Marley, l’animale che non capisce se è pecora o cane

Esiste una cognizione ampiamente esemplificata dalla musica Pop contemporanea (baby don’t hurt me…) così come i poeti dell’epoca pre-moderna, per cui nessuno ha davvero bisogno di comprendere cosa sia l’amore. È una ferma credenza degli artisti e degli scrittori. È un istinto folkloristico e popolare, contro cui la scienza si è battuta attraverso le generazioni: battito, pulsazioni, impulsi neuronali filtrate attraverso macchine e le analisi statistiche del caso. Ma nulla di tutto questo, in realtà, può riuscire a spiegare il significato della più profonda ed antica forma di appagamento condiviso tra due o più esseri viventi. Perché mai, allora, dovremmo cercare di definire in modo specifico la controparte del nostro più importante sentimento? Chi sono queste persone, di cui si legge ogni giorno, pronte ad affermare “I cani sono migliori” piuttosto che “Io preferisco i pesci rossi” oppure “fra tutti gli animali domestici, nessuno può contraccambiarti più di un millepiedi gigante africano”? Da dove provengono questi loro preconcetti? Ah, è una lunga storia. Tutto inizia in Mesopotamia, tra il Tigri e l’Eufrate… Quando i cacciatori-raccoglitori costruirono i primi insediamenti stanziali, da cui nacque una civiltà. Ed in essa, i problematici valori, le drammatiche convenzioni. Tutto ciò che non può sussistere nel cuore del singolo, bensì attraverso il grande fiume della condivisione sociale. Che molto ha portato all’evoluzione delle nostre capacità cognitive e la sicurezza delle nostre vite, ma anche, fondamentalmente, modificato il pianeta e cambiato le nostre aspettative nei suoi confronti. Genetiche, estetiche, comportamentali. Per cui se ti trovi di fronte una bestia  bianca e pelosa, con le orecchie tonde e la coda cortissima, la prima cosa che viene da chiederti è “C-cos’è questa creatura carinaaa?!” Piuttosto che metterti ad accarezzarla, e improvvisare partendo da lì.
Marley, Marley è un quadrupede. Fin qui direi che è evidente. Dal pelo ricciuto e disordinato simile a quello del pastore ungherese Komondor, la razza più rastafariana del mondo. Con cui potrebbe facilmente venire scambiato, se non fosse per le dimensioni sensibilmente superiori: quasi 80 cm al garrese, più o meno come un alano. E l’improbabile musetto nero, che maggiormente tende a farlo assomigliare ad un buffo personaggio dei cartoon. Altra caratteristica rilevante è la lunghezza del pelo sulle zampe, capace di farla assomigliare a una sorta di orsacchiotto di peluche. Per quanto concerne le sue abitudini, stiamo parlando di un animale domestico, con una cuccia, una ciotola e una passione per i biscotti da sgranocchiare. Che ti riporta il bastone. E preferisce restare a casa, quando fa freddo o piove. Riuscite a intravedere la somiglianza con Fido? Eppure ogni qualvolta si stende dinnanzi al camino, sopra il tappeto di feltro della sua padrona, Marley prova uno strano senso di appagamento. Certo: l’oggetto in questione, studiando la storia della sua fabbricazione, ha forse qualcosa a che vedere con lui. O i suoi pari. Perché potrebbe esser fatto di lana, proveniente, guarda caso, dalla più riconoscibile razza ovina svizzera: Walliser Schwarznasenschaf, la pecora vallese dal muso nero. Un animale che risulta essere particolarmente celebre, per la sua capacità di prosperare nei climi freddi, arrampicandosi sul fianco scosceso della montagna, nutrendosi d’erba nascosta in mezzo alla neve. E di pari passo, per l’indole giovale ed amichevole, che l’ha fatto paragonare, in diverse occasioni, al personaggio britannico in stop-motion, Shaun the Sheep. Per non parlare del famoso pseudo-screen saver degli albori di Internet con la pecora rotolante e volante disegnata in stile manga, Sheep.exe.
Tutti la vogliono, pochi riescono ad averla. Nello Yorkshire, l’allevatore della fattoria Cannon Hall di Cawthorne,  Robert Nicholson, ha investito ingenti somme per praticare l’inseminazione artificiale, al fine di preservare una razza così particolare e ricca di pregi evidenti, ormai da tempo inspiegabilmente in declino. In Scozia, a Tomintoul del Moray, Raymond Irvine ha speso l’equivalente di svariate migliaia di euro per installare telecamere di sorveglianza, per proteggere le sue 11 pecore da un eventuale furto. Nel 2017, niente meno che Mark Zuckerberg ha rilasciato una breve intervista durante la fiera texana del bestiame di Fort Worth, esprimendo il suo disappunto per le norme internazionali che impediscono l’importazione della razza negli Stati Uniti. Il che, probabilmente, è un bene. Tutti conoscono le abitudini gastronomiche non propriamente vegane del Primo Amico, nonché la sua insolita propensione verso la macellazione fai-da-te…

