Avevo appena terminato di guardare l’ennesimo video degli auguri per… Una spaventosa Notte delle Lumere (Hallows’ Eve) quando sentii di nuovo quello strano rumore. Certo, quando lavori da svariate settimane come guardiano part-time presso il cimitero di una grande metropoli ci si abitua a un certo tipo di sottofondo auditivo per le proprie peregrinazioni digitali, che include il verso del gufo, il sibilo del vento tra i cipressi, il miagolio del gatto nero in calore, il fruscio delle ali di una falena… Eppure permane un certo inevitabile senso d’inquietudine, in un battito continuo e regolare, che d’un tratto accelera, quasi tentando d’articolare un preciso susseguirsi di parole: “Vie-eni da noi, Mortimer; vie-eni subito, Hildebrand…” E poco importava che il nome giusto fosse stato, fin dal giorno della mia nascita circa due decadi e mezzo fa, un ben più semplice e non mi duole ammetterlo, banale Eric. Appariva ormai evidente che i defunti non avevano pazienza per quel tipo di dettagli. “Cosa intendi…” Mi sembra quasi di sentire la domanda: “Quando affermi di aver comunicato personalmente con l’adilà?” una frase pronunciata con il senso di sospetto enfatico e latente, generalmente attribuito agli aspiranti medium, fattucchieri ed altri truffatori delle impossibili speranze altrui. Ebbene devo dirvi, in tutta sincerità, che tutto questo non avesse alcun collegamento con capacità speciali, poteri della mente o altre doti ricevute in dono non si sa quando, non si sa da chi. Sono altresì del tutto certo, come lo sarebbe stato chiunque altro al mio posto, che quanto sto per narrarvi sia realmente accaduto, in quella serie di notti memorabili iniziata esattamente 365 giorni fa.
La maggior parte delle persone pensa ad Halloween come una festa religiosa in qualche modo cambiata e adattata alle necessità dei tempi odierni, come occasione per fare acquisti, vivere la gioia delle ricorrenze, interpretare un ruolo temporaneo nell’impermanente scorrere della moderna società. Ma la realtà è che vivendo negli Stati Uniti, dove questo modo di onorare il giorno dei defunti ti viene trasmesso fin da quando frequenti i primi anni dell’asilo, si acquisisce gradualmente verso il giungere dell’età adulta una remota, quanto significativa percezione: che i vampiri, fantasmi ritornati e zombies non esistono, fino al preciso momento in cui si cerca in qualche modo di evocarli. È come rendersi coscienti del proprio stesso respiro, trasformandolo in un gesto manuale per qualche fatidico momento. Un voragine dalla quale è impossibile tornare, per lo meno, finché non avrà fatto il suo tempo. Sul preciso bilico tra autunno e inverno dunque, di quel giorno carico di sottintesi, mi alzai dalla sedia del computer per recarmi in corridoio della guardiola, nella speranza di scoprire quale bimbo dispettoso, che burlone tra i miei conoscenti al city college, si fosse messo in testa di farmi passare quei cinque o dieci minuti di terrore. Tutto quello che ottenni, tuttavia, fu percepire quello strano battito che accelerava, seguito da un sinistro tonfo a terra. E quando giunsi finalmente sulla scena, proprio in mezzo al pavimento, candido ed inconfondibile al centro del mio campo visivo, c’era quello che poteva essere soltanto un femore umano.
Sul primo momento non lo riconobbi. Presi quell’oggetto per nasconderlo all’interno di un cassetto della scrivania (l’avrei fatto vedere, il giorno dopo, al mio supervisore) ma fu allora che mi accorsi, con sincero stupore, che l’orologio digitale con termometro segnava le ore 26:26. Mentre la luce della luna, filtrando tra le sbarre alla finestra con un tono lievemente azzurrino, aveva reso invisibile fino all’ultima delle alte stelle a noi più familiari…
Tic, toc, tic, toc è il verso inarrestabile del tempo. Costituisce concezione assai diffusa, quanto comprovata dalla convenzione, che la notte dedicata ai defunti per la tradizione sia Cattolica che Protestante debba necessariamente durare un singolo percorso delle ore dal tramonto all’alba. Il che, formalmente, può anche essere definito corretto, benché l’esperienza pregressa di me medesimo, a quanto sto per narrarvi, abbia fatto tutto il possibile per dimostrare nettamente l’esatto contrario. Poiché cinque o sei ore dopo, terminato di rivedere la trilogia del Signore degli Anelli su YouTube, mi resi conto che l’alba non aveva fatto accenno ad arrivare. E fu allora che il sinistro suono ricominciò a rimbalzare tra le pareti della stanza, tic-tic-tic, tac-tac-tac. Qui da noi le storie narrano del regno delle fate, dove i bambini sfortunati accedono per sbaglio se finiscono coi piedi dentro un cerchio di funghetti in mezzo alla foresta, portale magico nel regno inusitato. Essi vi trascorrono, dal punto di vista soggettivo, appena qualche ora o poco più di una giornata. Giocano e ballano e banchettano con gli esseri dell’aldilà, per poi tornare lieti e satolli da questa parte del velo. Ed è allora che scoprono che sono passati mesi, o persino anni, da quando ogni persona che conoscevano li aveva ormai dati per morti. Ma i morti lavorano nel modo esattamente opposto. E danzare con gli scheletri significa, credete a me, provare sulla propria pelle il senso stesso della DILATAZIONE del tempo.
