Il trattore venuto dal futuro per bonificare gli acquitrini d’Olanda

Nel film del 1994 Timecop, l’attore e artista marziale Jean-Claude Van Damme viaggia indietro da un futuro 2004, per fermare ad ogni costo i piani di un’organizzazione terroristica che si era impadronita della macchina del tempo. C’è una storia lievemente surreale basata su uno degli argomenti più cari alla fantascienza classica, ci sono arti marziali, ci sono “copie” multiple dello stesso attore, invecchiato ad arte per collaborare con la copia più giovane di se stesso. Con un incasso di oltre 100 milioni di dollari, la pellicola costituisce ad oggi il più grande successo di JVCD, arrivando ad essere citato in molti ambiti della cultura pop moderna, per alludere concetto di un operatore anacronistico capace di risolvere situazioni di crisi. Non era ancora capitato, tuttavia, che un simile percorso venisse battuto nel campo dell’agricoltura tecnologica, un mondo dove tutto è praticità e materialismo, fatta eccezione per il marketing, questa finestra d’accesso all’arte creativa che si affaccia su ogni recesso della società commerciale moderna. Del resto, l’associazione non può che essere chiara, quando si prende in considerazione un veicolo la cui stessa ragione d’esistenza è l’imponente “V” puntata verso il terreno, che impiega al fine di svolgere la sua mansione principale. Posizionare “tubi” in mezzo ai campi. Ma forse stiamo impiegando un’eccessiva semplificazione, nell’approcciare la questione come se fosse un comune passaggio procedurale di un’urbanizzazione impossibile, quando si considera la velocità straordinaria con cui tale complicata mansione viene portata a termine, quasi come se l’infrastruttura in questione fosse letteralmente evocata dagli strati di terra sepolti, mentre l’autista del mezzo serenamente preme sul pedale magico dell’acceleratore. Questo scavatore no-dig o come viene chiamato in olandese, sleufloos, si presenta come l’interpretazione presente di un veicolo usato per l’esplorazione di Marte, con i suoi appariscenti cingoli cromati coperti di punte di metallo anti-corrosione, in realtà concepite per massimizzare la superficie a contatto col suolo, salvaguardando così l’integrità della vegetazione di superficie. Ecco, in parole povere, ciò di cui stiamo parlando: un dispositivo capace di lavorare nel sotto, senza compromettere il sopra. Praticamente, l’equivalente agricolo-edilizio di un intervento in video-laparoscopia.
Ma perché, esattamente, un contadino olandese (terra d’origine di un tale mostro meccanico) dovrebbe avere interesse a disporre una rete di tubi sotto il proprio terreno fertile, indipendentemente da quale sia il tipo di sementi oggetto del suo lavoro stagionale? Le risposte sono molteplici e fanno tutte capo alla stessa problematica concettuale: rimuovere quella cosa generalmente buona che è l’acqua, la quale tuttavia in quantità eccessiva, può causare un’infinità d’importanti problemi. Come evidenziato dalla presenza dell’apposito fiumiciattolo di drenaggio posizionato ai margini del campo coltivato, completamente ricoperto da uno strato di lenticchie d’acqua (Lemnoideae) capaci di soffocare, ed eliminare del tutto ogni creatura vegetale di terra, se soltanto riuscissero a dilagare al di fuori dell’area di confine precedentemente scavata.  E sfortunatamente esistono luoghi, come questo, in cui la natura argillosa del terreno impedisce all’acqua di essere assorbita, rendendo una tale ipotesi estremamente probabile in caso di pioggia, per non dire una matematica, quanto indesiderabile certezza. Chi chiamare, dunque, al sopraggiungere di un simile rischio? Se non la macchina straordinaria di Van Damme. Un evidente concessione al benessere collettivo del più avveniristico recesso della tecnologia. Senza un minimo d’esitazione, dunque, l’operatore singolo guida il trattore cingolato fino al margine del canale. Premendo l’apposita leva, quindi, abbassa il braccio meccanico che sostiene la “V” di metallo, ponendone il cuneo al di sotto del livello dei suoi stessi cingoli, per poi innestare la marcia indietro. Ciò che succede a quel punto, è che una sezione orizzontalmente estesa di terra viene spinta verso l’alto, creando uno spazio vuoto pronto per essere riempito da… Qualcosa. Un qualcosa che già si trova, con estrema praticità e convenienza, ordinatamente avvolto attorno all’apposita spoletta veicolare, dalla quale viene progressivamente srotolato e posizionato in automatico sotto terra. È una notevole semplificazione, questa, di uno dei sistemi di salvaguardia del raccolto più dispendiosi e complessi da implementare, fin da quando ne parlarono a distanza di tempo gli storici Catone e Plinio il vecchio, nei tre secoli a cavallo della nascita di Cristo. Stiamo parlando, se non fosse già estremamente chiaro, di una procedura davvero interessante…

Un esempio di posatura dei dreni secondo la procedura convenzionale. Sono richiesti tre veicoli: un trattore per creare la trincea, un altro che srotola il tubo ed un bulldozer incaricato di ricoprirlo con la terra smossa. Direi che la praticità del metodo olandese, a questo punto, non può che risultare evidente…

