Armi capaci d’identificare geneticamente il proprietario che sparano munizioni tracciabili col GPS, dardi elettrici, biologici, intelligenti. Mirini automatici basati sulle reti neurali. Nanomacchine. Se raffrontiamo ciò che è stato capace di concepire il mondo dell’intrattenimento in materia di armi personali di piccolo calibro, rispetto agli effettivi progressi tecnologici in tale campo, è inevitabile notare come addirittura l’esercito degli Stati Uniti utilizzi, al giorno d’oggi, un fucile di precisione del 1966 (M40) una pistola risalente al 1975 (Beretta M9) una mitragliatrice leggera che è stata sviluppata nel 1976 (M249) e ovviamente l’ormai mitico fucile M16, creato a partire dal ’64 dalla mente operativa di Eugene Stoner, il personaggio di un ingegnere che, se soltanto la cultura occidentale fosse maggiormente simile a quella della Russia sovietica, avrebbe raggiunto prima della sua morte nel 1997 una fama e gloria comparabili a quelle di Mikhail Kalashnikov, l’inventore dell’omonimo fucile usato in tutti i principali paesi dell’ex-Blocco Orientale. La ragione di tutto questo in fondo è facilmente desumibile dal contesto: l’arma da fuoco prototipica, in se stessa, non costituisce una macchina particolarmente complessa. Un mirino, un grilletto, una canna. Una camera di scoppio e un qualche meccanismo utile a inserire i colpi nel meccanismo funzionale a quello scopo soltanto: consegnarli a destinazione nel centro del bersaglio scelto dall’utilizzatore, di volta in volta. Ed è così che i principali margini di miglioramento, da almeno 40 anni a questa parte, hanno trovato ragion d’essere nei campi periferici dell’affidabilità, la solidità, la modularità dei componenti. E non c’è davvero ragione, per riuscire a garantire questo, di reinventare la proverbiale ruota. Non che in molti, si siano risparmiati dal fare un tentativo.
Veniamo, dunque, all’ultimo di questa serie di coraggiosi: Martin Grier è il giovane imprenditore e ingegnere della città di Colorado Springs, contea di El Paso, che lavorando per svariati anni all’interno del suo garage, ha guadagnato recentemente fama internazionale, per il successo riscosso nelle fiere di settore dal suo prototipo del fucile FDM (Forward Defense Munitions) L5, dove il numero sembrerebbe corrispondere, in maniera non-accidentale, al numero di proiettili presenti all’interno di un singolo “blocco” del suddetto sistema operativo. Già, proprio così: blocco, esattamente come quelli della Lego o il videogame Minecraft. Poiché l’idea di fondo, sostanzialmente, ruota intorno a una visione totalmente diversa di quale sia il modo migliore di abbinare, preparare e far esplodere ciascun colpo, con il primo rivoluzionario passo in avanti concettuale (o di lato?) dai tempi in cui vennero inventate le cartucce da Cristiano I, elettore di Sassonia nel tardo XVI secolo. In un campo non a caso d’intrattenimento sportivo, ovvero quello della caccia, proprio perché nei conflitti tra gli umani viene sempre preferito il metodo collaudato a quello avveniristico e difficile da prevedere. Eppure destinato, non di meno, a modificare profondamente il modo stesso in cui sarebbero state combattute le guerre future. Immaginate voi la differenza: niente più polvere per il moschetto ad acciarino, contenuta all’interno dell’apposita borraccia, seguita dalla palla e l’uso di un lungo bastone per premere ogni cosa bene a fondo nell’alloggiamento. Ma un singolo involucro di carta! Già contenente tutto il necessario. Qualcuno avrebbe addirittura potuto pensare di arrivare a caricarlo… Da dietro. E se soltanto quello stesso visionario, a un’epoca così remota, avesse potuto immaginare un progresso metallurgico tale da poter creare munizioni complete, ricoperte da uno strato metallico sottile poco meno di un millimetro (l’odierno bossolo) è ragionevole pensare che la tecnologia delle armi da fuoco avrebbe fatto un balzo in avanti di svariate generazioni. Ed è singolare che in questo momento, lo stesso suddetto Esercito, non-plus ultra di ogni organizzazione bellica mondiale, stia guardando con interesse ad un approccio funzionale che mira, sotto un certo punto di vista, ad aprire il suddetto contenitore e fare a meno della tara. Nella speranza, fondata, che ciò possa permettere di fare fuoco in modo ancor più rapido e preciso. Per non parlare di un altro aspetto decisamente interessante: sparare tutti e cinque i colpi allo stesso tempo, creando essenzialmente la prima versione a lunga gittata di un fucile a canna liscia, il celebrato shotgun.
