L’onesto e coraggioso Robocop aveva una missione e soltanto quella: continuare a tutelare la legge così come aveva fatto Alex Murphy, poliziotto ferito mortalmente durante l’esercizio del suo dovere. Esistono diverse interpretazioni del concetto di cyborg: in certi racconti, basta avere un arto bionico o una funzionalità migliore della natura all’interno del proprio corpo, come un visore notturno o le unghie retrattili della ninja urbana Molly, personaggio prototipico del cyberpunk. Altre volte, come nel caso preso in esame dal regista Paul Verhoeven o il fumetto e cartone animato Ghost in the Shell, tutto ciò che resta di biologico è il cervello, protetto all’interno di una scatola cranica di puro acciaio. Può bastarne persino l’idea, sostituita da fili e circuiti positronici à-la-Asimov. Tuttavia Robocop, personaggio estremamente ligio per definizione, non si sarebbe mai messo a ballare. Non avrebbe fatto oscillare il suo posteriore sulle note di un noto successo della musica Pop. E di sicuro non avrebbe fatto l’occhiolino all’indirizzo della telecamera, aprendo la bocca in una smorfia di meccanica soddisfazione!
Forse ve ne sarete già resi conto, forse no: stiamo vivendo nel secolo dell’ultra-tecnologia. L’epoca in cui molti dei concetti resi celebri dal cinema fantascientifico degli anni ’80 e ’90 si stanno realizzando, uno dopo l’altro, nel campo delle comunicazioni, dei trasporti e perché no, persino la robotica, un mondo creativo che in molti avevano previsto andare di pari passo con quello dell’intelligenza artificiale. Ma se pure le modalità cognitive più avanzate dei computer, grazie alle nuove scoperte nel campo delle reti neurali, appaiono progressivamente sempre più distanti da quelle degli esseri umani, c’è una cosa in cui la realtà non ha nulla da invidiare alla fantasia: la costruzione di un corpo completamente artificiale, capace di muoversi in maniera autonoma ed interagire col mondo materiale. Corpo di uomo e allo stesso tempo, corpo di cane. Un campo in cui nessuno, fino ad ora, poteva dire di essere più avanti degli Stati Uniti, grazie all’opera spettacolare della Boston Dynamics, la compagnia famosa per i progetti del mulo da carico militare BigDog, l’agile robot antropomorfo Atlas e molte altre creature metalliche ispirate al variegato mondo della natura. Finché l’8 giugno del 2017, non venne data una notizia che lasciò molti a bocca aperta: questo marchio dell’eccellenza senza pari era stato acquistato, improvvisamente, dai giapponesi. E nessuno sospettava, all’epoca, la vera ragione di tutto ciò: aveva ben 16 anni, al momento della sua dipartita l’estate dell’anno scorso.
Era stato per lungo tempo, sotto ogni punto di vista rilevante, il canide più famoso del Giappone. Kai-kun, il suo nome, che significa mare. Un manto bianco come la neve. Scambiato da sempre per un esemplare anomalo di shibe, la razza rossastra che tutti conoscono su Internet grazie al fenomeno memetico “Doge”. quando, in realtà, si trattava di un cane dell’isola settentrionale di Hokkaido (Hokkaido-Ken 北海道犬) che aveva iniziato la sua carriera nel mondo dello spettacolo nel 2004, comparendo come visione spettrale nel lago contemplato dalla protagonista del dramma televisivo di spade Tenka. Ma il successo sarebbe arrivato soltanto tre anni dopo, grazie alla partecipazione alla serie di pubblicità di enorme successo della Softbank, compagnia telefonica per cellulare, dove interpretava il ruolo di un’improbabile padre di famiglia con moglie e due figli umani. Ufficialmente, si trattò di un tragico evento completamente inaspettato. Ma già da qualche anno l’attore-animale era andato in pre-pensionamento, anche a seguito della scandalosa situazione in cui durante un evento pubblico, nel 2014, aveva attaccato e urinato diverse volte sulla “mascotte in costume” (yuru-chara ゆるキャラ) Funasshi l’uomo-melone, moderno e sacro simbolo della città di Funabashi. Ma nessuno, all’epoca, avrebbe immaginato chi potesse essere il suo rimpiazzo…
L’ingegnere eclettico, ex-professore universitario e CEO della compagnia Boston Dynamics Marc Raibert è un uomo che ha una pletora d’idee fantastiche, ma anche un decennale problema. Il suo significativo operato nel settore della robotica, risalente a quando nel 1992 lasciò l’insegnamento per fondare una delle prime venture scientifico-commerciali dedicate alla creazione di robot capaci di tenersi in equilibrio da soli, risulta oggi decisamente difficile da essere sopravvalutato, in un panorama in cui un’alta percentuale di quanto è stato fatto, nelle ultime due generazioni tra Oriente e Occidente, corrisponde fondamentalmente a una reinterpretazione più o meno diretta dei suoi due primi rivoluzionari brevetti: “sistema di attuazione cinetica” e “apparato per controllare il salto di un dispositivo robotico”. Ciò che condiziona il suo operato tuttavia, come avviene nel caso di molti altri grandi visionari, è la mancanza di un termine chiaro di commercializzazione, ovvero un momento visibile all’orizzonte in cui si possa dire di aver trovato un’applicazione utile alle sue sferraglianti creature, finalmente diventate capaci di migliorare la vita delle persone. Ciò iniziò ad essere evidente attorno al 2005, quando il già citato ed impressionante BigDog, creatura quadrupede da 110 Kg capace di trasportarne 150 in armi, munizioni e bagagli, non riuscì ad incontrare le specifiche dettate dall’agenzia militare statunitense DARPA, causando la rinuncia al progetto perché troppo lento e rumoroso. Ed ancor di più quando nel dicembre del 2013, con la sua azienda acquistata direttamente dal colosso Google, diventò evidente come simili esseri deambulatori fossero ancora ben lontani da poter costituire un prodotto vendibile al pubblico, con costi esorbitanti e complessità progettuali inerenti. C’era qualcosa, tuttavia, che riuscivano a fare ogni volta: appassionare in maniera travolgente il pubblico, ogni qualvolta comparivano dinnanzi alle telecamere dimostrando quanto, effettivamente, la nostra tecnologia fosse avanzata dai tempi del film robo-poliziottesco di Paul Verhoeven.
