L’enigma dei globi trasparenti venuti dal mare

La lunga giornata di ricerche doveva essere terminata, quando Ted Collinson, durante il viaggio in Hokkaido in un momento imprecisato della sua carriera di collezionista, lasciò la spiaggia di Wakkanai, soltanto lievemente deluso per il molto tempo passato a rastrellare la sabbia senza alcun nuovo reperto ad offrirne testimonianza. Dopo tutto, l’altro giorno ne aveva tirate fuori ben due, e la settimana scorsa, complessivamente, una mezza dozzina, ripagando ampiamente dal suo punto di vista la fatica e il denaro speso per giungere fin quassù. La fronte lievemente imperlata di sudore, nonostante la frescura latente d’inizio primavera, il visitatore americano iniziò a risalire uno stretto ruscello dagli argini scoscesi, usato come drenaggio dalle coltivazioni agricole situate verso l’immediato entroterra. Raggiunto il punto in cui il corso d’acqua svoltava improvvisamente a destra, quindi, i suoi occhi esperti notarono qualcosa d’interessante in posizione nascosta oltre il canneto. Un piccolo cumulo semi-sepolto di vegetali dismessi, scarti marcescenti ed altri prodotti collaterali dell’attività agricola, dove generazioni di agricoltori, nel tempo, avevano depositato inoltre pezzi d’attrezzatura ed altri oggetti indesiderati. Soltanto che in mezzo ad un tale ammasso, come lui ebbe modo di notare immediatamente, spuntava quello che poteva essere soltanto lo spigolo superiore di una scatola di cartone. Con il respiro accelerato e colto da una sorta di premonizione, il cacciatore-raccoglitore si avvicinò a un simile ammasso di rimasugli, scavando a mani nude soltanto per arrivare ad aprire il coperchio fangoso del contenitore; i suoi occhi, a quel punto, furono colpiti da un potente bagliore! La scatola era piena di frammenti di vetro, possibile testimonianza di quello che un tempo doveva essere un vero e proprio tesoro. Con la massima cautela, iniziò a metterli uno di fila all’altro sulla terra smossa, iniziando a coltivare un tenue barlume di speranza: forse gli sarebbe riuscito di trovare all’interno almeno un esemplare di quelli che venivano definiti in gergo i “capezzoli della sirena”? (Ovvero un bottone col marchio del fabbricante, utilizzato come tappo per gli esemplari prodotti da istituzioni di pregio.) Ma la realtà, come spesso avviene, doveva superare ampiamente la fantasia: perfettamente intatto tra la miriade di frammenti, un poco alla volta riemerse l’immagine impressa a caldo di un drago occidentale, erto sulle sue zampe posteriore. Posizionata al centro di quella che poteva essere descritta soltanto come una vera e propria zucca di vetro, del diametro di circa 40/50 cm, con la stessa colorazione delle vecchie bottiglie di sakè. Il fatto di trovarsi in quel preciso luogo. Poter vivere in prima persona un simile momento storico. Toccare con mano l’oggetto delle meraviglie, ben sapendo che secondo la legge del mare adesso apparteneva a lui. Tutto questo collaborava, nel trasportare metaforicamente Ted Collinson verso le regioni empiree di quello che poteva definirsi soltanto come il “Paradiso dei cercatori di galleggianti di vetro”.
Ci sono molti diversi sentieri d’ingresso nel mondo di ciò che pur sembrando superficialmente un mero passatempo occasionale, tende a svilupparsi in una letterale ossessione, capace di connotare ed arricchire la vita di molte centinaia di persone disseminate in svariate regioni del mondo. Tanto vale iniziare, dunque, dalle regioni d’alto mare antistanti Luzon, nell’arcipelago delle Filippine. Dove le acque del Meridione, convogliate fin qui dai venti della Terra, si uniscono al grande corso della corrente del Pacifico Settentrionale, iniziando un lungo viaggio verso le regioni artiche del pianeta. Assumendo il nome locale di Kuroshio ( 黒潮- corrente nera) attraverso una serie di cerchi simili alle metà inferiore e superiore di un “8”, che passeranno di fronte alla barriera corallina più a settentrione del mondo nella baia di Tsushima, per poi continuare vagare verso Est presso le distanti coste del Canada e degli Stati Uniti… Dove la gente, da svariate generazioni ormai, tende a trovare ogni tipo d’oggetto inaspettato. Ma persino anatre di gomma, bottiglie con il messaggio e flaconi di detersivo non sono nulla! Al confronto di quello che costituisce il più prezioso tesoro d’innumerevoli cercatori delle spiagge dimenticate: un singolare esempio di ciò che viene chiamato, per antonomasia, ukidama (浮き玉 –  sfera galleggiante) o bindama (ビン玉 – sfera di vetro) benché tradizionalmente abbia trovato ampio utilizzo storico anche in Corea, in Russia e nei paesi a settentrione d’Europa, al posto delle soluzioni precedenti costruite in legno e sughero, materiali largamente incapaci di resistere alla furia continuativa degli elementi. Eppure, tanto spesso era necessario aspettarsi proprio questo da simili oggetti, durante la pesca su vasta scala dei paesi industrializzati, come unico metodo affidabile per marcare la posizione delle grandi rete sospese, vero e proprio pilastro di una simile attività. Finché a un certo Christopher Faye, mercante della città norvegese di Bergen, non venne un’idea…

