Un interessante aspetto nell’evoluzione della moderna creatività fantastica umana, è che sotto determinati punti di vista sotto stati fatti dei significativi passi indietro, rispetto all’intensità e lo spirito dell’epoca medievale. Perché cos’è, fondamentalmente, una creatura leggendaria? Se non la commistione di diversi aspetti, ciascuno appartenente a una diversa branca dell’evoluzione. Corpo di capra, testa di capra, coda e lingua di capra… Ben pochi potrebbero entusiasmarsi per una simile creatura. Ma basta aggiungere parti provenienti da serpente, leone ed aquila, per trovarsi dinnanzi a una strabiliante chimera. Il progresso della ricerca scientifica e la descrizione formale delle specie terrestri effettivamente esistenti ci ha dimostrato, del resto, come simili visioni appartengano non soltanto al regno del possibile, ma all’effettivo patrimonio biologico di questo pianeta. Difficile appassionarsi ancora alla storie del mostro di Lochness o Piedone, quando possiamo recarci in Australia e toccare con mano l’ornitorinco. Altre fonti d’ispirazione per la stessa linea specifica di pensiero, nel frattempo, vennero scoperte in epoca ancor più recente, alimentando ulteriormente l’alone di mistero che sembrava circondare la loro stessa esistenza.
Per tutta la seconda metà del XIX secolo, durante il periodo selvaggio noto come la spartizione dell’Africa, i numerosi governatori, viceré, esploratori e naturalisti provenienti dai vari potentati europei ebbero modo di acquisire dai nativi locali la cognizione di un particolare animale tra tutti gli altri, che sembrava essere accomunato concettualmente a una sorta di asino della lunghezza di 2 metri e mezzo. Chiamato atti in Congo, e o’api nella lingua d’Uganda, l’essere venne menzionato per iscritto la prima volta nelle memorie di Henry Morton Stanley, giornalista gallese, prima di costituire una sorta di rito di passaggio per chiunque pretendesse di classificare l’intero patrimonio biologico del primo continente. Tutti sognavano d’incontrare il misterioso “equino” e talvolta arrivavano a scorgerlo nei loro sogni, mentre sembrava invitarli con un cenno del muso nella penombra della sconfinata foresta. Ma sarebbe stato Sir Harry Johnston, l’influente amministratore coloniale inglese del proverbiale incontro (“Lei è il Dr. Livingstone, presumo?”) a dirimere almeno in parte l’annosa questione, quando negli ultimi anni dell’800, nel corso dei suoi viaggi, si sarebbe ritrovato a salvare alcuni pigmei dello Zaire da un circo itinerante, che li aveva imprigionati per farne la propria attrazione principale. Gli indigeni della foresta, dunque, per ringraziarlo del magnifico gesto, accettarono di saziare la sua curiosità sulla creatura menzionata nel libro di Stanley, facendogli da guida nel territorio occupato dalla creatura. Johnston non avrebbe quindi mai incontrato l’animale che oggi porta scientificamente il suo nome, benché l’opportunità di scorgerne alcune impronte, innegabilmente, costituì l’occasione di ricredersi in merito alla sua natura. Quello che doveva essere infatti, anche nella descrizione dei suoi nuovi amici, un “cavallo”, pareva lasciare dei segni sospettosamente simili a quelli di un ungulato, con degli zoccoli biforcuti niente affatto dissimili da quelli di un cervo, una pecora o un cinghiale. Quando in seguito, nel 1901, a questa esperienza sia aggiunse l’opportunità di ricevere dai nativi un teschio di un esemplare defunto (probabilmente per cause naturali) l’esploratore e naturalista decise di spedirlo alla Royal Society di Londra, ponendo le basi per un evento mediatico in grado di coinvolgere ed appassionare la fantasia del pubblico. La corsa a scoprire che cosa fosse effettivamente l’okapi era aperta, e tutti sembravano avere qualcosa da dire al riguardo.
È strano come caratteristiche relative alla grazia innata o capacità di nascondersi di una creatura tendano ad essere associate a un particolare patrimonio genetico, quando l’esperienza c’insegna che singole specie, appartenenti a nicchie ecologiche estreme, possono divergere in maniera sostanziale dal resto dei loro vicini sull’ampio albero dell’evoluzione. Chi ha mai deciso in effetti, a parte i pittori pre-raffaelliti, che l’unicorno debba necessariamente essere un aggraziato cavallo? Per quanto ne sappiamo, poteva essere una versione europea del rinoceronte. Ben presto, ad ogni modo, l’idea generalmente accettata che l’okapi fosse una sorta di zebra della foresta pluviale venne necessariamente sovrascritta dall’evidenza. I resti spediti da Johnston con le sue sette vertebre oblunghe, in effetti, potevano appartenere soltanto a una singola cosa: una versione più piccola della giraffa. Per lunghi mesi si tentò dunque di accomunarli alternativamente alle versioni ritenute estinte della stessa famiglia, come l’elladoterio (Helladotherium duvernoyi) del Miocene o il paleotrago (gen. Palaeotragus) del Pliocene inferiore, se non che più tardi quello stesso anno, lo zoologo inglese Philip Lutley Sclater riuscì ad ottenere dagli stessi pigmei del Congo un esemplare vivo della creatura, che si affrettò a studiare e descrivere in maniera completa. Pur avendo formalmente il merito della scoperta, dunque, l’uomo decise di onorare il suo insigne precursore attribuendo all’animale il nome scientifico di Okapia johnstoni; ovvero qualcosa che il mondo occidentale, prima di allora, non aveva mai avuto modo di conoscere, neppure indirettamente.
