1843: difficile dimenticare quella volta in cui la macchina del tempo, scoppiettando e cigolando ancora più di quanto faccia normalmente, ha esaurito all’improvviso il carburante, andando ad impattare clamorosamente in mezzo ai colli ungheresi del Burgenland, un giorno destinati a fare parte del territorio dell’Austria ma a quel tempo facenti parte del territorio di Giuseppe Augusto d’Asburgo-Lorena. Lontano, per fortuna, da Dio e dal mondo, eppur non abbastanza perché un pastore di passaggio, sulla strada sottostante, rivolgesse per un attimo lo sguardo verso l’alto, incuriosito dal rumore totalmente inaspettato. Il che ci costrinse, come da prassi comportamentale del dipartimento, a scendere rapidamente a valle, cannone spara-memoria in spalla, nella speranza di riuscire a ritrovarlo in tempo prima che il suo racconto di seconda mano, spontaneamente trasferito agli abitanti del villaggio, andasse a sovrascrivere gli eventi generazionali. E la maniera in cui, una volta che arrivammo a un centinaio di metri di distanza, ohibò, il gregge iniziò a prendere una forma più evidente. Circa 3 dozzine di bestioni tondeggianti, il corpo tozzo e le zampe ungulate, la testa a punta e un gran paio d’orecchie a ricoprirne il profilo. Tanto che ricordo molto bene di averti detto: “Ma che strani… Ovini.” Fin quando una simile comitiva, disturbata dall’arrivo di noialtri, non emise in tono di baritono perfettamente coordinato, quello che poteva essere descritto unicamente come un tonante, interminabile grugnito. Fu allora che il pastore si volto di scatto, sollevando il suo bastone che era in realtà un archibugio per proteggersi dai lupi. E le cose iniziarono, d’un tratto, a farsi orribilmente complicate…
Fedele, scaltro, attento, intelligente addirittura più di un cane. In grado di scovare anacronistici visitatori. Il Mangalitsa, o Mangalica, o Mangalitza, è la razza di suino concepita per la prima volta in via specifica allo scopo di nutrire la famiglia reale del Palatinato d’Ungheria, poi diffusosi a tutte le classi sociali, per le sue caratteristiche considerate di gran pregio, e infine (temporaneamente?) allontanato, dal corso dell’allevamento e degli eventi, relegato ad una semplice curiosità o talvolta, un gradevole ma impegnativo animale di compagnia. Il che, come è noto, per le razze suine equivale ad un decreto d’estinzione, poiché molto poche sono le persone disposte ad accudire, nutrendola, una bestia che a 13-14 mesi raggiunge il peso di 180 Kg. Problema di questo maiale, caratterizzato da un pelo ispido e riccio che ricorda vagamente quello della pecora, è il suo appartenere alla categoria oggi dimenticata degli animali cosiddetti “da lardo”. Quella sostanza che, prima della raffinazione degli oli vegetali, trovava una collocazione fondamentale quasi ovunque dentro le case: candele, sapone, cosmetici, o persino nei lubrificanti industriali e negli esplosivi… Per non parlare dell’uso, pressoché irrinunciabile, nell’attività essenziale della buona cucina. Prima che la cognizione moderna, assieme alla tendenza naturale degli esseri umani ad esagerare, non relegò il grasso animale ad una sorta di purgatorio gastronomico, consigliato solamente ai più spericolati e obesi degli individui, tra quelli non-vegetariani e non-vegani. Finché il moderno Rinascimento della cultura del cibo, unito a una rivalutazione scientifica dei dati acquisiti, non hanno permesso di comprendere che la parte più saporita del porco costituiva allo stesso tempo la più naturale delle sostanze contenute in esso, non necessariamente nociva per la salute delle nostre arterie, soprattutto se inserita in una dieta che avesse per lo meno un briciolo di senso. Finché adesso, fortunatamente, in tutto l’Est Europa e per importazione pregressa nei soliti Stati Uniti (patria di tutto ciò che è carne) una nuova ondata di allevamenti ha portato alla rinascita e la diffusione di questa razza, relegata fin quasi all’estinzione a seguito della seconda guerra mondiale. Ma siamo decisamente ben lontani dalla diffusione estrema della metà del XIX secolo, quando uno straniero giunto entro una certa quantità di chilometri da Vienna avrebbe anche potuto convincersi che i maiali a pelo corto fossero letteralmente sconosciuti, da quelle parti, o che le pecore avessero un aspetto (e un verso) dannatamente strani. La principale fortuna del Mangalitsa, invece, a quanto pare ha un’identità straordinariamente precisa ed un nome e cognome, Peter Toth…
