Immaginate di scorgere dalla finestra, a seguito di un lieve terremoto, qualcosa d’insolito che sporge tra le piante del vostro giardino: lo spigolo regolare di un misterioso elemento architettonico, che a uno sguardo più approfondito, sembra poter costituire soltanto la sommità di un antico muro costruito da qualcuno, in un’imprecisato momento cronologicamente remoto. Il che è davvero strano, soprattutto se vivete in un luogo di recente colonizzazione, in cui l’attività architettonica mediante l’utilizzo di materiali come la pietra ha una storia pregressa di “appena” tre secoli e mezzo, a partire dall’arrivo dei primi coloni europei. E nessuno, tra gli esperti a cui provate a chiedere l’opinione, sembra saperne nulla: non i responsabili del registro comunale, non gli anziani vicini di casa tanto meno i vostri amici appartenenti alla locale tribù Māori, depositari delle antiche conoscenze di queste lussureggianti e spaziose terre. Già, perché in questo scenario non-poi-così-ipotetico ci troviamo in Nuova Zelanda, una terra in cui il ritrovamento di una costruzione megalitica dovrebbe avere lo stesso effetto dirompente, e sottolineo dovrebbe, di quello di un’intero tumulo di matrice vichinga. Apparenti impossibilità storiche entrambe, l’una per le caratteristiche della cultura dei presunti primi colonizzatori provenienti dalla Polinesia, l’altra per le inusitate distanze oceaniche attraverso le onde del Pacifico, non propriamente paragonabili a quelle affrontate dai più abili navigatori dei mari a settentrione d’Europa. Eppure, il muro di Kaimanawa esiste davvero. Non all’interno del giardino di chicchessia, bensì nell’omonima foresta in prossimità del lago Taupo, non troppo distante dal centro esatto dell’Isola del Nord, dove sorge a immemore quanto perenne testimonianza di… Qualcosa. Naturalmente, tale struttura non è mai stata formalmente “scoperta” per il semplice fatto che per gli abitanti del posto, è una vista familiare ed acclarata da sempre. Quello a cui nessuno sembrava aver pensato fino alla metà degli anni ’90, tuttavia, erano le potenziali implicazioni. Rivoluzionarie e al tempo stesso terrificanti, per il presunto susseguirsi dei fatti storici che avrebbero condotto, attraverso i secoli, all’attuale situazione etnica dell’arcipelago neozelandese. Almeno finché il geologo di Christchurch Barry Brailsford, assieme allo studioso di civiltà perdute e autore letterario americano David Hatcher Childress, non condussero fin qui nel 1996 un gruppo di approfondimento, assieme al quale dimostrarono, a loro avviso, quello che nessuno si era dimostrato in grado di ammettere fino ad ora: la struttura, in funzione delle sue caratteristiche evidentemente artificiali, era la più significativa prova mai trovata dell’esistenza del mitico popolo dei Waitaha, le tribù pacifiche che secondo alcuni interpreti della storia, avrebbero abitato le isole prima di essere sistematicamente sterminati all’arrivo dei conquistatori Māori.
