“È una tazza” “No, è un barile” “Vi sbagliate, si tratta chiaramente del progetto d’inizio secolo di un brillante ingegnere italiano!” Uno strano suono percorse il piccolo aeroporto di Toowonoba nel Queensland Occidentale, in Australia. Il modulato sibilo di un motore che i membri della piccola compagnia privata Aerotect non avevano mai sentito prima, pur sapendo esattamente ciò di cui si trattava. Non così il gruppo di escursionisti, oltre i confini della recinzione, che si erano avvicinati con curiosità a quella che sembrava essere a tutti gli effetti una piccola festa. Non per parteciparvi, bensì comprendere cosa, esattamente, potesse suscitare l’entusiasmo di questo gruppo di seri professionisti del volo, persone per cui lo scherzo e la pista asfaltata di decollo facevano parte di due mondi diametralmente opposti. D’un tratto il veterano del gruppo alzò il dito per puntare quanto stava osservando con occhi increduli: “Ve l’avevo detto! È lo Stipa-Caproni, resuscitato dagli archivi aeronautici senza tempo…” Dinnanzi a lui, il più buffo, e apparentemente impossibile, aeroplanino che la mente umana fosse mai stata in grado di concepire. Un velivolo lungo all’incirca 6 metri, ed alto la metà di quella cifra (praticamente, sembrava una scatoletta) con ali ellissoidali di appena 14 metri complessivi. A confermare che doveva trattarsi evidentemente di uno scherzo ci pensava la posizione di un pilota che, nonostante la tozza carlinga, era stato collocato come un cirripede sopra il guscio di una tartaruga marina, da dove scrutava con attenzione l’orizzonte dei sogni e le astruse possibilità. D’un tratto l’uomo sorrise battendosi il petto, esclamando quindi all’indirizzo dei suoi colleghi raccolti in un capannello “Per Guido!” Segue uno scroscio d’applausi, mentre lo strano oggetto, intento nella manovra di posizionamento sulla pista, si gira verso gli spettatori non visti al di là della bassa siepe. Al che, come un brivido percorre il gruppetto una volta venuti a patti con ciò che appare d’un tratto evidente: l’aeroplanino è del tutto vuoto ed aperto ad entrambe le estremità, ricordando da vicino uno di quei tubi danzanti usati dalle rivendite di auto usate o le sagre di paese, in verità piuttosto rare a queste latitudini. “Ovvio, signori miei… Questo oggetto è la personificazione in legno e alluminio del concetto stesso di effetto Venturi.”
Ecco un caso in cui Wikipedia, o una semplice ricerca su Google, possono esserci immediatamente d’aiuto: poiché la scena che abbiamo appena descritto, dedicata ad un membro italo-australiano ormai deceduto di questi piloti agli antipodi, non è altro che la realizzazione fisica della fotografia portata da quest’ultimo, assieme al relativo libro storico edito presso lo stivale nostrano, di quello che gli Australiani non avevano esitato a definire: “L’aereo più brutto mai costruito!” (Cit. Lynette Zuccoli) Senza tuttavia esitare, neppure per un secondo, nell’aggiungere: “Dobbiamo assolutamente averlo”. E a partire da questa conversazione del remoto 1997, contro ogni considerazione responsabile di sicurezza o attenzione alla sopravvivenza del collaudatore, eccolo lì. Perfetto attorno all’anno 2000, esattamente come lo era stato esattamente 68 anni prima. Già, appena una generazione dopo gli esperimenti col Flyer dei fratelli Wright, quando il volo a motore era ancora un fantastico regno di possibilità inesplorate. Del resto, se l’umanità doveva arrivare sulla Luna in un’epoca praticamente equidistante tra allora ed oggi, va da se che qualcuno, da qualche parte, doveva già aver elaborato alcuni dei princìpi del volo a reazione. E vuole il caso, o per meglio dire il corso preciso della vicenda, che quel qualcuno fosse proprio un italiano di nome Luigi Stipa, nato nel 1900 ad Appignano del Tronto, per arruolarsi a soli 18 anni partecipando alle ultime fasi della prima guerra mondiale. E che fosse un individuo straordinariamente operoso e precoce, appare più che mai evidente dagli anni immediatamente successivi della sua vita, durante i quali riesce non soltanto ad essere eletto sindaco del suo paese, ma anche a conseguire ben due lauree in ingegneria presso le università di Padova e Roma: l’una nel campo idraulico, e l’altra per ciò che avrebbe costituito il mestiere della seconda parte della sua vita, ovvero l’aviazione. Non vi sembrerà certamente un caso, dunque, che il suo lavoro più celebre avrebbe assunto l’aspetto riconoscibile di un vero e proprio tubo volante. Del resto, sempre di fluidi non comprimibili (acqua ed aria) stavamo parlando…
