Come la terra fantastica che al cinema ne ha tratto l’ispirazione (benché sia comprensibile dubitare, tutto considerato, che Tolkien avesse in mente la Nuova Zelanda) il paese composto da due grandi isole e 600 più piccole verso i confini Sud-Est d’Oceania possiede i suoi popoli, le sue leggende, le sue regole totalmente diverse dal resto del mondo. È l’usanza ad esempio, tra i suoi recessi più o meno urbani, che tra la primavera di settembre e ottobre si cammini sempre con un occhio rivolto verso l’alto, agli alberi che sovrastano il proprio sentiero. Questo perché tra i loro rami, molto spesso, può trovarsi un nido di Gymnorhina tibicen, la temutissima gazza australiana, i cui genitori sono soliti piombare in picchiata e attaccare gli umani, temendo per il benessere della propria prole. Il pericolo di cui meno si parla, tuttavia, perché indubbiamente meno frequente, è quello di essere colpiti da un diverso e più variopinto uccello, a causa di una ragione totalmente diversa: la mera perdita dell’equilibrio. “Attenti al kereru appeso per le zampe, crede di essere un pipistrello!” grida allora qualcuno. Il pacifico, persino bonario colombo dei boschi (o colombaccio) il cui nome latino recita Hemiphaga novaeseelandiae sin da quando il nipote di Napoleone in persona, il naturalista francese Charles Lucien Bonaparte, ne ricevette un campione nel corso dei suoi viaggi in Italia e negli Stati Uniti. Eppur non avendo mai visitato il suo habitat naturale, neppure questo uomo di scienza avrebbe potuto comprendere il fondamentale problema del solo ed unico piccone di Nuova Zelanda: la sua tendenza ad alzare il gomito, nonostante neppure quella parte del corpo, sostituita da un paio di variopinte ali.
In fondo, bisognerebbe fare il possibile per capirlo. Non è particolarmente facile farsi strada nei cieli e ricevere pezzi di pane dagli umani, quando si è circondati da alcune delle specie più caratteristiche e riconoscibili del mondo intero: pappagalli iridescenti guidati dal chiassoso quanto candido cacatua. La risata penetrare dell’adorabile kookaburra. E sulla terra magnifiche creature a rischio d’estinzione ma prive di capacità aviarie come kea, kakapo e takahe. Così che, attraverso i secoli, questa particolare genìa di messaggeri della pace (di non-biblica memoria) ha continuato a sopravvivere grazie a una dieta ereditata dai propri antenati, composta al 99% di frutta. Ma fattori come il mutamento climatico, la progressiva riduzione delle specie endemiche e l’abbondanza dovuta alla tutela del patrimonio vegetale, hanno accresciuto in maniera esponenziale le loro possibili fonti di nutrimento. Con il risultato che la frutta in eccesso, rimasta troppo a lungo sotto il sole, inizia spontaneamente a fermentare. E soltanto per questo, il povero kereru dovrebbe smettere di mangiarla? Rinunciare al gusto inconfondibile della più naturale, per quanto aspra approssimazione di un buon bicchiere sidro?
Il risultato di tutto questo, ritengo, è ormai sotto gli occhi di tutti. Tanto che lo stesso ente di protezione naturalistico Forest & Bird, scrivendo una nota a margine di questa beneamata specie, è arrivato a definirlo “Goffo, ubriaco, ingordo e appariscente” in un contesto il quale, tuttavia, appariva funzionale ad allontanare le connotazioni apparentemente negative di almeno tre dei termini scelti. La notizia si è infatti diffusa, rapidamente, attraverso la blogosfera: come ogni anno, la suddetta associazione aveva annunciato il vincitore dell’annuale iniziativa finalizzata ad eleggere l’uccello migliore degli ultimi dodici mesi. Evento abbastanza prestigioso, in patria, da motivare almeno un notorio tentativo di hacking pregresso, eseguito da un disonesto fautore della garzetta facciabianca. Mentre il popolo ancora una volta, come accade sempre più spesso di questi ultimi tempi, aveva democraticamente eletto il più improbabile dei partecipanti…
Il kereru è uno di quegli uccelli che dal punto di vista meramente estetico, tenderebbe ad attirare ben poco l’attenzione. Per lo meno, una volta fatte le debite proporzioni: poiché appare evidente come, rispetto al colombo della maggior parte dell’emisfero settentrionale, esso presenti una livrea decisamente più colorata, con piume dorsali dai riflessi verdi e violacei, un petto bianco come la neve e riflessi bronzei verso la punta delle sue due ali. Esso risulta, inoltre, piuttosto imponente, con una lunghezza di fino a 50 cm e un aspetto massiccio, a causa delle piume, che ha contribuito negli anni alla sua ingiusta noméa di ghiottone. Non che questo basti a distanziarlo sensibilmente da certi esemplari nostrani. Anche alcuni dei comportamenti che lo caratterizzano, nel frattempo, ricordano assai da vicino quelli del “banale” piccione: il modo in cui beve succhiando, piuttosto che capovolgendo il becco, il comportamento quando manifesta aggressività, con le ali aperte e usate per spingere l’avversario e l’inchino, seguito dalle amorevoli beccate, rivolto alla partner durante il tipico rituale d’accoppiamento. Analogamente ai suoi cugini per noi più familiari, inoltre, l’uccello è solito nutrire i suoi piccoli con il latte del gozzo, una particolare secrezione prodotta da entrambi i genitori successivamente alla creazione del nido, che per loro consiste in un precario ponte di rametti costruito tra le biforcazioni di un ramo. Ciò che caratterizza maggiormente l’Hemiphaga novaeseelandiae rispetto al Columba palumbus (piccione selvatico comune) tuttavia, sono le differenze: in primo luogo il suo ruolo di primo piano nell’ecosistema locale vigente, come unico volatile abbastanza grande da fagocitare alcune delle infruttescenze più massive della Nuova Zelanda, come il taraire (Beilschmiedia tarairi) e numerose tipologie di drupe, tra cui la loro preferita è la prugna, pianta rigorosamente non nativa. Per non parlare della loro notevole abilità nel volo, che li porta ad eseguire affascinanti volteggi soprattutto come metodo per attrarre una partner, culminante in fulminee picchiate verso il ruvido terreno sottostante.