Non è difficile immaginare, in molti paesi del mondo, l’importanza che una simile affermazione potrebbe aver avuto sul mondo accademico e in conseguenza, sul grande corso del fiume mediatico che sempre tenta d’appassionare la gente. Ed in effetti, a seguito del breve giro di conferenze stampa indetto dai due, i giornali e le televisioni nazionali diedero un ampio spazio alla vicenda, organizzando servizi in-loco e intervistando un’ampio ventaglio di esperti in ogni branca scientifica potenzialmente rilevante, per sostenere o sfatare a seconda dei casi l’idea. Dovete tuttavia considerare che a causa del particolare contesto sociale della terra più vicina all’Australia, contestare lo status di primi coloni delle due isole a coloro che le hanno abitate a partire dal XII secolo d.C. è un’affermazione estremamente problematica, perché comporta una nuova negoziazione delle concessioni governative di terre stipulate dal governo coloniale e cambiare, letteralmente, la mappa commerciale e politica del paese. Aggiungete a questo le affermazioni dello geologo capo del Dipartimento della Conservazione della Nuova Zelanda, Phillip Andrews, il quale scrisse: “Il muro di Kaimanawa è la risultanza di un affioramento di roccia ignimbritica proveniente dalla faglia di Rangitaiki, con le naturali fratture generate durante il processo di raffreddamento da questa classe di minerali. Ciò che Brailsford e colleghi hanno preso per un opera artificiale, è in realtà il prodotto di un’eruzione magmatica dimenticata.” Una teoria che può anche apparire plausibile, a tal punto che nessuno, meno che mai il governo, si è mai preoccupato di stanziare i fondi necessari a scavare tutto attorno alla strana formazione, per determinare se essa costituisca nei fatti tutto ciò che resta di un antico tempio, piramide o altra struttura simile. Il che sembra altamente sensato e responsabile, finché non si vede coi propri occhi ciò di cui stiamo effettivamente parlando…
Di sicuro a questo mondo esistono le coincidenze. Ma la maniera in cui il muro di Kaimanawa assoluta a una costruzione megalitica, ovvero del tipo costruito appoggiando le pietre l’una sull’altra senza l’impiego di calce o altra sostanza in grado di amalgamare il tutto, può diventare quasi surreale. Come fatto notare dall’esperto locale Vernon Smith nel nostro video di apertura, o dall’utente di YouTube Brien Foerster durante una sua visita dell’estate del 2015, ciascuna singola pietra parte dell’enigma appare eccezionalmente levigata ed almeno in apparenza, tagliata in maniera perfettamente perpendicolare e parallela al suolo. Esattamente come se si trattasse dei singoli mattoni di un muro convenzionale, le pietre coperte di muschio e vegetazione poggiano a intervalli regolari con un’assoluta corrispondenza nei fatti, all’opera di chi avesse voluto costituire un elemento architettonico destinato a durare nel tempo. L’utilizzo di un rudimentale goniometro sulla parte superiore della struttura, inoltre, permette d’individuare una smussatura perfettamente continuativa, nonché ripetuta in maniera identica dall’altro lato del muro. Mentre l’inserimento di stecche rigide all’interno delle fessure presenti tra i pietroni, o direttamente verso il basso attraverso il terreno soffice della foresta, può dimostrare la presenza di contorni perfettamente continuativi anche dove gli occhi non riescono ad arrivare, lasciando intendere la presenza di ulteriori macigni al di sotto del livello del terreno. Direttamente all’ombra del muro infine, dove l’accumulo di terra è stato spostato dalle ondate successive di turisti e curiosi, appare una superficie perfettamente liscia al di sotto di un letterale scalino che avrebbe potuto costituire, un tempo, lo spazio entro cui la sommità del muro s’incastrava con gli elementi sottostanti. Se un ipotetico visitatore dovesse basarsi unicamente sull’evidenza offerta dai propri occhi, insomma, non è affatto difficile che la sua convinzione finisca per essere quella di trovarsi di fronte a una creazione artificiale. Tanto che alcuni, pur di evitare il territorio problematico della teoria di Brailsford e Childless, hanno ipotizzato che il muro potesse avere meno di 100 anni, avendo fatto parte in passato di una segheria. Ma i chiari segni dell’erosione e del tempo, uniti all’imponenza della vegetazione abbarbicata sui megaliti, non può che portare tale interpretazione in secondo piano.
