattere l’albero. Il secondo, consiste nel ricavare una tacca con la propria ascia nel suo tronco perpendicolare al suolo, incastrarci dentro l’apposita asse con un’estremità metallica e quindi salirci sopra, per praticare una nuova tacca più in alto e ripetere lo stesso gesto. Due volte, fino al raggiungimento della cima, dove s’impiega l’affilato strumento, ancora una volta, allo scopo di erodere un lato del tronco sottoposto all’atroce condanna dei cento e più colpi. Che neanche allora potrà avere fine: poiché a quel punto, l’esperto boscaiolo il più delle volte proveniente dalla terra d’Australia, dovrà compiere i propri gesti a ritroso, estrarre le tre assi e piantarle nuovamente dall’altro lato dell’albero, allo scopo di salirci e completare la rimozione della sua cima. Di certo i più attenti ai dettagli di natura maggiormente insignificante, a questo punto, potrebbero far notare che la vittima della procedura in questione non sia propriamente il tipico arbusto a fusto corteccioso, che si erge nel tipo di territorio generalmente definito come “bosco” o “macchia forestale”. In primo luogo perché manca di fronde, rami, radici, nidi di uccelli, cuoricini incisi con il coltello recanti scritte I love you. E secondariamente, per il fatto che sia stato effettivamente rimosso dal suo luogo di appartenenza, per essere eretto perpendicolarmente al suolo all’interno del più famoso stadio temporaneo della città di Sydney, indissolubilmente legato alla tradizione vecchia di quasi due secoli dello Show di Pasqua, per cui questo particolare evento ha finito per essere, annualmente, il più celebre e rappresentativo.
Lo sport noto convenzionalmente come tree felling (abbattimento dell’albero) rappresenta in effetti la singola prova fisica più difficile a cui possa essere sottoposto un individuo che si dichiari esperto nel trasformare la vita vegetale in legna da ardere o materiali da costruzione, nonché uno spettacolo dall’alto grado di spettacolarità. Questo soprattutto in funzione della durata di fino a due o tre minuti di una singola gara, decisamente superiore a quella di qualsiasi altra specialità. E non è probabilmente un caso, che la disciplina nasca e venga praticata inizialmente soprattutto nel secondo continente più meridionale al mondo, dove l’esistenza di un certo tipo di albero, e la sua importanza per l’economia locale, ha insegnato da lungo tempo a trattare la legna con un certo senso di riverenza e rispetto, in funzione dell’abilità necessaria da parte degli addetti ai lavori per foraggiarne quantità ingenti e funzionali allo scopo. Stiamo parlando, nella fattispecie, dei generi degli eucalipti e le acacie legnoscuro, entrambi notoriamente caratterizzati da quel grado di durezza che gli ha fatto riservare la definizione in lingua inglese di hardwood, la cui resistenza al di sotto degli strati esterni rende difficile abbatterli senza causare crepe lesive per la qualità finale del materiale, con una serie di problematiche paragonabili a quelle di certe varietà di marmo. E fattori addizionali, che non fanno che accrescere il grado di spettacolarità per il pubblico, il quale nel corso delle circa 10 leggendarie giornate ogni anno, potrà assistere coi propri stessi occhi al progressivo sollevarsi di un letterale vortice di schegge, scagliate in ogni direzione al sopraggiungere di ciascun colpo d’ascia portato al bersaglio; sempre sperando, comprensibilmente, che un’ascia non sfugga di mano durante l’impiego da parte del suo forzuto utilizzatore. Con un effetto nei confronti degli spalti piuttosto orribile, a immaginarsi…
L’esatta origine dello sport internazionale del taglio della legna non è un aspetto che venga spesso sottoposto ad analisi, benché alcuni riportino la volta in cui, nel 1870 a Ulverstone, in Tasmania, un boscaiolo avesse scommesso con il suo collega l’equivalente di 50 dollari, su chi dei due sarebbe riuscito a segmentare per primo un tronco particolarmente resistente. Nella regione dei Paesi Baschi tra Francia e Spagna, d’altronde, altro luogo in cui la foresteria riveste un ruolo di primaria importanza, gli abitanti locali sono pronti a rivendicare il primato sulla base di un racconto popolare risalente al XVI secolo, nel quale un uomo avrebbe dovuto fare a pezzi ben 10 tronchi tutti di seguito, prima che gli fosse permesso di chiedere la mano della sua amata. Altri paesi, d’altra parte, possiedono tradizioni del taglio della legna competitivo, come il Nord America e il Canada, la Germania, la Svizzera e la Slovenia. Ma tralasciando espressioni moderne come il campionato Timbersports sponsorizzato dall’azienda di attrezzatura per la foresteria e giardinaggio Stihl a partire dal recentissimo 1985, c’è un solo luogo che abbia saputo formalizzare le proprie competizioni di taglio dei tronchi portandole fino all’acquisizione della fama internazionale. E un tale luogo è il Nuovo Galles del Sud australiano, grazie all’iniziativa destinata a far parte, fin dalla sua inaugurazione con il beneplacito della regina Vittoria in persona, della Reale Società Agricola, a cui fece immediatamente seguito la prima edizione dello Show di Pasqua del 5 luglio 1822.