Si chiamano colpi caseless (senza bossolo) e non sono un concetto nuovo, trovando la loro prima espressione funzionale addirittura nel 1848, quando Walter Hunt, con le sue munizioni “Rocket Ball” pensò di riempire uno spazio cavo ricavato nel retro di ciascun proiettile con polvere da sparo, dovendo tuttavia fare i conti con una potenza decisamente inferiore a quella delle armi convenzionali. Altri esperimenti, quindi, vennero compiuti dai tedeschi nel corso della seconda guerra mondiale, e successivamente verso la fine degli anni ’60 dal produttore del Michigan di armi ad aria compressa Daisy, benché sia ragionevole affermare che la prima versione effettivamente utilizzabile in battaglia di un simile concetto sia provenuta nel 1968 dalla fabbrica della Germania Ovest Heckler & Koch, con un’arma che se comparisse in un film di fantascienza, persino oggi, sembrerebbe probabilmente ancor più avveniristica di un blaster di Guerre Stellari. Ma di problemi, ne aveva eccome…
Più volte definito allo stesso tempo “sogno del fabbricante di munizioni” ed “incubo dell’ingegnere” il concetto di proiettili caseless è sempre riuscita a suscitare un serpeggiante interesse, senza tuttavia guadagnarsi un posto di primo piano nel panorama delle armi a diffusione mondiale. Questo per un’ampia serie di ragioni, spesso connesse ad una filosofia di design che sembrava prescindere dai meriti considerati primari ai tempi dell’AK-47 e l’M-16 (semplicità, modularità, riparabilità) a vantaggio di design complessi e stratificati, proni ad incepparsi e causare una vasta serie di problemi nelle mani della fanteria comune, ragionevolmente priva di addestramento specifico alla manutenzione approfondita delle proprie armi da fuoco. Ed è perciò anche in questo, che il fucile FDM L6 dell’inventore odierno si propone come rivoluzionario, riuscendo non soltanto ad essere composto da una quantità di parti mobili particolarmente ridotte, ma persino inferiori a quelle dei capolavori pluri-decennali di Stoner e Kalashnikov.
Questo perché il suo sistema di carica ed innesco, piuttosto che meccanico, funziona grazie all’uso di una semplice batteria al litio. Proprio così: stiamo parlando di un fucile che dopo ciascuna battaglia dovrà essere attaccato alla corrente, né più né meno che un comune cellulare. Fortunatamente, non tanto spesso: stiamo parlando, per intenderci, di circa 15.000 spari per ciascun pieno d’energia, più che sufficienti a superare di numero la quantità di munizioni trasportate da un soldato nel corso di una singola situazione d’ingaggio. Un consumo ridotto che smentisce chiaramente l’impressione, comunque possibile in funzione dell’estetica insolita, di trovarsi di fronte a un’arma elettromagnetica o altra simile diavoleria. Siamo di fronte a un’arma che a dire il vero, funziona sulla base dello stesso principio di ogni altro fucile moderno, con la differenza che la camera di scoppio, piuttosto che all’interno della sua struttura della canna propriamente detta, si trova in ciascun blocco o “caricatore” che dir si voglia. Ed è qui che inizia il punto veramente interessante: simili parallelepipedi di metallo, consegnati dalla fabbrica già pronti all’uso e non concepiti per essere preparati dal soldato stesso, contengono ciascuno cinque proiettili caseless, nel senso che sono privi di bossolo individuale, ma al tempo stesso non propriamente tali, perché si potrebbe affermare che l’involucro sia il blocco stesso. Dotato, per ciascuno di essi, di detonatore piezoelettrico azionato dal sistema contenuto nell’arma, e una quantità di esplosivo sufficiente a proiettare i colpi a una velocità di circa 4.000 Km al secondo. Quindi una volta esauriti i cinque colpi di ciascun blocco, quest’ultimo verrà espulso dall’altro lato del corpo dell’arma, lasciando idealmente il posto ad un secondo elemento identico e così via a seguire. I vantaggi