Ma mai come adesso, mai come ora. Il robot giallo quadrupede che sembra ballare facendo il dressage equino, poi si gira ed esegue un perfetto moonwalk alla Michael Jackson, poco dopo aver mostrato in maniera irriverente il suo scintillante posteriore sulle note di Bruno Mars, è nei fatti niente meno che SpotMini, la declinazione forse più ragionevole dell’idea originaria di Marc Raibert, molto più piccolo e per certi versi meno sofisticato del suo predecessore costruito con finalità militari. Il “piccolo cane” come viene affettuosamente chiamato, benché assomigli nei fatti ben poco a tale classe di esseri, ha visto infatti la riduzione ad un peso complessivo di appena 30 Kg, raggiunto anche grazie alla rimozione del sofisticato sistema di mappatura LIDAR (Light Detection and Ranging) che costituiva il principale organo sensoriale del BigDog. In questo caso sostituito da una serie di telecamere stereoscopiche montante sul corpo e sulla “testa” situata al termine del braccio o lungo collo che dir si voglia, capace di farlo assomigliare alla versione tecnologica di un brontosauro. Ciò significa che lo scattante ballerino, per muoversi senza inciampare, necessita di una precisa mappatura dell’ambiente circostante, lungo il quale sfrutterà le sue limitate routine d’intelligenza artificiale per scavalcare eventuali ostacoli, salire scalini o evitare i muri. Tutto questo, normalmente, andando incontro alle scelte del suo operatore mediante l’impiego di un normalissimo telecomando, che in un raro momento del TechCrunch mostrato poco sopra viene rivelato essere nella maggior parte dei casi Seth Davis, dipendente specializzato della compagnia. Ma è chiaro che se venisse mostrato al grande pubblico, che conosce questi esseri grazie agli spezzoni mostrati dalla stampa generalista, quanto i robot della Boston Dynamics siano totalmente privi di un’autonomia di pensiero, verrebbe meno una parte significativa del loro fascino, che vede normalmente il popolo del Web associarli ad un’altra idea futuristica degli anni ’90: la rivolta delle macchine, compiuta secondo il copione mostrato da Arnold Schwarzenegger nel suo futuristico documentario, Terminator 1 e 2.
Perciò quando si vede il cane/brontosauro robotico che danza in maniera rigorosamente pre-determinata (l’intera routine, presumibilmente, è opera di un programmatore che avrebbe potuto fare il coreografo/ballerino) è impossibile non pensarlo: che la nuova proprietaria Softbank, nei suoi palazzi tokyoiti, osservi con entusiasmo, e potenzialmente stimoli questi voli pindarici d’immaginazione.
Dopo tutto, la passione dei giapponesi per i robot è straordinariamente nota, così come la mancanza assai sentita di una nuova mascotte rappresentativa del potente gestore telefonico, dopo la triste dipartita del suo bianco cane. Condizioni ideali, queste, per introdurre una nuova versione di quadrupede accattivante, forse ancor meno credibile come padre di famiglia con figli umani, ma certamente più facile da controllare, anche una volta raggiunta l’impazienza e incontinenza tipiche dell’età avanzata. Tutti, in Giappone, conoscono la storia strappalacrime di Hachikō (ハチ公) l’Akita-inu che alla morte del suo padrone andò ad aspettarlo alla stazione di Shibuya fino al termine della sua tragica esistenza. Ma anche quella di Kyashan il ragazzo androide, eroe degli anni ’70, che combatteva il crimine assieme al suo invincibile cane d’acciaio Lucky, così ricostruito dopo essere stato colpito spietatamente dalle armi dei suoi nemici. Perché in ultima analisi è proprio questa, la capacità fondamentale della cultura cinofila (e cinefila) giapponese: guardare avanti mentre allo stesso tempo, si guarda indietro. Proprio come SpotMini mentre fa twerking, aprendo la bocca prensile all’indirizzo dell’ultima telecamera che è accorsa per rendergli omaggio, con grandi presupposti di arricchimento per ogni personalità coinvolta.