Nomi altisonanti e difficili da pronunciare, come voci sull’elenco telefonico dell’inquietudine geografica e situazionale: chi ha paura dell’Eyjafjallajökull? Dell’Heinabergsjökull? Oppure del Lambatungnajökull? Di sicuro gli islandesi avevano ottime ragioni, per dare tali lunghi nomi alle montagne sputafuoco che costellano la loro terra, in bilico tra due placche continentali eternamente prossime alla separazione… Ovvio, e quel motivo è lo jökull: acqua solida e talvolta trasparente, come il vetro. O per essere specifici, la manifestazione di una simile sostanza che prevede un’ampio agglomerato, ad alta quota, eternamente chiuso nella morsa del profondo gelo, il ghiacciaio. E si potrebbe anche pensare un ambiente come questo, così estremo per le condizioni climatiche e ambientali, possa prevenire casi come quelli di quell’altro gruppo d’isole, sopra il confine dell’Anello del Pacifico, generalmente detto in forma semplice “il vulcano delle Hawaii”. Già, il fiume di lava è una visione che può incutere terrore. Che la terra dei vichinghi più remoti e coraggiosi, dal suo canto, non conosce particolarmente bene. Per il frutto dell’interazione, complessa e ancora non del tutto compresa, tra l’effluvio magmatico e la neve, che contiene, blocca, immobilizza il flusso della pietra fusa. Ma l’energia che trova in questo modo l’accumulazione, non può chiaramente scomparire. Così viene accumulata, ancora e ancora, sotto quella superficie solida e biancastra, mentre il ghiaccio circostante torna gradualmente liquido, formando grandi laghi subglaciali. Qualche volta, il pericolo viene in qualche modo rilevato, dando il tempo di evacuare il territorio. D’altra parte, non c’è molto che possa essere fatto dalla mano umana. Quando il riscaldamento termico raggiunge il punto di non ritorno, l’acqua inizia all’improvviso a defluire. Ed è questo il nome del fenomeno: jökull (ghiaccio) + hlaup (corsa) intesa come un balzo verso i bassopiani, dove convenzionalmente, trova posto la struttura urbana della nostra società. È una visione…Apocalittica, a dir poco.
Il 5 novembre del del 1996, alle ore 9:00 viene notato un progressivo ingrossamento del fiume Skeiðar sotto il vulcano Grímsvötn, nella riserva naturale di Vatnajökull, parte sud-occidentale del paese. Non si tratta di un fenomeno insolito in una simile stagione e per questo, da principio, nessuno sembra preoccuparsi eccessivamente. Entro un’ora tuttavia, la situazione continua ad aggravarsi e un imponente ponte lungo 900 metri deve essere chiuso, mentre i suoi piloni vengono circondati da un flusso di detriti e letterali piccoli iceberg, ammassi solidi staccatosi dalla montagna soprastante. Strani tremori vengono avvertiti dalla gente in zona. Alle ore 13:00 la corrente manca in tutta la regione, mentre testimoni oculari giurano di aver visto il ponte scomparire tra i flutti, benché ciò si riveli successivamente essere un’esagerazione. Anche se un altro ponte sul fiume Gýgja, molto meno lungo, non sarebbe stato altrettanto fortunato, venendo trascinato via dall’onda dei detriti. Entro sera, il flusso d’acqua raggiunge un flusso di 25.000 metri cubici al secondo, mentre l’acqua accumulatisi nella caldera continua a scendere, scagliando con furia una quantità impressionante di materiale verso la costa. Alle 23:00, la situazione raggiunge l’apice: 45,000 metri cubici al secondo; l’equivalente delle cascate del Niagara e il fiume Mississipi che si sommano l’un l’altro, devastando totalmente un’area per fortuna totalmente disabitata, ma arrecando danni alle strade che si stimano sufficienti a riportare la viabilità alle condizioni di 20-30 anni prima. E danni per l’equivalente di 1,2 miliardi di euro. Certo, non tutti i jökulhlaup sono tanto ampi e devastanti. Eppure, secondo i più recenti studi nel campo della vulcanologia, sono forse quelli più piccoli e meno apparenti, ad arrecare i mutamenti maggiormente significativi alla terra nota come isola del ghiaccio e del fuoco: semplicemente per la perseveranza con cui sembrano verificarsi ogni anno, tanto che ormai si è soliti parlare in inverno avanzato di “stagione dei jökulhlaup”. Ci sono due modi, essenzialmente, in cui qualcosa di simile può arrivare a verificarsi: il primo è dovuto al ciclo di rafforzamento positivo del sole. A causa dell’insistente battere di tali raggi, progressivamente si forma una pozza in un punto definito del ghiacciaio, la quale risulta inerentemente più efficace nell’assorbire il calore. Così tende via via ad espandersi, generando ancora più calore ed accrescendo il sussistere di uno stato di criticità. Assai più spesso, tuttavia, eventi come quello del Grímsvötn sono frutto di una qualche forma di riscaldamento geotermico, che non deve necessariamente essere un’eruzione, benché risultando più che sufficiente a dare il via all’effluvio devastante di acqua e pietra, così giustamente temuto dagli abitanti della terra più ad occidente d’Europa. In uno stato di (quasi) costante preoccupazione…
Nota: le immagini di apertura sono le riprese via drone di Eric Cheng del grande lago di lava emerso nel 2014 ad Holuhraun, zona nord del ghiacciaio Vatnajökull. Il suo arrivo è stato preannunciato da una serie di significative ma non gravissime ondate di jökulhlaup.