L’utente di YouTube kmkinzie mostra l’eccezionale ritrovamento di galleggianti di vetro provenienti dal Giappone, a seguito di una potente mareggiata sulla costa delle isole Aleutine, letterale “coda” geografica dell’Alaska.

La storia dei galleggianti sferoidali di vetro viene fatta iniziare tradizionalmente attorno al 1840, quando l’inventore, collaborando con la rinomata vetreria Hadeland della sua città, fece produrre per la prima volta in serie quelli che a partire da allora presero il nome di galleggianti da pesca “moderni”. I quali, violando l’intuitiva legge di compensazione del cosiddetto triangolo dell’ingegneria umana, riuscivano ad essere al tempo stesso migliori, più veloci ed economici da produrre rispetto alle alternative coéve. Di certo la ragione non è difficile da capire, considerata la maniera in cui sembravano prendere forma: semplicemente, all’estremità di un tubo di soffiatura, maneggiato da un operatore vetraio e scaldato fino al calor rosso, per poi essere appoggiati su di un piano e sommariamente tappati, attraverso l’impiego di un semplice pezzettino di materiale semi-trasparente. Il quale proveniva spesso, come del resto l’ammasso principale sfruttato dagli stabilimenti designati, da operazioni di riciclo d’infinite quantità di bottiglie recuperate in giro, lasciando in questo modo intravedere una preliminare coscienza ambientalista in anticipo di svariate generazioni. Simili oggetti quindi, prima di essere venduti ai pescatori, venivano inseriti all’interno di un sistema complesso di nodi simile ai merletti del macramè, usato come ausilio per assicurarli alla rete principale.
Una volta che la voce dell’efficienza del nuovo sistema ebbe modo di spargersi su scala internazionale, inevitabilmente, i galleggianti di vetro diventarono uno standard dell’industria tra Oriente e Occidente, almeno fino all’introduzione delle alternative in plastica e polistirolo dell’immediato dopoguerra. Alcuni pescatori abitudinari tuttavia, sopratutto in Estremo Oriente, continuarono ad utilizzare il sistema norvegese ancora per molti anni e in rari, specifici casi, non l’abbandonarono mai. E ciò è prevedibilmente vero sopratutto nel paese tradizionalista per eccellenza, da sempre legato ai metodi e i sistemi delle antiche tradizioni, dove i cappellini di Pikachu trovano posto sugli scaffali a fianco di riproduzioni degli elmi dei samurai. E talvolta, le riproduzioni più o meno fedeli di questi oggetti restituiti dal mare, in molteplici colori, ulteriore punto d’orgoglio dinnanzi all’opinione e la mentalità di chi sa apprezzare tecnologie desuete. Detto questo, un vero ukidama è facilmente distinguibile dalla versione prodotta in laboratorio, data la presenza dei chiari segni d’usura, dovuti all’azione per molti anni della sabbia dei fondali e l’opacità inflitta dall’acqua salmastra. Un altro segno della provenienza autentica di un particolare esemplare può essere l’antica corda con cui era originariamente legato alle reti, benché spesso quest’ultima tenda ad essere completamente erosa e strappata via dal mare. La presenza di un marchio riconoscibile, sul tappo oppure in prossimità di esso, può accrescere il valore di un particolare ritrovamento, specie se contiene una figura o un ideogramma particolarmente interessante. Su alcune spiagge della Danimarca, ad esempio, sono stati ritrovati dei galleggianti contrassegnati con un triquetra di pesci, simbolo potenzialmente allusivo alla moltiplicazione che ne fece Cristo assieme alle forme di pane durante uno dei suoi miracoli più famosi. Nessuno, ad oggi, ha saputo identificare la loro vetreria di provenienza.
Un tipo alternativo di galleggiante in vetro era a quello a forma di mattarello, costruito per essere più facile da assicurare alle reti da pesca anche senza circondarlo interamente di corda. L’importanza storica di un simile oggetto è anche direttamente proporzionale alle sue dimensioni. E non soltanto per un valore aggiunto all’interno del luogo che dovrà essere ornato dalla sua presenza. Resta infatti particolarmente nota la triste, quanto inevitabile tendenza degli esemplari più imponenti a spezzarsi una volta raggiunta la costa, a causa del loro peso e fragilità maggiore. Va da se, in conseguenza di questo, che un reperto come quello trovato da Ted Collinson presso il canale dell’isola di Hokkaido, probabilmente privo di eguali al di fuori del Giappone stesso, possa arrivare a valere svariate migliaia di dollari sul mercato americano. A patto di riuscire a trovare il giusto compratore.

