L’antica legge del globo di pietra che segna il tempo

Nell’estate del 1985, il giovane “rompiscatole” (è lui stesso a definirsi in questo modo) Danilo Baldini si affaccia, ancora una volta, oltre il cancello d’ingresso del cantiere che stava realizzando i lavori di restauro del Palazzo Pretorio di Matelica, in provincia di Macerata. La ragione è presto detta: scoprire in vece del suo club di attivisti locali se, come personalmente sospettava da tempo, sotto l’edificio erano effettivamente presenti le rovine di un’antica villa romana, tenuta segreta dagli operai allo scopo di velocizzare i lavori e trafugare gli eventuali reperti. Con un’attenzione sincera a nascondere le proprie tracce motivata dalla semplice necessità, ogni volta pregressa, tranne che in questo specifico caso: oltre la recinzione gli capita infatti di scorgere, in penombra, quella che sembrerebbe essere a tutti gli effetti una palla di cannone. Come ipnotizzato dal suo colore marmoreo candido, in grado di riflettere in maniera quasi scintillante la luce del sole, Baldini viola il divieto d’ingresso per avvicinarsi, e inizia a scorgere l’inaspettata verità: sull’oggetto ci sono linee circolari e fori numerati assieme a quelle che sembrerebbero essere a tutti gli effetti delle scritte in greco. Colpito dalla potenziale importanza ed evidente antichità del reperto, e noncurante verso l’ostilità dei lavoranti, denuncia quindi alle autorità la sua scoperta, causando l’immediato sequestro da parte del sindaco per procedere all’esposizione presso il Museo Civico Archeologico, istituzione locale di una certa fama. Ma il responsabile del museo, disinteressato o incapace di comprendere quello che si è ritrovato a dover custodire, dopo una sommaria datazione che farebbe risalire l’oggetto a circa due millenni fa, si limita a metterlo in un polveroso e isolato magazzino, senza investire nello studio di quella che in realtà avrebbe potuto costituire, a tutti gli effetti, una scoperta straordinaria.
Il globo di Matelica avrebbe potuto quindi, a quel punto, scomparire tra le pieghe del tempo. Se non che il giovane Baldini, continuando a seguire quell’intuizione che l’aveva portato, nel fatidico giorno, a compiere i passi necessari per salvaguardare la storia antica della civiltà nostrana, inizia a coltivare una sorta di serena ossessione in merito, applicando tutta la sua conoscenza alla decodifica del misterioso strumento. Geometra non laureato, con competenze archeologiche puramente amatoriali fino a quel momento e nessuna comprensione del greco antico, il ragazzo inizia a frequentare assiduamente il museo, vocabolario e strumenti di misurazione alla mano. In breve tempo, individua la chiave di volta dell’intera questione: il maggiore dei tre cerchi concentrici che campeggiano in bella vista sull’emisfero superiore, attraversati dall’arco di una linea curva secante e recanti le parole identificative di “Vergine” e “Gemelli” presentava una misura di circa 48 gradi, equivalente quindi alla distanza tra i tropici del pianeta Terra. Inoltre l’arco suddetto aveva un’angolazione di 120°, guarda caso perfettamente adatto ad essere diviso per per 8, l’esatta quantità di ore presenti nella notte del Solstizio invernale e nel giorno di quello estivo. In quel momento dunque, egli intuì di trovarsi di fronte a una sorta di calendario a cadenza annuale, capace d’indicare in qualche maniera le due ricorrenze più importanti del mondo antico, importanti per regolare le attività agricole e determinare la cadenza delle festività religiose. Ma se il globo doveva nei fatti rappresentare il nostro stesso pianeta (che ancora una volta, nella concezione greco-romana, si dimostrava essere tutt’altro che piatto) allora si chiese, che cosa sarebbe successo esattamente nel momento in cui, analogamente ad esso, veniva colpito dal sole proveniente da un singolo lato? Con un’eccitazione palpabile, Baldini si recò quindi dal responsabile del museo, ottenendo da lui il permesso di spostare temporaneamente il globo in cortile. Con gestualità trepidante, e la schiena piegata dalla fatica, l’eroico “rompiscatole” fece quindi un paio di passi indietro, appoggiando i piedi proprio nel mezzo dell’aiuola comunale. Dinnanzi ai suoi occhi spalancati, qualcosa in grado di superare la sua stessa immaginazione: la linea terminale di luce/ombra sulla sfera che cadeva esattamente tra due dei fori soprastanti i cerchi dei solstizi, ciascuno identificato da una lettera (numerale greco) corrispondente a un’ora della giornata. Ciò a cui aveva rivolto tanta attenzione, e lavoro, era in effetti nient’altro che un’antico gnomone a globo, ovvero il tipo più raro, ed altrettanto efficiente, di meridiana. Pensate che al mondo esisteva soltanto un singolo oggetto in qualche vaga maniera simile a questo, proveniente dalla Grecia…

In tempi più recenti, l’artista ed astronomo Andrea Carusi ha realizzato dei modelli funzionanti del globo di Matelica e quello di Prosymna, da esporre presso il “cortile delle meridiane” del Museo della Civiltà Contadina del Friuli Imperiale. Le relative spiegazioni offrono una finestra chiara sul loro complesso funzionamento.

