Ed è una scena particolarmente ansiogena questa foresta colorata di un rosso intenso e tutte le sue sfumature, perché sotto ogni possibile punto di vista, non siamo in autunno. Bensì soggetti alla furia di una diversa stagione, senz’altro quella di cui parlava il Giovanni biblico nella sua Apocalisse! Una fine del mondo che arriva per gradi, e in zone geografiche circostanziali, a cominciare dai alcuni dei luoghi più remoti di questo pianeta. Già, come spiegare, altrimenti, le Hawaii? La terra emersa frutto di effluvi lavici, nel mezzo dell’oceano e di una placca continentale, dove secondo quello che ci diceva un tempo la scienza del profondo, niente di tutto questo dovrebbe poter accadere. Eppur l’evidenza, tuttavia la realtà dei fatti, parlano fin troppo chiaramente. Sopratutto a partire dallo scorso 3 maggio, quando la figura mitologica della dea Pele, personificazione del grande Fuoco sotterraneo, si è apparentemente risvegliata di pessimo umore, esprimendo la propria furia attraverso il luogo in cui, secondo gli antichi, aveva sede la sua stessa residenza. Stiamo parlando ovviamente del monte Kīlauea, e dell’eruzione del distretto di Puna, che fa la sua comparsa occasionale nella coscienza pubblica attraverso l’occasionale dimostrazione di quello che può causare una lenta ondata di pietra fusa, che si muova in maniera imprevedibile, attraverso una zona attraversata da strade e quel che è peggio, occupata da case di varia dimensione, entità e valore. Eppure, sono pronto a scommetterci, questo disastro ancora non l’avevate visto così: nella maniera in cui lo rappresenta e narra niente meno che Mick Kalber, il documentarista e corrispondente dei telegiornali americani che dai remoti anni ’80, con una premiata carriera alle spalle, ha deciso di trasferirsi nell’Isola Grande dell’Oceano Pacifico (dopo tutto, Hawaii è la terza per estensione dopo quelle che compongono la Nuova Zelanda) per seguire una sua grande, quanto inaspettata passione: l’attività dei rombanti vulcani di questa zona, una delle più pericolose dal punto di vista geologico nell’intero pianeta che costituisce la nostra casa. Ma restando in materia d’abitazioni, apparirà evidente come persino per lui, questa volta la situazione sia del tutto diversa: il flusso incandescente che sta facendo discutere il mondo e compare nelle sue immagini a partire dall’inizio del mese ha fatto infatti la sua comparsa, proprio nella regione dei Leilani Estates dove costui, assieme a sua moglie Ann, si è ritrovato tra le persone evacuate all’inizio della scorsa settimana. E di certo, sarebbe difficile biasimare le autorità, considerata la maniera in cui l’intero fianco di questa zona collinare, non troppo distante dallo stesso cratere Halemaʻumaʻu delle antiche leggende, si stia negli ultimi giorni fessurando, creando una serie di spaccature da cui fuoriesce copioso il fluido della fine del Mondo.
Certo, scappare dalla lava non è (nella maggior parte dei casi) difficile. Stiamo parlando di un fluido viscoso che raramente scorre, prima di essersi creato dei canali, a una velocità superiore ai 6-10 Km/h. Ecco, ad ogni modo, un’esperienza capace di gettare nello sconforto chiunque: sapere che casa propria, con al suo interno la stragrande maggioranza dei nostri beni terreni, si trova vicino al sentiero di una simile catastrofe strisciante. E che da un momento all’altro, per un pessimo scherzo del destino, quest’ultima possa deviare di pochi metri, distruggendo ogni ricordo che potevamo avere di questo luogo. Le persone, dal canto loro, reagiscono in maniera diversa allo stress. Ed è chiaro che Kalber, vista la sua predisposizione personale, in un simile frangente ha agito facendo quello che in molti avremmo soltanto ponderato, gettandosi a capofitto nel suo lavoro. Che per pur caso, corrispondeva alla documentazione di tutto quello che stava succedendo giorno dopo giorno, da una prospettiva particolarmente alta e privilegiata. Già, chiunque poteva puntare la telecamera, scrivere quattro righe di descrizione, ed unirsi al vasto club dei “vulcanologi per passione” che ci hanno offerto in queste ultime settimane un posto in prima fila per l’annientamento sistematico di questa ridente terra. Mentre lui, facendo affidamento sui contatti e l’esperienza pregressa, ha scelto invece di salire su uno degli elicotteri della Paradise, azienda turistica che organizza giri panoramici dell’arcipelago per mostrarci una prospettiva invero piuttosto rara: la vista di molti fiumi che s’intersecano visti dall’alto, mentre la foresta, impotente, s’incenerisce per lasciar proseguire il flusso verso la sua remota destinazione. È una vista di sicuro affascinante, ma anche terribile, per la maniera in cui lascia presagire un fosco futuro per chiunque si sia trovato ad abitare, in tempi recenti, lungo la sua strada impossibile da prevedere. Poiché, come appare per la prima volta evidente, i punti da cui sgorgano sono molti, in grado di palesarsi all’improvviso proprio quando meno te lo aspetti. E non c’è assolutamente nessuno, non importa quanto attrezzato e determinato, che possa fare alcunché per tentare di migliorare la situazione…
Non siamo, del resto, di fronte a uno scenario del tutto nuovo. Il vulcano Kilauea, il più giovane tra quelli che preoccupano le Hawaii e il singolo monte più geologicamente attivo nel mondo, ha iniziato a dimostrarsi pericoloso già all’incirca 275.000-225.000 anni fa, come dimostrato dai veicoli a controllo remoto inviati ad esplorare il suo fianco meridionale, sommerso dalle acque dell’oceano antistante. Per poi attraversare un lungo periodo di tranquillità, prima di risvegliarsi, secondo ulteriori studi di natura geologica, meno di tre millenni prima di oggi, attraverso una serie d’incidenti che non ha , fondamentalmente, mai conosciuto un lungo periodo di tregua. Tanto che l’attuale eruzione di Puna, nell’opinione di numerosi studiosi, dovrebbe oggi essere considerata come nient’altro che l’ultima evoluzione, di un periodo di attività iniziato nel distante 1983. Non c’è dunque affatto da meravigliarsi, nell’atteggiamento fondamentalmente rassegnato e per nulla sconvolto degli abitanti della zona, che nelle interviste televisive mostrate fin qui da noi sembravano calmi nonostante tutto, nonché pronti ad ammettere di aver costruito sulle pendici di un vulcano come questo, essendo quindi gli ultimi a potesi lamentare delle recenti e irrimediabili conseguenze.
