L’inaspettata indole guerriera del tapiro della Malesia

Per la terza volta, il piccolo Ryusei gridò all’indirizzo della sua finestra “Oh potente Baku-san, scaturisci dalle tenebre e divora il mio incubo!” Come trascinato dalla strana forza che appartiene alle regioni esterne del dormiveglia, il bambino si alzò quindi a metà dal letto, con gli occhi spalancati dal terrore: mostri indefiniti circondavano la sua coscienza, ai margini di un campo visivo immaginario generato dalla somma totale delle esperienze spiacevoli di una giornata. Mentre lui, impreparato al centro di un’aula fiammeggiante, doveva ripetere la lezione delle vacanze alla maestra di storia inviperita. Fu in quel preciso attimo che un suono roboante sembrò penetrare dallo spazio tra gli stipiti e la persiana, erroneamente chiusa in questo inizio settembre ancora caldo quanto i mesi più torridi dell’estate. Quindi un’ampia e cupa forma iniziò a penetrare attraverso la materia solida, avvolta da una luce azzurrina sovrannaturale. Aveva un’enorme testa simile a quella di un maiale, col corpo di orso, occhi da rinoceronte e zampe di tigre, mentre il pelo ispido ed irsuto pareva assomigliare a quello di una capra. Mano a mano che l’imponente creatura penetrava all’interno della piccola stanza, l’angoscia pareva in qualche modo attenuarsi. Ryusei comprese allora che non avrebbe potuto muoversi di un solo millimetro, semplicemente perché, suo malgrado, stava ancora dormendo. A quel punto un’arto a forma di tubo parve muoversi ai margini della sagoma che non riusciva totalmente a definire. “Accidenti!” Sarebbe stata l’esclamazione del bambino, se soltanto la sua lingua avesse potuto muoversi: “Che lunga proboscide che hai, Baku-san.” È per succhiare meglio, avrebbe risposto lui. Mentre l’appendice aliena si estendeva con un movimento indefinibile, ricoprendogli la faccia di amorevole calore e un bicchiere abbondante d’umida saliva…
Non è davvero chiaro, persino per gli storici più informati, in quali esatte circostanze la civiltà giapponese dell’epoca Muromachi (XIV-XV secolo) abbia avuto modo di entrare in contatto con una creatura tipica delle foreste pluviali e distante geograficamente come il tapiro, usata come ispirazione estetica per uno dei suoi yōkai (mostri notturni) più popolari nel mondo dell’immaginario moderno non-del-tutto-globalizzato: Baku il divoratore di sogni. Sappiamo tuttavia almeno per inferenza, che la specie in questione doveva necessariamente essere il Tapirus Indicus o tapiro dalla gualdrappa, anche detto “della Malesia” in funzione del suo paese di provenienza. La ragione di ciò è da ricercarsi nella stessa distribuzione delle cinque specie rimaste di questa antichissima creatura, quattro delle quali si trovano nelle giungle del continente agli antipodi dell’America Meridionale. Eppure nessuno, nel catalogare le caratteristiche estremamente distintive della versione asiatica, potrebbe mai dubitare della sua appartenenza allo stesso ramo dell’albero della vita, con una quasi assoluta corrispondenza di ciclo vitale, caratteristiche fisiche e abitudini comportamentali. Inclusa un’innata e spesso sottovalutata propensione, nel caso in cui venga minacciato dai suoi nemici naturali della tigre, il leopardo o il giaguaro, a difendersi strenuamente con la sua forza simile a quella di un cinghiale dal peso di 300-500 Kg, assieme a denti seghettati che normalmente, non avrebbero ragione di trovarsi nella bocca di un “pacifico” divoratore quotidiano di verdura. Tanto che, data la sua predisposizione territoriale paragonabile a quella di un ippopotamo, più di una madre tapiro col cucciolo si è dimostrata capace d’infliggere ferite piuttosto gravi ai malcapitati umani che transitavano da quelle parti, benché fortunatamente, nessuno abbia ancora riportato le conseguenze finali. Esiste almeno un resoconto straordinariamente vivido, tuttavia, che non può fare a meno di lasciare un senso d’ansia latente e timore nell’angolo più remoto dei propri pensieri…

I piccoli di qualsivoglia specie di tapiro, incluso quello della Malesia, presentano delle striature mimetiche simile a quelle dei maiali selvatici. Per questo in alcuni ambienti, vengono affettuosamente paragonati a delle angurie bianche e nere.