Una ricorrenza capace di entrare a far parte del patrimonio culturale locale, per la sua capacità rinomata di coniugare città e campagna riuscendo ad attirare, ogni anno, molte centinaia di migliaia di entusiastici partecipanti. Con quelle che potremmo descrivere come la versione su larga scala delle tipiche componenti primarie di una sagra di paese, tra cui esposizioni di prodotti agricoli, concorsi per il bestiame, spettacoli per bambini e sfilate equestri, ma anche eventi ben più particolari e rappresentativi, che includono l’annuale partita a Polocrosse (un incrocio tra Polo e Lacrosse) del corpo di polizia locale, un rodeo e ovviamente l’irrinunciabile, storico torneo dei taglialegna, capace di attirare partecipanti da una significativa parte del mondo al di là dell’oceano. Il risultato è il raggiungimento di un grado di assoluta eccellenza all’interno del quale, tuttavia, finiscono per riaffermarsi ogni anno particolari individui o vere e proprie “dinastie” d’atleti, ciascuno capace di ereditare dal proprio genitore i segreti di un mestiere ben più antico di qualsiasi telecamera o sega a motore. E in cui la tecnica conta molto più della mera forza fisica, come ebbe a dimostrare nel 2015 la vittoria di ritorno della leggenda vivente David Foster, ormai cinquantottenne, cionondimeno capace di aggiudicarsi il suo 23° titolo a distanza di 36 anni dall’ultimo, sconfiggendo partecipanti ben più giovani nella disciplina della sega a due assieme al suo collega ed amico Jimmy Head. Un qualcosa che gli sarebbe risultato probabilmente impossibile nel campo quasi acrobatico del tree felling, nel quale l’agilità e flessibilità delle membra non può che contare, almeno quanto l’estremità affilata dei propri strumenti.
È perciò cosa nota, fin dall’epoca delle prime Olimpiadi greche, che molti degli sport umani siano l’espressione ritualizzata di abilità utili alla società e finalizzate ala pratica di un mestiere. Così come il lancio del giavellotto, del peso o l’atletica leggera dovevano preparare, agli albori di tali discipline, i giovani al combattimento nella falange oplitica, la foresteria competitiva rappresenta l’occasione di sperimentare le tradizioni di un mestiere altrettanto antico e dalle implicazioni decisamente meno violente. Il quale, d’altronde, è altrettanto prossimo alla sparizione. Che cosa dovremmo mai farci di un maestro d’ascia, nell’epoca delle seghe a nastro, i pavimenti laminati e i ponderosi macchinari con braccia robotiche capaci di trasformare in un attimo un albero in milioni di stuzzicadenti?
Forse l’unica possibile risposta è ammirarli e in qualche modo, ispirarci a loro. Affinché il raggiungimento di un significativo grado di eccellenza, non importa in quale settore, rappresenti un valore aggiunto per tutti coloro che ne vengono a conoscenza. Con la progressiva meccanizzazione di un sempre maggior numero di mestieri, potrebbe andarne la sopravvivenza della nostra stessa capacità di adattamento. Ovvero la base, e la chiave di accesso, verso ogni tipo di cultura appartenente al concetto sempre più anacronistico di “fare”, a tutti gli effetti, “un qualcosa”.