Una familiarità che si riflette, tra l’altro, nell’ampia vasta di termini di uso corrente in questo paese per definire gli eventi lavici e tutto ciò che li accompagna. Lo stesso Kalber, ad esempio, fa riferimento nelle sue informative didascalie ai video a flussi di tipo pāhoehoe (colate uniformi, semi-solide soltanto in superficie) ed ʻaʻā (mucchi di pietra fusa sovrapposta a formare dei gradini appuntiti) il tutto nell’ottica acquisita di una società, quella hawaiana, che tradizionalmente riconosce un valore sacro a un simile evento geologico, con specifici rituali e preghiere atti a chiedere la grazia di Pele, nella speranza che ella accetti di deviare il transito dei suoi terribili fiumi. Mentre famosa resta la cognizione, assai nota già agli antichi popoli polinesiani, secondo cui ella risulti impegnata in una lotta infinita con sua sorella Nāmaka, dea del mare, come esemplificato di vulcani più bassi, e meno attivi, tanto più si procede verso la parte settentrionale dell’arcipelago. Ma ci sono volute lunghe generazioni, e l’invenzione del metodo scientifico, per riuscire a comprenderne il perché. Come accennato in apertura, secondo la teoria più accreditata qui non sussisterebbe in effetti alcuna spaccatura tra le placche continentali del remoto sottosuolo marino, bensì un singolo pennacchio (condotto lavico dal mantello sottostante) in cui la pietra incandescente che risale naturalmente gli strati freddi avrebbe trovato il modo di giungere fino al mare, formando i coni sommersi che in seguito, attraverso i lunghi millenni avrebbero continuato ad alzarsi fino a formare le fertili isole in mezzo al nulla. Da cui, l’implicazione più affascinante: i vulcani dell’hotspot hawaiano si trovano tutti in asse, e sono maggiormente attivi nel meridione, proprio perché tale apertura non può spostarsi e seguire la deriva dei continenti, attraverso l’infinito trascorrere delle generazioni. Ed è una fortuna, tutto considerato, che un simile fenomeno si sia generato in posizione distante dalla terraferma, dove avrebbe potuto dimostrare conseguenze ben peggiori. Stiamo parlando, adesso, dei plateau basaltici, nell’opinione dei geologi rimanenze di antichissime esplosioni, avvenute nel momento in cui tali flussi raggiunsero una superficie esposta all’aria, deflagrando rovinosamente e causando danni notevoli all’ambiente circostante. Tanto da aver costituito, in determinati casi, una delle possibili cause dei più importanti fenomeni d’estinzione di massa nella storia del nostro pianeta.
La lava è sempre stata, e resta tutt’ora, una delle sostanze più affascinanti che potremmo incontrare nella nostra esistenza. Naturalmente pericolosa, ma più per i ben inamovibili che per gli esseri viventi e pensanti capaci di trasferirsi altrove, essa sembrerebbe rientrare nell’insieme dei “disastri naturali” che tanto spesso si tende ad associare, per una ragione o per l’altra, al mutamento climatico o alla mano inappropriata dell’uomo. Eppure, niente potrebbe essere più lontano dalla realtà: poiché la fuoriuscita di roccia fusa costituisce, quasi nel 100% dei casi, un evento di pura creazione. Lo stesso da cui, caso vuole, sono scaturite innumerevoli terre, oggi abitate da antiche e importantissime civiltà.
Cosa potrà mai essere, dopo tutto, l’opinione di una singola epoca dinnanzi alle incomparabili verità dell’esistenza? Se i popoli polinesiani, attraverso i secoli, hanno sempre venerato Pele con il suo impeto, spesso drammatico e inarrestabile contro l’azzurra sorella marina, essi dovevano conoscerne la ragione ulteriore. Peccato soltanto che disporre fiori, e rivolgere preghiere all’indirizzo della colata lavica che avanza non abbia, almeno fin’ora, prodotto tutti gli effetti sperati. Era una speranza remota, ma occorreva provarci. E tutti ormai sanno che questa è una situazione che dovrà, in un modo o nell’altro, risolversi da sola.