Dal punto di vista biologico, l’okapi è un erbivoro solitario e timido, di color marrone vellutato tranne che per le zampe a strisce come le zebre, che occupa alcuni territori altamente specifici dell’Africa centrale. In modo particolare le foreste congolesi, dove è convenzione che i maschi conducano una vita migratoria, mentre le femmine, talvolta con un singolo cucciolo, occupano dei territori di circa 3-5 Km quadrati. Questi giraffidi, straordinariamente veloci ed agili una volta raggiunta l’età adulta, hanno pochissimi predatori e riescono a garantire quasi sempre il raggiungimento dell’età riproduttiva alla loro prole, che mantengono nascosta in una sorta di “nido” fino allo svezzamento e conseguente raggiungimento dell’indipendenza all’età di 6 mesi. benché la lunga gestazione, la mancanza di una stagione di accoppiamento e la lunga durata della loro vita (fino a 30 anni in cattività) ne riducano notevolmente i presupposti di proliferazione. Questione che, assieme al progressivo ridursi dell’habitat in funzione del disboscamento, l’estrazione mineraria e la sempre maggiore operatività di bracconieri e ribelli armati, ne ha progressivamente fatto un animale a rischio di estinzione, benché la popolazione complessiva sia ad oggi stimata tra i 35.000 e i 50.000 esemplari. La dieta dell’okapi è molto varia, con oltre 100 diverse specie vegetali consumate regolarmente attraverso la lunghissima lingua, alcune delle quali velenose per l’uomo, nel corso degli orari di attività per lo più diurni, benché talvolta l’animale continui a brucare anche nelle prime ore del vespro. Caratteristica dell’okapi in effetti, come anche della sua cognata giraffa, è una vista straordinariamente sviluppata, che gli permette di scorgere il pericolo nelle condizioni di luce più o meno vantaggiose, da cui può fuggire con il suo stile particolare, che prevede il movimento contemporaneo delle due zampe dallo stesso lato del corpo (un altro tratto in comune con la giraffa). Se minacciato e impossibilitato a fuggire, inoltre, l’okapi si dimostra uno strenuo combattente, con calci vibrati mediante l’impiego delle forti zampe rigate o possenti colpi portati a segno con la testa, sulla quale capeggiano, nel caso dei maschi, due rigidi e appuntiti ossiconi, le piccole corna di cartilagine che caratterizzano questa famiglia d’animali.
Soggetto ad ampie riduzioni della popolazione a partire dal 1995, ma classificato come animale protetto dalla legge nazionale del Congo soltanto in epoca più recente, l’okapi è stato trasformato progressivamente nel simbolo elettivo di un intero sforzo collettivo nella conservazione dell’ambiente in Africa centrale, un’impresa estremamente difficile in funzione della situazione politica, economica e sociale di questo paese. Nonostante le molte iniziative condotte dal Progetto per la Conservazione dell’Okapi (OCP) fondato dall’inglese John Lukas nel 1987, implementare iniziative realmente efficienti si è rivelato complesso, lasciando l’unica possibilità di esportare un certo numero di esemplari negli zoo di tutto il mondo, dove l’animale si è dimostrato in grado di riprodursi con estrema facilità. Trovandoci ancora ben lontani dalla situazione critica vissuta in epoca recente dal panda gigante, tuttavia, l’apporto fornito in questo modo all’aumento generale di numero non è statisticamente rilevante, e questa particolare, un tempo diffusa creatura dell’Africa potrebbe ben presto diventare estremamente rara.
Che modo contro-intuitivo di giustificare le antiche storie! Siamo davvero arroganti a un tal punto, che nella ricerca costante di margini d’elaborazione fantasiosi ed immaginifici, sentiamo il bisogno di far scomparire alcune delle creazioni più insolite della natura? Da qualche parte tra gli alberi svettanti del profondo Congo, l’unico “cavallo” con gli zoccoli biforcuti continua a correre, in ricordo di un’epoca in cui l’unica minaccia umana alla sua sopravvivenza, era uno sciamano pigmeo con lancia avvelenata e qualche dardo di cerbottana. Ma alla scavatrice in cerca di materie prime per costruire i cellulari del mondo, ben poco importa. Troppi trionfi attendono le nuove sanguinarie generazioni, sui campi affollati dell’ennesimo Battle Royale…