L’episodio è riportato nel libro divulgativo degli anni ’30 Bring ‘Em Back Alive del famoso naturalista, cacciatore e collezionista di animali selvatici Frank Buck, protagonista di molti documentari cinematografici statunitensi di quegli anni. Immaginatevi ora quest’uomo con baffetti alla Clark Gable, sorriso sicuro di se, inseparabili giacca coloniale e cappello da esploratore, che amministra serenamente un piccolo serraglio presso l’isola di Sumatra, assistito da un paio di abitanti del luogo ad accudire e nutrire un eterogeneo gruppo di scimmie, porcospini, uccelli tropicali, zibetti e un singolo tapiro.
Ora il grosso mammifero in questione, facilmente identificabile dalla macchia bianca o “gualdrappa” sul dorso tipica della specie Tapirus Indicus, era in realtà un esemplare con una difficile storia personale, che era stato precedentemente preso in una trappola da un affamato contadino del posto, utilizzando l’irresistibile radice di tapioca. La porta della gabbia a chiusura automatica, quindi, si era chiusa sulla sua schiena, lasciandogli delle profonde lesioni che adesso gli davano un forte prurito. L’animale, estremamente resistente come innata caratteristica della sua genìa, non appariva quindi in pericolo di vita, tuttavia Buck era determinato a spalmargli dell’unguento lenitivo che avrebbe ridotto il suo costante fastidio. Nel suo racconto, estremamente fiorito nelle metafore e prolisso dal punto di vista descrittivo, il naturalista si dilunga ironicamente nell’elencare tutte le ragioni per cui questo non avrebbe dovuto correre alcun pericolo: la famosa flemma di questi animali, il loro rinomato pacifismo comportamentale, il fatto stesso che si trattasse di un erbivoro assolutamente privo di aggressività. Ma le reazioni di un animale, soprattutto se si sente minacciato, possono essere imprevedibili. Ciò che segue, è decisamente spaventoso: mandati gli assistenti ad occuparsi d’altro, l’attore famoso nel recinto con l’unguento già pronto sulla sua mano destra, pronto a spanderlo sulla schiena del tapiro. Ma quello reagì balzando rapidamente di lato, quindi, senza un’apparente attimo d’esitazione, lo caricò. Schiacciato contro la staccionata del recinto e rimasto del tutto incapace di muoversi, Buck tentò più e più volte di toglierselo di dosso, finendo soltanto per peggiorare la sua situazione: nella parte culmine della vicenda, lo ritroviamo infatti sdraiato a terra, mentre tentava con le ginocchia di tenere la gigantesca bocca dell’animale lontano dalla sua faccia, che quest’ultimo pareva fermamente intenzionato a masticare. Fu allora che, per fortuna, le sue stridule grida riuscirono finalmente a richiamare l’assistenza dei suoi due sottoposti, che accorsero a bastonare il tapiro, mentre uno dei due riusciva, abilmente, ad inserire un’asse di legno nelle sue fauci spalancate, prevenendo il suo morso potenzialmente letale e portandolo, finalmente, a ritirarsi. Il capitolo prosegue con una lunga disquisizione tra il “saggio” uomo bianco, convinto che il comportamento della creatura fosse stato assolutamente naturale in funzione di un’erronea percezione di minaccia, e il suo servo Alì, fermo sostenitore della teoria che il tapiro fosse stato fatto, invece, oggetto di un qualche tipo di possessione demoniaca.
Considerazioni sul singolo fatto a parte, la potenziale pericolosità del tapiro è stata provata svariate volte, in epoca più recente: nel 1998, un guardiano dello zoo di Oklahoma City si è visto staccare un braccio da una madre in gabbia che credeva stesse per portargli via il cucciolo. Mentre nel 2006, niente meno che l’allora Ministro dell’Ambiente del Costa Rica si perse nel parco naturale del Corcovado, finendo per riportare una brutta ferita sulla spalla a causa del morso di un tapiro selvatico. Nel 2013, invece, venne il turno di una sfortunata bambina di soli due anni in visita coi genitori allo zoo di Dublino, che durante “un’esperienza a stretto contatto con la natura” finì per riportare lesioni di media gravità, alla base di una successiva condanna per negligenza nei confronti dell’istituzione cittadina. Detto questo, simili occorrenze in natura restano piuttosto rare, data la preferenza per il tapiro a scappare e gettarsi in acqua al palesarsi di una situazione di pericolo, sulle sue agili zampe ungulate. Come nella maggior parte dei casi, è soltanto quando l’animale si sente privo di vie di fuga, che il suo istinto diviene istantaneamente quello di combattere fino allo stremo.

