È curioso e magnifico a vedersi: quel momento, durante un’occasione familiare o un pranzo di lavoro, in cui uno dei presenti nomina, intenzionalmente o per caso, la presenza amica nel traffico, quella signora contenuta nel cubo, l’essere virtuale che porta il suggestivo nome ripetuto: Tom, Tom. In una frase che suona in genere simile a: “E poi, c’è il TomTom, che…” Ed è lì, come da programma, che la situazione tende a sfuggire di mano: “Ooh, mi ricordo quando dovevo andare da…” Il navigatore è una meraviglia della tecnica che risolve ogni problema… Il navigatore è un diabolico marchingegno, concepito per mandare fuori strada le persone! Tutti sembrano avere un “aneddoto” o un “caso” da aggiungere alla discussione. “Quella volta in cui ho dovuto allungare, soltanto perché gli <algoritmi> di un dannato sistema <intelligente> avevano ricevuto notizie del traffico sulla tangenziale.” Ma sarà stato veramente così? OPPURE, quella volta in cui mi ha fatto imboccare un dedalo di vicoletti a senso unico, svoltando a destra, a destra, a sinistra, a destra, quando sarebbe bastato allungare di 2 Km per metterci la metà. Ah, quello stolto, imbelle “TomTom”. Di certo le specifiche del discorso possono variare, e qualche volta il colpevole viene identificato come Mr. Garmin, o addirittura qualcosa di avveniristico come l’app per cellulari Waze (nel quale, signora mia, le mappe vengono fornite dagli UTENTI, gli UTENTI si rende conto? E chi controlla la qualità!?) mentre l’opinione comune, un po’ come quella sui “disumanizzanti centri commerciali” o “l’inutile televisione” sembrano convergere sempre verso un consenso marcatamente negativo. Eppure, come l’oppio nelle fumerie del XIX secolo in quel di Macao, nessuno sembra poter fare a meno di questa gateway drug, l’allucinogeno che ci fa pensare, per qualche esilarante minuto, di conoscere veramente un itinerario verso destinazioni precedentemente inesplorate. La verità trasversale resta comunque configurata sul fatto che un moderno navigatore GPS, pur restando inferiore ad avere la strada perfettamente impressa nella memoria, consiste di un concentrato di tecnologia tutt’altro che indifferente. E la gente non comprende, davvero, la fortuna che abbiamo oggi, rispetto ai nostri predecessori generazionali.
L’uomo ha iniziato a perdersi, per strada o per mare, fin da quando esistono la ruota e il timone. Ma potremmo dire, in un certo senso, che una vera e propria soluzione abbia iniziato ad essere ricercata solamente a partire dal 1971, quando un’ignota azienda inglese, secondo questo video coévo del programma Tomorrow’s World presentato da Michael Rodd, produsse qualcosa di precedentemente considerato assolutamente inimmaginabile. Un sistema capace d’indicarti la strada. Già, ma come? Stiamo parlando di un’epoca in cui il posizionamento satellitare era ancora una tecnologia militare segreta di nome TRANSIT, usata per localizzare i sottomarini sovietici. Il che voleva dire che nessuna automobile, per quanto intelligente, avrebbe potuto comprendere di sua iniziativa dove si trovasse effettivamente in un dato momento X. Ma l’ingegnoso inventore di questo meccanismo, dal canto suo, seppe dimostrare un’interpretazione specifica del problema: “La necessità di sapere dove siamo serve soltanto se sbagliamo strada. Altrimenti, tutto quello che occorre per raggiungere l’obiettivo è un copione.” Il che significa in altri termini che l’apparato mostrato orgogliosamente nel video, in senso lato, non è altro che un mangianastri con diverse cassette corrispondenti ad altrettanti tragitti da A e B, oppure C e D. “Svolta a destra tra 100 metri, a sinistra alla rotatoria” e così via. Soltanto che, per ovvie ragioni, la registrazione non poteva essere riprodotta in maniera continua, e neppure si poteva chiedere al guidatore, mentre guidava l’automobile e cambiava le marce, di agire continuamente sui tasti stop, play e rewind della sua autoradio. Ed è qui che risiedeva, in buona sostanza, l’idea innovativa: poiché ciascuna di queste cassette presentava all’inizio di ciascuna indicazione un beep di lunghezza crescente, che poteva essere identificato automaticamente. Mentre il mangianastri in questione risultava collegato, tramite un sistema elettrico, al contachilometri dell’automobile, mentre una serie di schede perforate rimovibili permettevano di selezionare il diametro degli pneumatici sottostanti. Il che voleva dire che il sistema poteva conoscere l’estensione del tragitto già percorso dall’automobile, ed adattare le sue indicazioni di conseguenza. Naturalmente, un simile approccio diventava completamente inutile nel caso di variazioni benché minime dal sentiero preposto, come esemplificato dal presentatore che a causa di un cantiere finisce per seguire indicazioni errate fino in fondo a un molo e giù, oltre gli argini del Tamigi. E scherzi a parte, tutti sembravano comprendere che al mondo servisse qualcosa di più…
Sarebbe lecito pensare, a questo punto, che lo scalino successivo in quest’ardua risalita verso la navigazione guidata sarebbe stato il primo navigatore satellitare civile, quel Magellan NAV 1000 uscito nel 1989, capace d’indicare per sommi capi la posizione dell’utente grazie al segnale finalmente de-secretato in parte dagli americani (ma ancora a quell’epoca reso artificialmente impreciso di 100 metri per evitare che potesse condurre a destinazione eventuali missili intercontinentali). Mentre la verità non potrebbe essere più lontana di così: nel decennio intercorso e sopracitato, in effetti, nacquero molte delle convenzioni destinate a rimanere impresse a lettere di fuoco nel mondo della navigazione guidata automobilistica. Vi siete mai chiesti, ad esempio, perché sul TomTom o le sue molte alternative l’automobile compaia sempre al centro dello schermo, con le strade ed il resto dello scenario che gli scorre attorno? Proprio come se si trattasse di uno di quei vecchi giocattoli a nastro, con l’automobilina posizionata al centro di un nastro motorizzato a batteria… E la realtà è che in origine, era in effetti proprio così che andavano le cose.