In origine erano le mattonelle. O per meglio dire elementi di ceramica dalla forma piatta e ad arco, disposti in sequenza e con la giusta inclinazione a una profondità di circa un metro, con l’obiettivo di raccogliere le acque filtrate fin laggiù, portandole fino al canale di scolo principale. Ragione per cui, in lingua inglese soltanto lì, tale intero ambito infrastrutturale prende tutt’ora il nome di tile draining, ovvero drenaggio delle mattonelle. Quando in realtà oggi niente di simile viene effettivamente usato, lasciando lo spazio a sistemi di vera e propria idraulica noti come dreni tubolari o di nuovo all’estero, weeping pipes (tubi piangenti). Essenzialmente delle lunghe maniche in materiale plastico, con dei micro-fori sulla superficie, sufficienti a lasciar penetrare l’acqua ma auspicabilmente, non la terra e i detriti. I quali dovrebbero trovare posto, secondo la soluzione convenzionale del cosiddetto drenaggio francese, all’interno di un letto di ghiaia attentamente dimensionato, affinché il residuo della pioggia possa accumularvisi e progressivamente, risalire dal basso. Appare tuttavia evidente che costruire qualcosa di simile, forse concepito per la prima volta nelle Fiandre ma reso in effetti celebre nel mondo dall’avvocato del Tesoro americano Henry Flagg French (strana coincidenza!) in un suo libro del 1859, abbia un impatto notevole sulla conformazione del terreno, portando a un danneggiamento inerente del sostrato che risulta soltanto in parte migliore del dilagare dell’acqua fuori controllo. L’approccio per così dire moderno dei semplici aratri-talpa, traini capaci di aprire una strada sotterranea per il drenaggio al di sotto di uno stretto solco, richiede un lavoro di mantenimento continuo causa la tendenza del terreno a riempire i vuoi. Ed è proprio questo, l’aspetto geniale del dispositivo no-dig: la sua capacità di sfruttare il punto d’accesso dal minore impatto, per collocare all’interno una struttura semi-permanente. I tubi in questione devono essere, in assenza della ghiaia protettiva, del tipo più sofisticato, ovvero ricoperto dal materiale geotessile noto come tessuto non-tessuto, una fibra sintetica capace di agire come filtro nei confronto dei materiali al di sopra di una certa granulometria. Il che dovrebbe, almeno idealmente, impedire per molti anni l’ostruzione di questa formidabile misura preventiva nei confronti di eventuali allagamenti presenti o futuri. E non c’è davvero da meravigliarsi, per il fatto che una simile invenzione provenga proprio dall’unico paese europeo con parti significative del proprio territorio al di sotto del livello del mare, per cui controllare i movimenti dell’acqua, piuttosto una semplice necessità occasionale, diventa un fondamentale meccanismo di prosperità e sopravvivenza.
Detto questo, è certamente singolare che un simile apparato altamente risolutivo resti ad oggi appannaggio soltanto di particolari paesi confinanti nella parte settentrionale dell’Europa continentale. Secondo alcuni, la ragione andrebbe ricercata nella specifica situazione normativa del drenaggio agricolo nei super-umidi Paesi Bassi, che richiede il posizionamento a profondità particolarmente elevate ma a parte questo, non presenta limitazioni operative di sorta. Mentre altrove, causa l’insorgere di un senso collettivo di responsabilità, è ormai percezione diffusa che tali opere vadano perseguite con moderazione. Oppure, si tratta di semplice resistenza alle novità provenienti da lontano? Gli agricoltori, si sa, tendono a conservare.

La compagnia Van Damme produce anche una macchina per lo scavo di trincee di tipo convenzionale, altrettanto abile nello srotolamento automatico del tubo. Questo metodo, meno pulito, è consigliabile nel caso in cui il terreno presenti una permeabilità pressoché nulla.

Celebrato un tempo come la chiave mistica capace di trasformare inaccessibili paludi in terreni pronti alla coltivazione, come nel caso dell’ormai leggendaria palude Pontina, il drenaggio agricolo viene oggi considerato uno strumento potente, il cui utilizzo va tuttavia attentamente regolamentato. Negli Stati Uniti ad esempio, si stima che lungo l’arteria migratoria nota come Central Flyway si sia verificato nell’ultimo secolo un drastico calo di molte specie di uccelli acquatici, letteralmente decimati dalla progressiva riduzione dei loro habitat di sosta fondamentali. È stato inoltre dimostrato come l’accelerazione del progredire dell’acqua verso i canali artificiali e da lì, i grandi fiumi del territorio, ne alteri il preciso contenuto di sostanze nutritive e composizione chimica, causando ulteriori mutamenti rispetto ai quali non sempre, la natura possiede adeguate contromisure.
Persiste in tutto questo, la ricerca di un equilibro idrico talmente complesso da poter essere paragonato a quello di Van Damme nella pubblicità della Volvo, in equilibro mentre fa la spaccata su una coppia di camion lanciati sull’autostrada. Ma difficilmente noi potremo, salvo eventi tecnologici d’eccezione, ritornare coi nostri pugni fino all’epoca in cui venne commesso l’errore ancestrale. Citando noi stessi, in una degenerazione auto-referenziale capace di creare una quantità virtualmente infinita di copie di noi stessi. Il più pervasivo, e potenzialmente umido tra i paradossi.

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