Ma ciò che deve aver colpito maggiormente la fantasia dei neozelandesi chiamati alle urne digitali, così come noi che osserviamo da lontano, dev’essere stata certamente la già citata propensione ad ubriacarsi con la frutta fermentata. Alcuni articoli citano, a tal proposito, l’episodio avvenuto nel 2010, quando i membri operativi dell’associazione Forest & Bird si ritrovarono a dover accudire una quantità di circa 60 kereru presso il santuario di Whangarei nell’Isola Nord, soccorsi uno dopo l’altro dai locali che li trovavano letteralmente sdraiati a terra, ormai del tutto incapaci di muoversi o camminare. Questo per la quantità letteralmente eccessiva di drupe che erano riusciti a trovare, in una primavera particolarmente fortunata. Simili casistiche, tra l’altro, sono estremamente rischiose per la sopravvivenza dell’animale, che può facilmente cadere preda di gatti, opossum e altri piccoli carnivori introdotti, come l’ermellino e il ratto. Ma le creature quadrupedi sono lungi dal costituire l’unico pericolo per questo variopinto ed ingenuo abitatore dei cieli…
Pur non essendo considerato a rischio quanto molte delle altre specie di pennuti originarie della Nuova Zelanda, l’indice internazionale dello IUCN riconosce al piccione neozelandese lo stato di Not Threatened, ovvero “non (ancora) a rischio”, immediatamente successivo al più desiderabile Least Concern (preoccupazione minima). Questo perché, negli anni immediatamente antecedenti all’epoca moderna, la popolazione locale ne aveva fatto una caccia spietata ed assolutamente non sostenibile, in forza dell’indole tranquilla e quasi letargica di questi pacifici animali. Il che, unito alla predazione dei pulcini da parte delle specie di carnivori introdotti citate poco sopra, non ha certo aiutato la crescita di popolazione dei kereru. Fortunatamente nel caso del piccione ubriaco, i primi divieti di cattura hanno iniziato ad essere promulgati già nel 1864, con l’evolversi del decreto a un vero e proprio status di animale protetto entro il 1921. Da allora e come avviene per altre specie persino più rare, ucciderne anche un singolo esemplare è rigorosamente vietato in Nuova Zelanda, benché permessi speciali possano essere rilasciati per ragioni culturali agli appartenenti del popolo indigeno dei maori. E a tal proposito fece scandalo nel 2015 l’episodio a seguito del quale, durante un pranzo di rappresentanza con i membri della comunità Maungarongo, l’allora ministra della giustizia Amy Adams mangiò accidentalmente un piatto a base di kereru, suscitando l’ira funesta degli animalisti. Ma anche, e sopratutto, evidenziando un attrito culturale tra i popoli occupanti la verdeggiante nazione isolana che persino oggi, sarebbe difficile considerare del tutto superato.
Negli scritti di Tolkien, gli uccelli hanno un ruolo marginale fino alle ultimissime scene del suo più famoso racconto, quando le aquile guidate dal loro re Thorondor, finalmente, scendono in campo per risolvere la più grande crisi della Terza Era, soccorrendo dal cataclisma finale di Mordor il portatore del terribile Anello. In molti si sono chiesti perché, fino a quel momento, esse non fossero intervenute risolvendo molte delle più terribili battaglie e prove vissute dall’hobbit Frodo/l’attore digitalmente ridotto Elijah Jordan Wood. Forse, chi può dirlo, avevano mangiato una quantità eccessiva di prugne. Come spesso capita, in effetti, ad altri uccelli meno maestosi della Nuova Zelanda.