Questa è un’affermazione atipica che necessita, immediatamente, d’essere approfondita. Addentrandoci in un mistero che trova l’origine, come tanti altri, nella terra più orientale di questo mondo: ovvero l’arcipelago giapponese ed in particolare, la sede di una delle aziende di trasporti e dell’elettronica più prestigiose e famose al mondo: la Honda. Narra la leggenda che nel 1976 il direttore della possente zaibatsu Tadashi Kume, preoccupato per i significativi sviluppi statunitensi nel campo dell’elettronica di bordo, avesse chiamato nel suo ufficio Katsutoshi Tagami, impiegato operativo nel campo dei frigoriferi portatili, per chiedergli d’inventare “Qualcosa, qualsiasi cosa” che potesse ristabilire il primato della loro grande famiglia d’orgogliosi samurai aziendali. E pare che questi, neanche a dirlo, finì per trarre ispirazione proprio dal campo militare, a seguito dell’esperienza per lui rivelatrice di assistere a una dimostrazione del Jieitai (l’esercit… Ehm, pardon, “Forza di Autodifesa” giapponese) durante cui alcuni carri armati scorrazzavano amabilmente per il campo d’addestramento, mentre i rispettivi cannoni restavano nettamente puntati verso gli appositi bersagli. Il tutto grazie ad un particolare strumento che in Occidente conosciamo col nome di giroscopio a gas, che in effetti risultava abbastanza piccolo, e leggero, da trovare posto in un’automobile convenzionale. Già, ma perché mettercelo? L’ultima volta che ho controllato, le utilitarie non presentano alcun cannone. Ecco quindi che la rinomata creatività giapponese trovò espressione, ancora una volta, nell’iniziativa promossa da Katsutoshi. Il quale aveva pensato a ragione, che un apparecchio capace di misurare lo spostamento nello spazio orizzontale e verticale allo scopo di compensarlo, poteva anche trasferire i suddetti movimenti a un calcolatore, che tramite un sistema di servomeccanismi avrebbe potuto far scorrere una cartina stradale. L’idea, dopo alcuni test, si dimostrò funzionante, tranne che per un problema irrisolvibile di fondo: ogni cartina prodotta fino a quel momento, che fosse di tipo turistico o professionale, presentava infatti delle marcate imprecisioni nella disposizione delle strade, tollerate allo scopo di una consultazione più chiara, così che talvolta, il puntatore indicante l’automobile in marcia sarebbe apparso in mezzo ad un capo fiorito, un lago o una cascata. Ma poiché con le cartine create ad-hoc il risultato era ottimo, il dispositivo di navigazione il cui nome di marketing era electro Gyro-Cator iniziò a trovare posto nei modelli di punta dell’azienda a partire dal 1981, con un costo approssimativo di 2.500 dollari. Ovvero, in determinati casi, fino a un quarto del valore complessivo dell’autoveicolo. Una cosa, tuttavia, era certa: al mondo non esisteva alcunché di simile. Una realtà destinata a mutare radicalmente nel giro di appena 4 anni.
