Tapparsi il naso, spalancare le labbra e i denti e ingoiare, bere birra o liquori, ingoiare ancora. Oh, che sensazione! Quando sei al tavolo di Þorrablót, la festa vichinga di metà inverno, durante cui è l’usanza celebrare il dio Thor mediante poesie e canzoni, e lo chef di giornata ti porta il vassoio con la Þorramatur, una selezione di cibo tradizionale messa assieme per stupire, emozionare, lasciare di stucco i partecipanti al convivio. Con vere immancabili prelibatezze, come i súrsaðir hrútspungar (testicoli di pecora) o il blóðmör (sanguinaccio di agnello) per non parlare dello hvalspik (grasso di balena fresco) o della sviđ (testa di ovino bollita). Ma forse il momento più atteso, con un misto di orrore, entusiasmo e un sentimento che proviene dal profondo, è quando si passa al gruppo di cubetti radunati in un angolo, con stuzzicadenti d’ordinanza al fine di sollevarli, uno per uno, e portarli fino alle labbra contorte molto spesso in una smorfia di abnegazione e forza di volontà. Questo perché nessuno, in possesso delle sue piene facoltà mentali, toccherebbe con le proprie dita la divina pietanza dello hákarl, comunemente detto a vantaggio degli stranieri “squalo marcio” o “squalo putrefatto”. Binomi, questi, che normalmente sottintendono al processo antico della fermentazione, attraverso cui le modifiche indotte da nobili microrganismi di vario tipo impreziosiscono il sapore di varie pietanze, generalmente di origine animale. Soltanto che, nel presente caso, soltanto qualcosa di simile è avvenuto; poiché al pesce cartilagineo in questione, letteralmente, è stato permesso di disgregarsi, andando incontro a una modificazione per lo più chimica relativa alla perdita di un ingrediente, piuttosto che l’acquisizione di qualcosa di nuovo. E quell’ingrediente, volendo usare un’approssimazione ragionevolmente corretta, è l’urina.
Già, perché tutti i condroitti, ivi incluse mante, razze e pesce sega, oltre all’assenza di un vero e proprio scheletro osseo, presentano un’altra fondamentale mancanza: di reni, vescica ed altre amenità similari, il che in altri termini sottintende che per l’intero corso della loro vita, al fine di mantenere l’equilibrio elettrolitico con l’acqua di mare, essi risultano saturi di acido urico e ossido trimetilamminico. Una grande fortuna, a conti fatti, per una specie che in questo modo è sempre sfuggita alle tavole degli umani, in funzione del suo gusto orribile e l’effetto persino velenoso, simile a un’ubriacatura in piccole quantità, persino letale nel caso in cui si tenti di esagerare (ma PERCHÈ mai lo si dovrebbe fare?) Ma forse sarebbe più giusto, nonché realistico, dire che lo squalo resta incommestibile soltanto se non si è sufficientemente determinati. E pazienti. Come gli abitanti più a settentrione e occidente d’Europa, in quell’isola che è un agglomerato di sabbia scura e vulcani attivi, presso cui approdarono, con navi sottili veloci, alcuni tra i più grandi esploratori dell’epoca medievale. C’è una leggenda a tal proposito, cronologicamente localizzata attorno al 1600, relativa ad un gruppo magistrato che aveva l’abitudine sconveniente di recarsi presso le abitazioni dei suoi sottoposti, per pretendere vitto e alloggio senza offrire alcunché in cambio, o alcuna possibilità di rifiutarsi. Così che un giorno andando un contadino/pescatore, che era in possesso dall’estate precedente di una carcassa di squalo per ragioni non esattamente chiare, con l’intenzione di giocare un tiro mancino all’ospite indesiderato la fece a fette e la servì a tavola (un piano che, a quanto pare, non teneva conto dell’orribile odore. Forse considerato normale a quei tempi…) per osservare, con suo sommo stupore, l’uomo che ripuliva il piatto in maniera niente meno che entusiasta. E udire quindi, a qualche settimana di distanza, la notizia secondo cui il magistrato era stato miracolosamente curato dallo scorbuto e la dissenteria. Chiaramente, doveva essersi trattato di un’intercessione degli Dei…
E fu questa, potenzialmente, l’origine. Della prassi consistente nella cattura del più grande e temuto predatore dei mari, per poi scavare una buca in spiaggia e seppellirne la carcassa, affinché la pressione del terreno stesso garantisse la fuoriuscita dei suoi umori maligni attraverso lunghi mesi, per ottenere al termine un cibo se non proprio facile al palato, certamente commestibile, e nell’opinione di alcuni, persino gustoso. A un tale approccio, non propriamente igienico persino a queste latitudini particolarmente fredde e quindi prive di parassiti, ne venne quindi sostituito un altro, forse preso in prestito dalla preparazione del formaggio. Consistente piuttosto nell’appendere strisce di pesce in un apposito essiccatoio, spesso lasciato aperto all’aria salmastra dell’oceano, sotto lo sguardo sapiente della dea Sedna, dalle cui dita recise, secondo l’antica sapienza degli inuit, avrebbero preso forma le foche, i trichechi e tutte le altre creature che nutrono gli umani sulla Terra. Incluso, per l’appunto, lo squalo.