Il problema di attribuire la costruzione all’ipotetica civiltà dimenticata dei Waitaha è che nessuno, fino ad ora, è riuscito a provare al di là di ogni dubbio la loro esistenza. Il che equivale a dire, sostanzialmente, che i Polinesiani giunti con le loro canoe in Nuova Zelanda nell’epoca corrispondente grosso modo al nostro tardo Medioevo debbano necessariamente aver curato l’eliminazione sistematica non soltanto della popolazione pre-esistente, ma anche di ogni ricordo o reperto culturale rimasto sull’isola oggetto del loro fatale sbarco. Un vero e proprio genocidio. La stessa provenienza di tali genti sparite, d’altra parte, appare altamente misteriosa, con alcuni che sembrano ricercarla addirittura tra gli altopiani del Tibet o della Cina, mentre Brailsford stesso parla di una gestalt di popoli fantasticamente eterogenea, formatasi in tempi antichi presso l’Isola di Pasqua. Che partendo da un tale luogo remoto, in un momento imprecisato sarebbe giunta fin qui in una serie di migrazioni successive, antecedenti all’arrivo dei guerrafondai Māori. Una sicurezza, la sua, derivante da un misterioso rituale al centro del quale si sarebbe ritrovato in quegli anni, durante il quale i diretti discendenti delle antiche tribù Waitaha si sarebbero riuniti per concedere a lui personalmente la conoscenza della vera storia del loro popolo, avendo deciso che era giunto il momento di rivelare al mondo la verità. Ponendo così le basi per il suo bestseller “La canzone di Waitaha – Storie di una nazione” pubblicato nel 1989 e recante informazioni molto dettagliate sulla loro religione dedicata al dio della Pace, la composizione delle diverse tribù e le loro caratteristiche etniche, che includevano capelli chiari, una statura particolarmente alta e la predisposizione sociale a determinate branche dell’agricoltura. Con alcuni velati riferimenti agli Uru Turehu, Turehu e Patupaiarehe, i misteriosi “uomini della foresta” che popolano le antiche leggende neozelandesi, possessori di abilità magiche e sovrannaturali. Il che assai prevedibilmente, non ha fatto molto per accrescere il suo credito accademico nel momento in cui, pubblicando le sue rilevazioni presso il muro di Kaimanawa sette anni dopo, ha tentato nuovamente di accedere al prestigio internazionale.
Giudizi sul concetto stesso di scienza alternativa, sostenitori di antichi alieni e simili cospirazioni governative (che assai prevedibilmente, non hanno tardato a dire la propria sul misterioso megalito) è innegabile che il muro di Kaimanawa esista da n periodo di almeno 2.000 anni. Forse, a voler credere all’ipotesi del capo geologo Phillip Andrews, persino 320.000. E benché le rocce affioranti di ignimbrite, largamente attestate nella regione, possano presentare spaccature di tipo netto e perpendicolare, praticamente nessuna ha un’aspetto atipico quanto la strana presenza della foresta circostante il lago Taupo. Altrimenti, non esisterebbe neppure il caso, giusto?
La strada per chiarire l’intera questione appare assai semplice: basterebbe mettersi a scavare. Eppure, nessuno scava. Forse perché qualsiasi politico autorizzasse il lavoro, si ritroverebbe accusato di aver sperperato i fondi pubblici dietro ai voli pindarici di un fantasioso autore di storie passate. D’altra parte, l’ipotetica esistenza di una lobby Māori che influenza i governanti quasi esclusivamente caucasici, tentando di mantenere i propri diritti sulle terre come “popolo nativo” appare, di sicuro, ancor più improbabile e fantasiosa. Ma è nella sussistenza aleatoria di queste ed altre misteriose correnti, che riesce a prendere forma una delle anomalie più improbabili dell’archeologia moderna: il sospetto di un qualcosa di rivoluzionario, che dovrà necessariamente costituire l’equivalenza di uno stato di certezza. Finché qualcuno, in altri luoghi, riesca a provare l’esistenza dei Waitaha. Quando si può contare con assoluta certezza nella riuscita, o il chiaro fallimento di tale impresa (a seconda dell’esito desiderato) a che cosa dovrebbe mai servire, affaticarsi con vanghe, o cazzuole!