Stati Unti e Giappone, Giappone e Stati Uniti. Due paesi che si guardano di continuo, e talvolta sorpassano a vicenda, nel tentativo di costituire il simbolo di tutto ciò che è futuribile e guarda nettamente verso il domani. Così avvenne che nel 1985 a Nolan Bushnell, ex direttore dell’Atari con il pallino ante-litteram per le aziende startup, venne improvvisamente un’idea. Le circostanze di tale evento non potrebbero essere più diverse da quelle del suo corrispondente giapponese, visto che lui si trovava ben lontano da qualsiasi contesto aziendale, ma piuttosto sul ponte di uno yacht, durante una regata, in un punto imprecisato delle 2.225 miglia nautiche che separano Los Angeles da Honolulu. Sarà meglio a questo punto specificare che con “a Bushnell venne un’idea” intendo in effetti che questa avrebbe preso forma dal dialogo contestualizzato con il suo compagno di avventure marinaresche e futuro socio Stan Honey, colui che a quanto ne sappiamo, era destinato a rendere realizzabile il sogno della Etak, prima compagnia al mondo che ebbe un moderato successo sulla base della sola navigazione stradale. Per un tramite che s’intuisce dal nome, visto che il termine voleva riferirsi, in effetti, al concetto polinesiano delle isole che scorrono in lontananza, mentre la propria canoa sembra restare immobile in mezzo alle onde dell’oceano infinito. L’approccio del terribile duo era innovativo ed al tempo stesso, rivoluzionario: piuttosto che usare il navigatore per far scorrere una mappa pre-esistente, il loro dispositivo ne avrebbe usato una versione completamente digitalizzata, elaborata grazie a un piccolo calcolatore di bordo e proiettata su un monitor vettoriale da cruscotto dello stesso tipo usato per giochi come Asteroids, Gravitar o Aztarak. Ma il principale punto di rottura rispetto al sistema della Honda era che nell’Etak non sarebbe stato presente alcun sofisticato sistema giroscopico, bensì solamente una bussola e un contatore di chilometri percorsi, come in quello del bizzarro prototipo britannico di quasi 15 anni prima. L’effettiva posizione dell’automobile sarebbe quindi stata determinata grazie a un vero e proprio sistema d’intelligenza artificiale, un algoritmo capace di combinare i pochi dati a disposizione per comprendere quali fossero le svolte compiute di volta in volta da colui che si trovava al volante. Nient’altro che un’applicazione, totalmente nuova, del concetto marinaresco della navigazione stimata. La quale, con la sorpresa di molti, funzionava straordinariamente bene. Di certo il sistema non era perfetto, e si richiedeva all’utente di rettificare di tanto in tanto la posizione del proprio veicolo, operazione possibile solo a motore spento (un’anacronistico ed encomiabile accorgimento nei confronti della sicurezza stradale) inoltre le cassette a nastro usate per immagazzinare le mappe avevano una capienza di “soli” 3,5 megabyte (in realtà ottima per l’epoca) richiedendo cambi frequenti ogni qual volta si raggiungevano i margini dell’area memorizzata. Per costruirle, tuttavia, erano stati utilizzati materiali particolari capaci di resistere al calore, garantendo una protezione del proprio investimento anche sotto il bollente sole della California.
Il navigatore della Etak veniva venduto come dispositivo after-market, installato in distributori autorizzati nell’intera area della Baia di San Francisco. A partire dal 1987, l’azienda espanse le sue mire internazionali iniziando a produrre anche mappe delle principali città giapponesi. Oltre un ventennio prima delle riconoscibili auto di Google Maps, quindi, impiegati dell’azienda iniziarono a percorrere alcuni degli agglomerati più popolosi al mondo, annotando, registrando e misurando numericamente le svolte e i rettilinei della rete stradale urbana. Nel 1989, quindi Bushnell vendette l’azienda a niente meno che Rupert Murdoch, che mise al lavoro i suoi programmatori per creare un qualcosa che viene utilizzato ancora oggi: l’algoritmo per evidenziare il puck dell’hockey durante le trasmissioni televisive, rendendo più facile e intuitivo seguire l’andamento della partita. Nel 2000 l’azienda passò ancora una volta di mano, diventando la Tele Atlas, una sussidiaria di Sony incaricata di creare mappe per i suoi GPS.
A quel punto, assai prevedibilmente, i concorrenti nel campo della navigazione erano diventati molti. E con il progressivo “sblocco” nei confronti dei civili nell’utilizzo delle coordinate fornite dai satelliti in orbita geostazionaria, le operazioni di spostamento manuale dell’automobilina sullo schermo erano ormai soltanto un remoto ricordo. Eppure molte delle idee prese in considerazione, e le soluzioni tecniche concepite da questi pionieri della strada, i primi in grado di sognare un’automobile che letteralmente riusciva a “non perdersi mai” vengono utilizzate ancora. Benché proprio chi tende a trarne il maggior beneficio per criticare i fallimenti, ancor prima che i traguardi raggiunti nei lunghi anni di perfezionamento. Ma così è la vita, di questi tempi ultra-digitali. E lamentarsi, se vogliamo, è un punto cardine di chiunque faccia uso abituale di qualsivoglia tecnologia.