Avete mai pensato di coprire lo spazio tra Los Angeles e New York in soli tre minuti e mezzo? Più veloci di un proiettile scagliato da un cannone, di una meteora, persino di Thanos armato con il Guanto dell’Infinito (purché non usi il teletrasporto). Persino al giorno d’oggi, può lasciare basiti il pensiero che qualcosa di costruito dall’uomo sia riuscito in una simile impresa. Sto parlando, a scanso di equivoci, della sonda spaziale New Horizons, successivamente al suo volo di rendezvous con il pianeta Giove, attorno al quale ha orbitato brevemente per poterne sfruttare l’effetto gravitazionale come una fionda, e accelerare verso la sua destinazione finale. 58.536 Km/h: niente male, vero? E se vi dicessi che già nel remoto 1957, secondo la teoria di uno scienziato statunitense, questo supposto “record” era già stato battuto con una rapidità di spostamento di quasi cinque volte superiore? Già: 240.000 Km/h. Sei volte la velocità di fuga della Terra, nonché abbastanza per lasciare in meno di un anno, almeno ipoteticamente, i confini più remoti del Sistema Solare. Il fatto poi che una simile cifra sia stata raggiunta, invece che attraverso mesi di attente manovre, in un singolo istante, abbastanza breve da sfuggire alla cattura da parte di una telecamera in grado di scattare un frame al millisecondo, e per di più in condizioni di attrito indotto dall’atmosfera terrestre, lascia quanto meno un indizio su ciò di cui stiamo, realmente, parlando.
“Adesso sono diventato Morte, il distruttore dei mondi. Suppongo lo pensammo tutti, in un modo o nell’altro.” È la famosa frase pronunciata da Robert Oppenheimer, fisico statunitense, ricordando nel 1965 il completamento del progetto Manhattan quasi 20 anni prima di quella data. Con un riferimento colto al poema indiano Mahābhārata, nella frase pronunciata dal dio supremo Vishnu. Ma anche un potente sottinteso, che in molti all’epoca non furono capaci di cogliere immediatamente: poiché la trimurti, composta dagli Esseri Superiori che fermano e fanno ripartire la Ruota del Tempo, e al tempo stesso distruzione e creazione, annichilimento ed estasi per l’intera umanità. Aveva ormai raggiunto il culmine, proprio in quegli anni, la cosiddetta epoca nucleare. Scienza e tecnologia, spinte innanzi da una guerra che aveva avuto lo stesso ruolo della gravità di Giove, sembravano lanciate a ritmo sostenuto verso un’inusitato e inimmaginabile futuro. Grazie soprattutto al potere dell’atomo, questa energia che tutti, in precedenza, avevano concepito unicamente come un’arma di distruzione. Ma torniamo ora indietro fino al 1957. Gli Stati Uniti, preoccupati per i primi successi conseguiti in campo nucleare dal nemico russo, incrementano in maniera esponenziale i loro test: testate per missili tattici, proiettili d’artiglieria, armi personali, bombe di profondità… Sembrava quasi che nessun’arma, per quanto insignificante, potesse fare a meno di contenere almeno un grammo di quella sostanza magica, l’eccezionale plutonio. Ma non tutti i test potevano essere effettuati in isole remote dell’Oceano Pacifico: che dire, ad esempio, dell’effetto psicologico e delle radiazioni su un esercito pronto al combattimento? E a che distanza sarebbero risultati letali i detriti scagliati dall’esplosione di un ordigno atomico? Per trovare risposta a queste, ed altrettanto pregne domande, il dipartimento responsabile decretò che dovesse tenersi la più lunga serie di esperimenti all’interno dei confini del paese, il più possibile lontano da qualsivoglia forma di civiltà, purché fosse mantenuta la praticità logistica di un sistema stradale già funzionante. Fu quindi allestito il sito di test del deserto del Nevada, circa 105 Km a nordovest della città di Las Vegas.