Fu un osservazione che a Stipa venne naturale, sembrando persino ovvia, in quel remoto 1932. Se non che nessuno, all’epoca, aveva ancora concepito una simile applicazione, salvo forse il ceco Gustav Viktor Finger nel 1893, che purtroppo per lui, era vissuto prima dell’invenzione del volo a motore. Sto in effetti parlando della maniera in cui, secondo quanto previsto già dal fisico e filosofo naturale del XVII-XVIII secolo Giovanni Battista Venturi, la pressione di una sostanza è sempre inversamente proporzionale allo spazio di cui essa dispone per riuscire ad espandersi. Il che significa, in funzione della mera legge della conservazione dell’energia, che di contro dovrà aumentare la sua velocità. Meditando su questo, il tecnico-inventore italiano preparò i disegni di quello che lui definiva il primo “motore intubato” concettualmente non dissimile da quello che oggi potremmo definire un sistema di propulsione a turboventola. Tranne che una singola, insignificante differenza: poiché i fondi disponibili per mettere alla prova l’idea sarebbero stati limitati, la dimensione del condotto per l’aria propulsiva doveva necessariamente aumentare in maniera esponenziale. Dopo varie ipotesi, quindi, Stipa elaborò un aereo monomotore e monoplano che era stato letteralmente costruito attorno ad un grande tubo di Venturi, con il motore al centro e le pale dell’elica posizionate radenti al bordo esterno dell’apertura di prua. Il che presentava alcuni significativi vantaggi: secondo i suoi calcoli, infatti, la forma tubolare della carlinga avrebbe aumentato in modo significativo la portanza, permettendo di ridurre sensibilmente l’apertura alare. Le superfici di controllo della coda, inoltre, si sarebbero trovate investite completamente dal getto d’aria in uscita dalla parte posteriore del “tubo”, aumentando per questo la manovrabilità complessiva. Preparando del materiale di presentazione adeguato, e mettendo in campo tutta la sua capacità dialettica, Stipa si recò quindi presso lo stabilimento della Caproni presso il quartiere milanese di Taliedo, già produttrice di numerosi avveniristici prototipi volanti. Senza troppa fatica riuscì quindi a convincere il proprietario, il conte Giovanni Battista Caproni, a dare forma fisica alla sua idea.
Le applicazioni possibili, a quell’epoca, non erano ancora chiare, benché l’ovvia ipotesi fosse di realizzare a partire da un simile principio qualcosa che potesse aiutare l’ormai decennale Regia Aeronautica nelle sue imminenti battaglie future. Si pensava, ad esempio, che l’autonomia maggiore concessa dalla configurazione Venturi potesse essere d’aiuto nella concezione di nuovi bombardieri a lungo raggio. Il prototipo, ad ogni modo, fu pronto entro l’inizio ottobre di quell’anno, per decollare dalla pista di Taliedo con ai comandi il coraggioso collaudatore Domenico Antonini. Il suo sistema propulsivo, costituito da un singolo motore De Havilland Gipsy III da 120 CV e quindi non propriamente potentissimo, gli bastò tuttavia a sollevarsi in soli 180 metri di spazio, per poi iniziare a salire in maniera rapida e sicura. Successivamente, Antonini avrebbe scritto di essere rimasto positivamente sorpreso dall’eccezionale stabilità dell’aereo, talmente elevata da porre non pochi ostacoli a qualsiasi proposito di cambiare rotta o quota operativa. Lo Stipa-Caproni per lo meno nella sua configurazione originaria era a tutti gli effetti, un aereo che voleva volare diritto verso il suo obiettivo. Nonostante questo, l’interesse anche internazionale non tardò a palesarsi. Stipa ricevette proposte di lavoro da Francia, Germania e Inghilterra, mentre l’Aeronautica italiana prendeva possesso del velivolo, portandolo presso la sua base di Guidonia Montecelio. Luogo dove, effettuata una lunga serie di test, l’aereo fu giudicato eccessivamente problematico nonostante i significativi vantaggi. Si decise quindi, inaspettatamente, di accantonare del tutto il progetto. Era il 1933, quando la botticella volante venne smantellata, ed i suoi componenti riciclati per altri progetti considerati, in quel momento, più promettenti.