“Basta così!” Gridai, mentre spegnevo il monitor a tubo catodico della guardiola: “Chi è che batte sopra i muri, in questa notte che parrebbe non finire mai?” Silenzio. Ormai piuttosto nervoso, e ritengo in modo assai giustificato, mi alzai tremante e presi a camminare verso la porta d’ingresso. E fu allora che con questi stessi occhi, la vidi. “…Sei tu” Pensai: la Morte. Un ghigno eterno candido come la neve, come bianca era la sua colonna vertebrale ed il bacino, pallide scapole e accecanti costole, immacolati i polsi che giravano in maniera ritmica, mimando il gesto fuori luogo di far schioccare le dita. Ella dunque senza un suono, si tirò da parte, per indicarmi che era giunto il mio momento. L’ora della mia fatidica Rivelazione: “Vieni vivente; vieni qui a vedere; come tu eri, lo sono stato. Come io sono, lo diventerai ben presto; ergo balla con il re, l’imperatore, il papa, il mendicante ed il bambino. Balla esattamente come noi facemmo, al posto tuo.”
Devo ammettere che quanto avvenne dopo, lo ricordo solamente in parte. La Morte mi toccò lievemente sulle spalle, mentre varcavo quella soglia stranamente illuminata. Mentre all’improvviso mi resi conto, inspiegabilmente, di avere in mano quel macabro oggetto, l’osso ritrovato in terra soltanto qualche ora prima. Circondato da figure d’ossa che tremavano nel vento, come per un ritmo percepito da loro soltanto, mi trovai quindi di fronte ad una porta luminosa, del tutto priva di maniglia. Essa sembrava in qualche modo ripetere quella parola “Apri, aprimi, aprila, apri te stesso ed apri il modo di COMPRENDERE la brevità del tuo domani….” Fu allora che mi resi conto che il femore si era trasformato, in effetti, in una maniglia lavorata come l’avorio, da inserire nell’apposito bullone sulla superficie in legno di quercia. Così, lo feci. Potete davvero biasimarmi? E ad attendermi, trovai il vagone di un treno.
Non una metropolitana, e neppure qualcosa di simile ad un’ascensore orizzontale. Bensì una vera e propria locomotiva, anch’essa bianca, con la prossima fermata presso la più vasta e sconosciuta civiltà di questa Terra. Atlantide, o persino il continente perduto di Mu, potevano ben poco rispetto a una simile magnificenza. Alti palazzi che svettavano verso un’impossibile cielo sotterraneo, forse il prodotto di dimenticati meccanismi. E la gente che camminava per le strade, senza pelle, senza carne… Alcuni privi di un certo numero di ossa eppure, come il pupazzo digitale Rayman, mantenuti insieme da una sorta di surreale integrità. E ogni piazza, ogni rotatoria, sembrava avere un qualche tipo di monumento, dedicato ad un diverso periodo della Storia di superficie. In uno figurava un uomo primitivo stretto sotto i denti dello smilodonte, feroce tigre della Preistoria. In un altro, il sacrificio di un sovrano Maya nella bocca fiammeggiante di un vulcano. Gli abitanti, accanto ad essi, sembravano sostare pensierosi e qualche volta inscenavano una sorta di danza. E i giardini, con quelle siepi prive di rigoglio, ricolme di striscianti vermi e coleotteri affamati… La Morte ricomparve più e più volte per guidarmi, durante il mio interminabile vagare, durante cui sembravo non aver bisogno di cibo né acqua nonostante passassero giornate senza inizio né fine. Mentre tutti gli altri scheletri, per qualche motivo, restavano del tutto incapaci di vedermi. Così che un poco alla volta, giunsi presso l’enorme cattedrale cittadina, dalle architetture al tempo stesso gotiche e futuristiche, come il santuario di un’occulta religione senza un perché.
Ormai del tutto incapace di pensare, mentre passavo sotto l’arco d’ingresso ricavato dal bacino di un mastodonte inusitato, con colonne di drago ed un’altare in ossidiana, procedetti fino alla più piccola delle nicchie laterali. Di fronte ai miei occhi spalancati, vidi l’immagine più inaspettata: una foto impossibile di me stesso, invecchiato al giorno esatto della mia dipartita. Accanto ad essa, due candele, entrambe accese. E sotto una scritta composta di ossa imperniate all’abside dall’architetto senza nome: MEMENTO MOR- Con un sussulto, mi resi conto che appariva tragicamente incompleta. Alzai allora la mano destra, sollevando il femore che mi era stato consegnato tante ore prima dalla mia silenziosa guida. Per la prima volta notai la sua estrema somiglianza con la lettera “I”. E con un lungo sospiro, portai a compimento l’impresa per cui avevo abbandonato, nel giorno raro delle Lumere, il bagliore distante di quell’illusione che è la vita.