di una simile soluzione sono già inerentemente interessanti: in primo luogo, l’arma non potrà surriscaldarsi, proprio perché il grosso del calore generato in caso di fuoco sostenuto verrà espulsa con ciascun blocco una volta esauriti i colpi all’interno. Inoltre, la presenza di detonatori individuali unita al sistema di controllo elettrico dell’arma rende estremamente semplice selezionare modalità di fuoco sulla base di qualsiasi necessità: singola, 3 colpi, 5 colpi o fuoco automatico. E la sostanziale novità dell’intera questione: fuoco multiplo. Questo perché, come accennato in apertura, la canna dell’FDM L5 contiene in effetti non uno bensì quattro fori, ciascuno dei quali già perfettamente allineato ad un diverso alloggiamento dei blocchi di munizioni. Questo allo scopo di ridurre ulteriormente le parti mobili, ma con il vantaggio non trascurabile di permettere la riduzione a zero dei tempi effettivi necessari per sparare un colpo successivamente all’altro, finché in effetti, possano essere sparati tutti allo stesso tempo.
Le applicazioni in un ipotetico campo di battaglia sono molteplici: poter disporre di una potenza di fuoco scalabile, capace di raggiungere il nemico in posizioni difensive fortificate. Irrompere attraverso una porta, o una serratura, senza doversi necessariamente trovare alla distanza ridotta che richiede il tipico fucile a canna liscia. Per non parlare del fuoco a raffica convenzionale, talmente veloce in questo caso da permettere ai 3 o 4 colpi selezionati di lasciare la canna prima ancora che il soldato debba trovarsi a compensare il rinculo. E d’altra parte, non mancano problemi da risolvere: come immagino sarà evidente, l’ingombro di un singolo blocco di munizioni, per appena cinque colpi pronti da sparare, è poco vantaggioso rispetto a quello di un caricatore convenzionale, riflettendo la problematica fondamentale dimostrata da tutte le armi caseless fin da quando si è tentato di trovargli un posto nel mondo della guerra moderna e contemporanea. Il materiale metallico di cui questi ultimi sono composti, inoltre, è decisamente maggiore di quello impiegato dai bossoli convenzionali, rendendo l’ipotesi usa-e-getta economicamente svantaggiosa.
Eppure, la notizia è proprio degli ultimi giorni: sembra che l’Esercito Americano abbia contattato l’inventore di Colorado Springs, offrendogli un non meglio definito contratto di collaborazione per valutare l’usabilità della sua nuova arma, presentata non a caso nei video promozionali come “Il vantaggio di cui hanno bisogno i nostri coraggiosi combattenti al fronte”. Il che lascia intendere, quanto meno, che i vantaggi implicati dall’arma possano superare i suoi lati negativi, o che siano stati ipotizzati approcci per mitigare, o eliminare del tutto i secondi. Il comando americano non è nuovo a simili approcci commerciali, di acquistare un’idea già sviluppata e testata con ingenti somme d’investimento da piccole aziende o privati, per usare le sue risorse virtualmente senza fine allo scopo di declinarla e valutarne le possibili applicazioni. Già più volte si è tentato di sostituire l’infallibile fucile M16 (o M4 o AR-15 che dir si voglia) l’ultima delle quali con un’altra arma dall’aspetto futuristico della H&K, l’XM8. Senza tuttavia mai riuscire a dimostrare i meriti indiscutibili di un sistema forgiato, e messo alla prova, in oltre quattro decadi di strenue battaglie. Tuttavia il progresso è inarrestabile, sopratutto nel campo dei conflitti senza scopo tra gli esseri umani. E chi può dire se simili approcci non-convenzionali al problema, già prima di questo momento, abbiano trovato applicazione in gran segreto nelle operazioni delle forze speciali o altri corpi distanti dagli obiettivi delle telecamere mondiali. Del resto, è risaputo: l’esercito possiede in media tecnologie di cui noi disporremo tra 10 anni. E altri 10. E altri 10…