C’è una famosa sequenza video, connessa direttamente a quella che avrebbe ricevuto il nome di Operazione Plumbbob, spesso mostrata nelle antologie del settore e le analisi storiografiche dell’intera faccenda. Cinque uomini, più un altro fuori dall’inquadratura intento a reggere la telecamera, formano un capannello in mezzo a uno spazio scarno, guardando in alto e schermandosi dal Sole con le proprie mani. Vicino a loro campeggia un cartello recante la scritta: “Ground Zero. Popolazione: 5” D’un tratto, l’inquadratura cambia per mostrare due Jet Scorpion F-89, aerei da guerra che svaniscono in un lampo. Il cielo vuoto, quindi, si colora di un lampo di luce, che in breve si trasforma in una palla di fuoco. Si tratta dell’esplosione di una bomba nucleare, fatta esplodere a un’altitudine di circa 5 chilometri e mezzo. La ragione di un simile stunt pubblicitario, successivamente trasmesso in tutte le principali tv del paese, fu presto chiaro: si voleva mostrare alla popolazione che anche in caso di guerra termonucleare globale, non ci sarebbe stato pericolo per chi si trovava lontano dagli obiettivi di Esercito, Aviazione e Marina. Molti anni dopo, ciascuno dei cinque ufficiali coinvolti nella sequenza (ma non il cameraman, di origini giapponesi) sarebbero morti di cancro. Non fu mai possibile confermarne la ragione. Ma le preoccupazioni per gli scienziati che lavoravano al progetto destinato a durare mesi, ben presto, si spostarono verso un altro aspetto dell’intera faccenda…
Pronte a giurare in merito alla “sicurezza” di quello che stavano facendo, le autorità erano tuttavia preoccupate che a lungo andare, una ricaduta di materiali radioattivi (il cosiddetto fallout) potesse venire trasportata dal vento fino a un centro abitato, causando problemi e giustificate proteste tra la popolazione civile. L’incaricato di elaborare un approccio preventivo in merito fu quindi il Dr. Robert R Brownlee, fisico nucleare dell’Indiana, che avrebbe lavorato nella Divisione dei Test Nucleari per un periodo di 37 anni, analizzando ed elaborando una quantità di dati spropositata nel corso della sua lunga e onorata carriera. La sua proposta, che venne realizzata con il nome in codice di Pascal-A, fu relativa a qualcosa di mai tentato prima: non più rilasciare la bomba oggetto dell’esperimento dal cielo, né farla semplicemente detonare a livello del terreno, bensì scavare una buca e infilarcela dentro. Una prassi, questa delle esplosioni sotterranee, tutt’ora messa in pratica da quei paesi del mondo che stanno portando avanti un programma nucleare ancora agli albori, come la Corea del Nord.
Il 26 luglio del 1957, quindi, nel suolo soffice del Nevada venne scavata una galleria verticale di 147 metri e un diametro un metro e mezzo. In fondo ad essa fu collocata una bomba nucleare. Ma non del tipo comune: coincidenza volle che in quell’occasione, l’oggetto della prova dovesse essere il cosiddetto “criterio di sicurezza uno” (One Point Safe) ovvero l’approccio secondo cui l’ordigno, in assenza d’innesco avrebbe potuto esplodere accidentalmente soltanto con appena un quarto della sua potenza ipotetica complessiva. Sulla sommità del buco, quindi, fu deciso di mettere un coperchio di cemento, al fine di evitare qualsivoglia fuoriuscita di materiale nucleare. Venuto il momento della detonazione, tuttavia, con essa arrivò l’imprevisto: il criterio di sicurezza non funzionò. Con una brusca fiammata, l’esplosione a pieno regime della bomba generò una fiammata descritta dallo stesso Brownlee come “La più grande fontana pirotecnica della storia!” Poco importa. Del coperchio che avrebbe dovuto impedire l’evento, invece, non fu trovata più traccia. A quanto fu dato di capire, era stato obliterato.