C’è un intera sottocultura, cresciuta nei secoli, che ruota attorno al kæstur hákarl (squalo putrefatto) e alle diverse gradazioni di colore, gli odori e l’aspetto delle varietà più diffuse. Esiste ad esempio il glérhákarl (squalo vetroso) rossastro e dalla consistenza simile a quella di uno strofinaccio rinseccolito, ricavato dalla ventresca, e lo skyrhákarl (squalo formaggio) più morbido e facile da trangugiare. Ogni variazione intermedia presenta i suoi appassionati. Le specie utilizzate per la preparazione di simili delicatessen, invece, sono soltanto due: il Cetorhinus maximus o squalo elefante, secondo pesce più grande del mondo, una creatura nei fatti piuttosto rara e diffusa unicamente nei mari del Circolo Polare Artico; oppure il suo vicino di casa (e genetica) Somniosus microcephalus, anche detto squalo della Groenlandia. La cui longevità è stata stimata, grazie ad alcuni moderni studi, come niente meno che eccezionale: fino a 3 secoli per gli esemplari più fortunati. Abbastanza da connotare, con la propria insaziabile fame, svariate generazioni di feroci pirati dei sette mari. Una creatura relativamente alla quale, tanto per evidenziarne ancora il sapore particolarmente caratteristico, esiste una storia d’origine che risulta essere tutto, fuorché appetitosa: pare infatti che la nascita di una tale progenie, per il tramite di Skalugsuak, dio-squalo e primo capostipite della razza, sia avvenuta all’interno di un secchio d’urina, usato da un’anziana donna per lavarsi i capelli e poi gettato nel bagnasciuga, senza troppe considerazioni per il fato di tutti coloro che sarebbero venuti dopo. In alcune versioni della leggenda, la vecchia in questione è Sedna stessa, abbandonata da suo marito, il supremo signore degli uccelli. Se non che oggi potremmo dire, tutto considerato, che la storia abbia avuto un esito positivo: poiché se è vero che talvolta gli squali mangiano gli umani, assai più di frequente succede l’inverso. Per lo meno, in QUEL particolare paese.
Come per il surströmming (aringa acida norvegese – vedi articolo) o il durian asiatico – vedi articolo) lo hakarl si è diffuso recentemente grazie all’involontaria campagna pubblicitaria condotta dagli spericolati di YouTube, talvolta lupi solitari, altre parte di vere e proprie congreghe di temerari, fortemente inclini ad assaggiare il prodotto in scatola acquistato da qualche sito di E-Commerce, nella speranza di riuscire a coinvolgere il pubblico sempre volubile del web. Con la differenza, stavolta, che non sembra esserci alcun momento di scoperta, nessuno che resti, improvvisamente, colpito da un sapore tutt’altro che sgradevole, come sarebbe ragionevole pensare nel caso di un piatto difficile, ma pur sempre apprezzato nel suo paese di provenienza. Perché no, il sapore dello squalo putrido viene piuttosto descritto, nella migliore delle ipotesi, come “ammoniaca pura” piuttosto che “detergente da pavimenti” quando non semplicemente, purissima e nauseabonda pipì. Neppure l’unico artificio concesso ai consumatori di bere, subito dopo, un bicchierino di schnapps al fine di cancellarne il retrogusto sembra sortire sempre l’effetto desiderato, non risparmiandoci in almeno un paio di casi la vista del protagonista di turno il quale, suo malgrado, finisce per sputare il boccone in un tripudio di orribili conati. Indicativa, a tal fine, potrebbe essere considerata l’opinione degli esperti, tra cui il grande Anthony Bourdain che l’aveva definito, senza mezze misure “il cibo più sgradevole che abbia mai assaggiato” mentre Andrew Zimmern, conduttore di “Orrori da gustare” ha contravvenuto allo slogan stesso del programma, sconsigliandone l’assaggio quasi a chiunque, tranne i veri esperti di sapori letteralmente inusitati. Per non parlare del sempre tracotante chef Gordon Ramsay, che dopo un solo assaggio durante una sfida con James May non ha potuto fare a meno di ricorrere al secchio da rigurgito fornito per precauzione.
Sarebbe ragionevole a questo punto chiedersi perché mai, allora, gli islandesi continuino a mangiare lo squalo putrefatto. Una domanda priva di un effettivo significato, così come quelle rivolte a margine di qualsivoglia usanza vecchia ormai di secoli, intrisa della memoria stessa di un popolo e le sue più antiche tradizioni. Lo hakarl nacque in un’epoca, priva di conservanti e di frigoriferi, in cui l’unico modo per sopravvivere all’inverno era affidarsi al proprio ingegno, il coraggio e la determinazione. Detto questo, in che modo risulta essere sorprendente che i discendenti dei vichinghi di allora desiderino mantenere vivo il particolare sapore, e l’odore, che aveva permesso ai loro avi di guadagnarsi un ruolo di preminenza nel corso delle alterne vicende umane? Dopo tutto, come si dice, quello che non ti uccide… Dovrà conoscere, piuttosto, la pressione spietata della tua mandibola! Mentre la lingua sobbalza, scacciando via gli squaleschi pensieri.
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