E sai cosa ti dico? Vorrei conoscerlo. Vorrei impostare, come nostra prossima avventura, quella globulare macchina dal guscio sfolgorante, per muoverci a ritroso fino al 1991, quando il famoso genetista ungherese, assieme al suo socio spagnolo Juan Vicente Olmos Llorente, stilarono un’anagrafe dei pochi maiali rimasti di questa genìa, arrivando ad una cifra complessiva di appena 198 di razza pura, per poi iniziare sistematicamente ad acquistarli, direttamente dai convogli diretti ai mattatoi viennesi, con un piano e un’obiettivo estremamente precisi. Non tanto, e non soltanto, preservare le specifiche caratteristiche del maiale peloso, quanto iniziarne un allevamento intensivo nella penisola iberica, finalizzato a metterne di nuovo in vendita i prosciutti ad un prezzo particolarmente elevato: l’equivalente di 70 dollari a libbra, poco meno della pregiatissima razza dei maiali Pata Negra. Con un ragionamento che non era soltanto puro marketing e avidità, ma una precisa correlazione tra le esigenze e le caratteristiche del Mangalitsa, totalmente diverse da quelle di qualsiasi altro maiale. Rispetto ai quali, si narra, il primo gruppo di suini allevato nel 1833 presso la fattoria di Topčider dell’arciduca ricevette in dono qualcosa che prima di allora, nessuno aveva pensato di dare ai maiali: un certo apporto genetico dalla specie, ormai totalmente distinta e selvatica, dei cinghiali. Ragione per cui questi animali, lungi dal richiedere un riparo dalle intemperie in inverno, preferiscono restare liberi di pascolare tutto l’anno, trovando senza problemi sostentamento dall’erba, i vermi del sostrato e le ghiande cadute dalle chiome degli alberi. Benché un apporto di mangime artificiale sia certamente gradito, ma MAI del tipo dato ai suini comuni, composto in massima parte da mais e soia. Poiché questi contaminerebbero la parte più pregiata di questa carne sopraffina, venata di grasso in maniera analoga al rinomato manzo della città giapponese di Kobe. No signore! soltanto grano e orzo nella dieta di questi gran duchi fra tutti i maiali.
E i problemi non finiscono certamente qui: affinché il piccolo di Mangalitsa possa infatti raggiungere il peso vendibile, collocato idealmente tra i 200 e 300 Kg, sono infatti richiesti fino a 15 mesi, contro gli appena 5 di un maiale convenzionale. Ma in un mondo come quello contemporaneo, in cui la carne di maiale viene ormai definita “l’altra carne bianca” per il contenuto di grassi mantenuto intenzionalmente il più basso possibile, assaggiare per una volta l’essenza di quello che idealmente dovrebbe essere un suino pare costituisca un’esperienza indimenticabile, in grado di convertire persino il più appassionato tra i salutisti. Ciò detto, resta ad ogni modo ragionevole consumare di preferenza determinate parti non troppo estreme di questi angelici esseri, pena l’intasamento progressivo di tutte le arterie presenti nel corpo umano; il che riduce, in maniera sensibile, i tagli vendibili a un prezzo tale da giustificare l’impegno necessario per l’allevamento. Per quanto concerne il loro pelo simil-pecora gli impieghi commerciali sono decisamente ridotti: particolarmente rigido e appuntito, esso non trova impiego tessile industriale, benché alcune ricerche storiografiche abbiano dimostrato che dal maiale più simile ed oggi estinto, il Curly del Lincolnshire, i pastori fossero soliti trarre un caratteristico soprabito impermeabile dalla pioggia. Che oggi risulta virtualmente sconosciuto, come del resto la possibilità sempre presente di trarre spazzole o spazzolini dai sovrairsuti suini. Strano. Chi non vorrebbe lavarsi i denti col pelo di maiale?
Un aspetto particolarmente vantaggioso di queste creature è invece la loro innata indipendenza: come diretti discendenti del cinghiale, essi resistono alle malattie, sanno difendersi dai predatori e partoriscono senza necessitare di alcun tipo di assistenza. Il che tende a donargli, per quell’anno abbondante di vita, una progressione del quotidiano decisamente più gradevole e libera di quella dei comuni maiali di allevamento, spesso all’interno di un recinto soltanto in parte controllato. Fino al giungere del loro crudele, ma inevitabile destino.
Ormai lungi dal rischiare l’estinzione, questa razza antica resta tutt’ora piuttosto rara. Vorreste quindi, nell’oggi o nel domani, fare qualcosa per consegnarla intatta ai posteri in attesa? Niente di più semplice: dovete mangiarla. Questa è l’imprescindibile contraddizione, ormai uno stato di fatto innegabile dello spazio occupato per le nostre esigenze nel territorio dell’intero pianeta. Stiamo del resto parlando di un animale che senza l’uomo non esisterebbe, e senza la passione di quest’ultimo per le sue carni, ha già rischiato di scomparire nel giro di appena una manciata di generazioni. Mangiate Mangalitsa, il Mangalitsa vi ringrazierà. E forse un giorno, volendo accarezzare questa creatura che tanto ha fatto per noi, senza chiedere nulla in cambio (perché, ahimé o per fortuna, non possedeva il dono della parola) potremo fare a meno di quella sferragliante ed inaffidabile macchina del tempo.
Già, te la ricordi? La prima volta in cui ci spararono addosso con l’archibugio. Mentre un’ondata di pecore-maiali, infastidite dal cacofonico frastuono, si misero di traverso lungo la linea di fuoco del cannone-memoria. Iniziando, improvvisamente, a belare.