Baldini avrebbe scoperto soltanto in seguito dell’esistenza del globo di Prosymna, ritrovato nel 1935 presso l’omonima cittadina del Peloponneso, dall’archeologo statunitense Carl Blegen. La ragione è che i due, l’uno professore conclamato, l’altro mero outsider dell’universo accademico, avevano percorso sentieri totalmente diversi, per giungere autonomamente alle loro formidabili conclusioni. Inoltre, per quanto concerneva il secondo oggetto, grande all’incirca il doppio del globo di Matelica, c’era una specifica problematica che aveva compromesso da sempre la sua piena comprensione: esso era stato, in un qualche momento della sua storia, spostato altrove. Ciò cambia tutto: per qualsiasi meridiana che intenda fornire misurazioni di tipo astronomico, infatti, la latitudine di utilizzo è importante e una sua anche minima variazione può, immediatamente, inficiare del tutto un utilizzo appropriato dello strumento. Il globo di Prosymna era inoltre inerentemente più complicato di quello ritrovato in Italia, con tre schemi segmentati a spina di pesce, di cui due dovevano essere usati rispettivamente, prima e dopo l’equinozio di primavera, mentre l’altro risultava rivolto in senso opposto risultava quindi misteriosamente inutilizzabile, a meno di voltare la sfera. Il principale punto di contatto tra i i due apparati restavano, ad ogni modo, i dodici fori numerati nell’emisfero superiore. Essi dovevano infatti corrispondere alla funzione primaria di qualsiasi meridiana, quella d’indicare la progressione giornaliera nel succedersi delle cosiddette “ore antiche” ovvero i dodicesimi del tempo di luce della giornata, più lunghi in estate e più brevi in inverno. Evidentemente troppo piccole per trovare posto nella pubblica piazza, come avveniva per le installazioni gnomoniche di tipo convenzionale, queste sfere facevano forse parte della dotazione di un luogo di culto o tempio dedicato agli antichi dei, che ne faceva uso nel corso delle proprie divinazioni. Proprio per questo alcuni archeologi hanno ipotizzato, in entrambi i casi, che le ore fossero indicate da altrettanti buchi allo scopo di posizionare in essi alcune statuine di divinità, oggi purtroppo andate perdute. Le quali, secondo alcuni, proiettavano addirittura ulteriori ombre su speciali quadranti disposti ad arte sotto lo gnomone.
Ma la differenza in assoluto più importante tra i due globi resta identificabile in una singola notevole questione: quello di Prosymna, a differenza della sua più semplice controparte italiana, riesce ancora ad indicare, tramite la tangenza della linea del terminatore (linea luce/ombra) la data esatta dei solstizi. Ciò va probabilmente attribuito non solo alla maggiore complessità dello strumento, ma anche all’integrazione della scoperta di Ipparco di Nicea, allora relativamente recente (130 a.C.) della precessione degli equinozi, ovvero il naturale spostarsi dell’asse della rotazione terrestre, a causa dell’interferenza da parte delle forze gravitazionali dei corpi celesti più prossimi a noi. Un’idea razionalizzata all’epoca in maniera piuttosto rudimentale, ma cionondimeno evidente a chiunque pensasse di misurare la longitudine dell’ellittica di una stella durante un’eclissi lunare (vedi il relativo articolo di Wikipedia). Il fatto che il globo di Matelica sembri invece incapace di tenerne conto, avendo nel frattempo “maturato” un’imprecisione di svariati centimetri, fa pensare ad una datazione ancora antecedente a quella stimata, piuttosto che un’ineguale distribuzione tecnica delle conoscenze nei confronto di coloro che poi, avrebbero realizzato i rispettivi gnomoni. Ma tutto ciò non può che rientrare necessariamente nel reame delle mere ipotesi o remote possibilità…

Il funzionamento del globo di Matelica non vi è ancora chiaro? Provate con la versione recante il nome dei mesi in italiano, realizzata da Carusi come stadio intermedio della sua opera di ricostruzione sperimentale.

Alcune delle maggior scoperte sono il frutto di un’intera carriera di studio e l’opera continuativa delle menti più insigni e premiate dal riconoscimento dei loro pari. Altre provengono dal caso, ovvero la prototipica situazione della “persona giusta al momento giusto”. In tal caso, in determinati ambienti, è più difficile riuscire a far emergere i meriti del proprio genio. Così Baldini, nonostante la sua chiara spiegazione e dimostrazione pratica del funzionamento del globo, per lungo tempo continuò a non essere creduto, senza ottenere spazio in alcuna conferenza per così dire ufficiale. Finché il 15 maggio del 1988, grazie a un articolo scritto su una rivista scientifica divulgativa, non venne convocato assieme al globo come massimo esperto in materia durante una puntata di “Alla ricerca dell’Arca” di Mino D’Amato, celebre serie di documentari trasmessi sulla rete nazionale Rai 3. E quello fu formalmente il momento in cui, dopo tanto duro lavoro, l’esistenza del globo irruppe nelle cognizioni del grande pubblico, facendo quindi il percorso inverso fino alle auguste sale dei templi contemporanei dello studio, profondamente dediti al proverbiale e imprescindibile “pezzo di carta”.
Capite ciò di cui stiamo parlando? Qualunque titolo di studio, indipendentemente dal suo prestigio, non è che una linea guida molto approssimativa per comprendere i meriti di un’idea, attraverso considerazioni su colui che si è dimostrato in grado di elaborarla. Gli antichi, grazie alla definizione vaga e informale di “filosofo naturale” al posto di astronomo, biologo, geologo etc, etc… erano decisamente più flessibili di noi, almeno in questa specifica, importante questione. Del resto: il genio che guida il segno del progresso umano, inteso come fonte di ogni possibile ispirazione, è una cosa. Tutt’altra dovrebbe essere, invece, la mera burocrazia.

Via: duepassinelmistero.it

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