L’Islanda costituisce uno di quei luoghi, affascinanti nell’immaginario popolare, che tuttavia non vengono compresi o interpretati in modo approfondito nella psiche dell’informazione collettiva globalizzata. Così ogni qualvolta che una piuma di cenere si espande, a partire da uno dei suoi numerosi crateri, si fa un gran parlare del pericolo che ciò costituisce per il regolare transito aereo, con qualche notazione circostanziale relativa alla “caduta di lapilli fino alla città di Londra!” Senza tuttavia pensare in modo eccessivo alle condizioni della gente del territorio, che dovrà di nuovo ritrovarsi a gestire quella che pur non potendosi definire un’emergenza (troppo comune per essere definita tale) può degenerare in situazioni critiche degne di nota. Il problema del jökulhlaup, rispetto alla colata lavica convenzionale, è che non può essere previsto e avviene a una velocità infinitamente maggiore. Immaginate voi una frana, però accompagnata da un volume d’acqua incalcolabile e la roccia ancora friabile di un’eruzione in corso, pronta a sbriciolarsi per creare un pericoloso ammasso fluido che non risponde alle norme della fisica newtoniana. Come la liquefazione del suolo, frutto dei più gravi terremoti, una tale ondata è totalmente immune ad ogni tentativo di deviazione, controllo o prevenzione. E se un giorno dovesse dirigersi verso un’area urbana, nessuno può effettivamente prevederne le conseguenze.
Un altro problema di questo tipo di fenomeni è che non occorre, comparativamente, un’eruzione vulcanica direttamente proporzionale al flusso dell’inondazione. Uno dei più gravi jökulhlaup di cui si abbia memoria ad esempio, verificatosi nel 1755 sulle pendici del vulcano Katla, fu il frutto di un episodio dalla gradazione 5 (su un massimo di 8) tuttavia capace di generare un flusso stimato di 400.000 metri cubi al secondo. E cumuli di detriti risultanti, dalla massa complessiva svariate volte superiore “a quella della grande piramide di Giza”. Simili quantità di materiale, naturalmente, non possono spostarsi senza lasciare delle profonde cicatrici sul territorio, che tendono ad assumere l’aspetto di veri e propri tunnel a cielo aperto. Un tipo di scenario erosivo che è stato osservato anche nell’Antartico, portando gli esperti a sospettare dell’esistenza di simili fenomeni anche in territori dalla casistica vulcanica tutt’altro che verificata. Fenomeni associabili all’effluvio geotermico dei ghiacciai sono stati osservati, dunque, in molte zone anche distanti del pianeta, incluso il Canada, l’Alaska e la Siberia, portando all’adozione del termine islandese con il ruolo di antonomasia tecnica, perfettamente utile a descrivere il pericolo di un tale meccanismo naturale. Secondo i dati statistici presi in analisi, dunque, nel corso della storia registrata sarebbero morte oltre 37.000 persone a causa di questo letterale effetto domino degli elementi, riassumibile potenzialmente nell’ossimoro per eccellenza di “ghiaccio bollente”. Non c’è molto, in definitiva, che si possa fare per prevenire o proteggersi dal verificarsi di una tale classe di fenomeni, particolarmente in Islanda, dove le condizioni che gravano sugli abitanti costituiscono una letterale tempesta perfetta di fattori, che non possono prescindere dall’occasionale rilascio della pressione. Tuttavia è chiaro che l’effetto del riscaldamento globale, con conseguente indebolimento dei ghiacciai, abbia progressivamente incrementato il rischio connesso al concetto internazionale di jökulhlaup.
Tra l’analisi generalista dei possibili disastri interconnessi all’attività geotermica del mondo, l’inondazione di tipo islandese viene spesso trascurata, per dare spazio ad altri tipi di casualità più note: incendi, terremoti, uragani. Il che rende difficile per la popolazione di questi luoghi, talvolta, associare i primi segni di una simile occorrenza. Il che del resto, potrebbe facilmente andare incontro a una risoluzione. Dov’è Hollywood, con i suoi magnifici effetti speciali, quando occorre rappresentare i contenuti di un nuovo e ancora più terribile disaster movie? Celebrare lo stato di pericolo costante in cui viviamo, spesso a nostra collettiva insaputa, non è sempre, e neppure necessariamente, una mancanza di rispetto verso chi ha sperimentato simili conseguenze sulla propria pelle. Bensì un’occasione, offerta generosamente a tutti quanti, di riuscire a meditare sulle conseguenze più remote delle nostre azioni.
Forse usare quella bomboletta spray per fermare i capelli o pulire il computer, oggi, non allargherà in maniera significativa il buco dell’ozono. Ma se è vero, come disse il creatore della teoria del chaos Edward Lorenz, che il battito delle ali di una farfalla brasiliana può provocare un devastante tornado in Texas…