Presumibilmente, non certamente. Ma la prima non è un tipo di risposta che la scienza, nel corso della sua storia, sia mai stata in grado di accettare. Ci sono persone per cui la curiosità non è soltanto uno stile di vita. Ma la ragione stessa della loro scelta di carriera. Fu quindi deciso di ripetere il test entro agosto di quello stesso anno, con alcuni specifici accorgimenti. Il tappo fu sostituito con un mostruoso coperchio da 900 Kg di acciaio, paragonabile al pezzo di una corazza navale. All’interno del tunnel verticale, trasformato per l’occasione nella ragionevole approssimazione di una gigantesca canna di fucile, venne collocato un collimatore di energia, in parole povere un sistema di sensori, posizionati dietro un blocco di cemento con un piccolo buco, in grado di effettuare misurazioni ed inviarle in superficie attimi pochi attimi prima di essere obliterato dall’esplosione. Inoltre, in prossimità dell’apertura superiore, puntata sul coperchio, fu posizionata la più performante telecamera in dotazione dell’Esercito Americano, capace di catturare più volte il singolo battito di un’ala di colibrì. Ma gli uccelli tacquero, e le lucertole tornarono nei loro buchi, nel momento in cui il conto alla rovescia raggiunse lo zero fatale, dando inizio ad un nuovo capitolo nella storia degli esperimenti nucleari.
L’esplosione fu questa volta ancora più devastante: erano stati utilizzate, infatti, 300 tonnellate di plutonio contro le appena 55 della volta precedente. Nessuno sapeva realmente, tuttavia, quale drago demoniaco fosse stato liberato nel mondo. Il collimatore di cemento, investito dalla temperatura spropositata e l’onda d’urto priva di precedenti, così instradata in uno spazio ristretto, venne immediatamente polverizzato e scagliato a velocità inimmaginabile contro il tombino. Il quale, istantaneamente, sparì. Ma con una significativa differenza: la singola immagine catturata al volgere di un solo millisecondo dalla telecamera, del bordo inferiore del coperchio che veniva scagliato in alto verso l’infinito e oltre. Il tombino, in quel preciso momento, era partito.
Il punto della storia del tombino sparato nello spazio è che essa deve costituire, necessariamente, un atto di fede. Nessuno ha mai visto, né avrebbe mai potuto vedere, l’effettivo svolgersi degli eventi. Dinnanzi all’ipotesi che l’intera piastra corazzata possa essersi disgregata a causa dell’incalcolabile attrito, ben prima di aver lasciato l’atmosfera terrestre, essa non può che costituire dunque una mera congettura. Lo stesso Brownlee, dal canto suo, si sarebbe successivamente dichiarato scettico del suo stesso traguardo, rivelando come i suoi calcoli sugli ipotetici 240.000 Km/h di velocità fossero stati necessariamente basati su dati incompleti, nonché effettuati in assenza dei moderni e potenti calcolatori informatici. E proprio lui ricordava, non molto prima della sua dipartita all’inizio del mese di maggio 2018, di una surreale conversazione avvenuta nel 1957 tra lui e il capo di divisione Bill Ogle, nel quale il secondo chiedeva insistentemente quale velocità potesse effettivamente raggiungere un oggetto scagliato da un’esplosione nucleare di 300 tonnellate. Al che lui, esasperato, esclamò alla fine “Cinque volte la velocità di fuga del pianeta Terra!” Il che la diceva lunga su quante volte avesse dovuto sentire quella domanda. Ed avrebbe potuto costituire, almeno teoricamente, il punto d’origine della leggenda.
Ma che i calcoli fossero esatti, oppure no, che realmente gli Stati Uniti d’America fossero riusciti ad inviare (accidentalmente) un oggetto nello spazio alcuni mesi prima dello Sputnik 1 sovietico, alla fine poco importa. Un istante prima il tombino c’era. Meno di un millisecondo dopo, era sparito. Possibile che fosse stato aperto, nel mezzo del cammin della vita, il varco verso un diverso piano dell’esistenza?