La nostra storia, tuttavia, non finisce affatto così. Poiché nel 1935 una ditta francese di Issy-les-Moulineaux acquista il brevetto Stipa pensando di utilizzarlo per la creazione di un bombardiere strategico su richiesta del Ministero della Ricerca di quel paese, non tardando inoltre ad offrire una posizione rilevante al suo celebre inventore, per la creazione di quello che avrebbe dovuto essere lo Stipa 203. Considerate che in Italia, a quell’epoca, stava prendendo piede il Fascismo, così che l’idea di vedere un cervello tanto rilevante, per quanto ignorato fino a quel momento, fuggire all’estero bastò a suscitare una reazione di sdegno da parte delle autorità nazionaliste. Al che si racconta che il generale Giuseppe Valle, recatosi presso lo studio dell’inventore, avesse “fortemente sconsigliato” l’ipotesi dell’espatrio, esponendo quella che poteva costituire a tutti gli effetti una minaccia tutt’altro che velata. Il seguito del racconto non può che lasciare sorpresi dal nostro punto di vista distante nel tempo: perché a quel punto Luigi Stipa, forse interpretando male la sua epoca, oppure comprendendola fin troppo bene, intenta direttamente una causa legale al Capo del governo, Benito Mussolini. Le conseguenze sono pressoché immediate: gli viene tolta la sua fonte di reddito principale, una cattedra universitaria presso la Scuola di Ingegneria Aeronautica, e possiamo soltanto presumere che i suoi movimenti vengano messi sotto sorveglianza, poiché la proposta francese si risolve senza un nulla di fatto. Nel 1937 sarà di nuovo la Regia Aeronautica a richiedergli il progetto di un aereo adatto al bombardamento, il SAI Ambrosini 404, che viene tuttavia abbandonato in fase di prototipo, per il design considerato letteralmente “troppo innovativo”. Nel frattempo la ditta francese, che aveva continuato ad andare avanti con il suo progetto indipendentemente da Stipa, si vede recapitare una causa per violazione dei diritti dell’inventore. Che si risolve, di nuovo, con un nulla di fatto.
Più volte deluso, ignorato e senza più neppure un lavoro, entro lo scoppio della seconda guerra mondiale il grande inventore torna nuovamente a fare l’istruttore militare, presso la Scuola sottufficiali d’Orvieto. La sua attività segreta, tuttavia, è di tutt’altra natura: come membro della Resistenza dei partigiani, Stipa aiuta i prigionieri alleati evasi dai campi di prigionia nazisti, fornendogli asilo presso località segrete o talvolta, la sua stessa abitazione. Nel frattempo, la storia dell’aviazione segue il suo corso: l’Aeronautica italiana, nel 1940, fa assemblare presso gli stabilimenti di Taliedo il Campini-Caproni C.C.2, uno dei primi aerei a reazione della storia. Pochi anni dopo, i tedeschi con la loro “bomba volante” V-1 costruiscono il primo pulsoreattore, un nuovo tipo di motore alla base del concetto stesso di missile balistico presente e futuro. Ma l’ingegnere idraulico di Appignano, dal suo punto d’osservazione storicamente informato, non ha sostanzialmente alcun dubbio in materia: entrambe quelle cose, dopo tutto, altro non sono… Che botti volanti, scagliati nell’Empireo possibile delle aerodinamiche circostanze.