L’amore per l’acqua e la natura pseudo-anfibia del tapiro malese è una caratteristica che lo accomuna al resto della sua famiglia, rendendo l’inclusione di una vasca nei suoi recinti un passaggio praticamente obbligato.

Il Tapirus Indicus, come nel caso dei suoi simili sudamericani, è ormai da tempo a rischio d’estinzione, a causa della caccia spietata che ne è stata fatta in passato e il progressivo ridursi delle vaste foreste che un tempo costituivano il suo regno indiscusso. Secondo l’indice dello IUCN, ne restano soltanto 2499 esemplari allo stato brado. Animale per lo più solitario, non è particolarmente prolifico considerata la sua longevità (fino a 35 anni) e richiede inoltre una gestazione particolarmente lunga, che supera abbondantemente i 13 mesi. Il singolo cucciolo quindi, un volta venuto al mondo, resta dipendente dalla madre e molto vulnerabile per un periodo di circa sei-otto mesi. La maturità sessuale, invece, viene raggiunta verso i tre anni di età. Incidentalmente, pare che il pene del tapiro sia il più lungo di qualsiasi animale in proporzione alle sue dimensioni. Nonché straordinariamente mobile e articolato.
Nell’interpretazione mediatica del tapiro asiatico, particolarmente quella nipponica, poco spazio viene riservato d’altronde alle sue abitudini alimentari, consistenti essenzialmente nel percorrere durante le ore crepuscolari l’ampia area del suo territorio attentamente marcato con l’urina, consumando una varietà di fino a 115 specie di piante diverse tra loro, successivamente digerite attraverso il processo di fermentazione all’interno di uno stomaco simile a quello dei ruminanti a noi più familiari. Questo perché, almeno secondo la leggenda di Baku, simili animali si nutrirebbero esclusivamente dei sogni degli umani, belli o brutti che siano, assolvendo spesso al compito di traghettatori tra lo stato di torpore e la veglia.
Un’interpretazione chiaramente individuabile nel mostriciattolo Drowzee e la sua controparte più evoluta Hypno, personaggi del popolare franchise multimediale Pokémon, presto destinato a ricevere l’ennesima edizione interattiva. Le cui battaglie, assieme a quelle del topo elettrico Pikachu, il drago Charizard & co. appaiono una via quantomeno tortuosa per far avvicinare le nuove generazioni alle scienze naturali. Da qualche parte, tuttavia, il vero divoratore di sogni ha bisogno del nostro aiuto. O per lo meno, che qualcuno conosca e racconti la sua storia. Vogliamo davvero che le ragioni dell’industria e del commercio condannino queste specie, uniche al mondo, a venire ricordate soltanto cartoni animati e nei videogames?

 

Drowzee, Pokémon di tipo psichico, attacca preferibilmente utilizzando poteri mentali e telecinetici di vario tipo. Per i tattici ed allevatori più intraprendenti, non è tuttavia impossibile insegnargli a mordere o caricare, esattamente come il vero tapiro delle foreste dell’isola di Sumatra.

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