La tecnica di chiusura delle sfere nella rete annodata a mano è in se stessa un’arte, oggi dimenticata da molti praticanti dell’attività di pesca in alto mare. Ma non tutti imparano a fare determinate cose per mera e semplice “necessità”…

Un altro importante metodo per determinare il valore di uno di questi galleggianti è prendere nota del suo colore. Un buon 90% degli ukidama esistenti, in effetti, sono di un verde pallido schiarito negli anni dall’effetto continuativo del sole. Alcuni, tra quelli che hanno visto una produzione più recente o hanno avuto la fortuna di rimanere sepolti per molti anni, possono presentare una tonalità più scura, prossima al verde oliva. Ve ne sono anche di trasparenti o tendenti a una lieve tonalità violacea simile all’ametista, dovuta al contenuto di manganese nel vetro utilizzato per costruirli, fuoriuscita negli anni attraverso un processo che ricorda l’ossidazione. In rarissimi casi, sono stati ritrovati dei galleggianti viola scuro, identificati da alcuni collezionisti come esemplari usati dalle imprese di pesca in qualche modo “connesse alla famiglia imperiale”. Un’ipotesi che almeno personalmente, sarei propenso a definire del tutto priva di fondamento, benché tali galleggianti si dimostrino comunque spesso autentici nel complesso. Diversamente da quelli rossi, gialli, arancioni o di altre tonalità improbabili, spesso particolarmente amate dai fabbricanti (e compratori) di souvenir.
Avanti e indietro, giorno e notte, anno dopo anno. La risacca percorre le coste dei paesi che si affacciano sull’Oceano Pacifico, cancellando le orme e con esse una concezione che un tempo, ci apparteneva istintivamente: il fatto che chiunque condivida lo stesso ammasso d’acqua salmastra appartiene, fondamentalmente, a un’unico popolo indiviso. Ragione per cui gli oggetti persi o dimenticati da qualcuno, durante il loro utilizzo, possono un giorno diventare il possedimento più importante di un distante fratello, che il possessore originario non ha visto, e probabilmente non vedrà mai. Sotto il segno delle nubi che percorrono i cieli, le stelle sepolte in spiaggia ed i molti globi del vasto mare.

Lascia un commento