La pecora del Canton Vallese, a seconda dei casi, può presentare un caratteristico paio di corna ad elica, attestato sia nei maschi che nelle femmine. L’effetto complessivo, del pelo soffice sormontato da un tale “armamento”, fa pensare a una chimera fantastica o il classico cane abbigliato con il cappello da renna, per Natale.

A questo punto, sarebbe facile lanciarsi nell’invettiva classica verso chi trasforma un animale in un altro, portandosi a casa una pecora e privandola della gioia del pascolo, del gregge, l’abitudine ricorrente della tosatura. Ma la realtà è che il caso di Marley, e della sua padrona Ali Vaughan della Cumbria non è né così semplice, né tanto priva di sfaccettature. L’animale era stato acquistato dalla famiglia, in origine, per abitare nel vasto giardino, dove avrebbe agito come una sorta di tosaerba automatico e naturale. Offrendo, inoltre, il beneficio del suo aspetto straordinariamente grazioso. Se non che qualche tempo dopo il trasferimento, la pecora ha riportato un’infezione non meglio definita alle giunture, portando i suoi proprietari a farla trasferire in casa finché non si fosse ripresa al 100%. Contesto in cui, poco a poco, Marley ha conosciuto Jess, il pacifico labrador di famiglia. Ed è stato allora, essenzialmente, che qualche cosa è scattato in lei. I cani sanno essere persuasivi. Poiché agiscono con assoluta spontaneità. Finché poco a poco, attraverso una sorta d’inspiegabile legame telepatico, molti iniziano a comportarsi come il proprio beniamino, parlargli con voci buffe, cercare di condividere i suoi sentimenti. È una prassi assolutamente proficua, che permette talvolta di approfondire il legame che si ha con se stessi e le dinamiche sociali del proprio ambiente. Ma nessuno avrebbe mai pensato, fondamentalmente, che potesse funzionare anche con una pecora Schwarznasenschaf.
La ragione, molto probabilmente, è da ricercarsi nell’innata propensione all’empatia di queste creature, la cui razza nasce, secondo le cronache, nel distante XV secolo, benché una classificazione secondo gli standard moderni di valutazione non sia giunta prima del 1962. La caratteristica del muso nero è fondamentalmente mutuata da un’altra razza pre-esistente, tipica dell’area e le culture scandinave: la nordica dalla coda corta, altamente riconoscibile come “prototipo” degli ovini nella cultura popolare, particolarmente sui libri e le altre raffigurazioni per bambini. I cui geni, talvolta, tendono a riemergere nella linea di queste insolite eredi, con macchie nere che si manifestano in aggiunta a quelle sulle ginocchia o le caviglie, le uniche accettate negli esemplari adatti ai concorsi. Livrea a parte, tuttavia, la conformazione fisica delle due razze è molto diversa, con la vallese che si presenta più grande, solida e resistente, la postura con zampe allargate per garantire una maggiore stabilità. Tutto, in queste creature, è concepito per l’autosufficienza e la capacità di resistere a condizioni climatiche difficili, tanto che in Svizzera, non è affatto raro vedere greggi lasciati essenzialmente a se stessi, liberi di risalire verso la cima dei monti in estate, per poi percorrere il tragitto inverso al sopraggiungere dell’autunno. Una visione che definire serenamente pastorale sarebbe quasi riduttivo, ricordando piuttosto una sorta di paradiso delle campagne, la rappresentazione ideale di tutta la grazia che può essere espressa dagli animali, se soltanto fosse possibile lasciarli un prezioso minuto d’autonomia.

Sarebbe esagerato pianificare un viaggio soltanto per andare a vedere un mucchio di pecore dal muso nero che brucano l’erba? Di sicuro, nella storia d’Europa, qualcuno deve averlo fatto. Del resto, i video di YouTube (e la Tv) non sono sempre esistiti…

Il che ci porta alle note dolenti, ovvero il perché, effettivamente, queste pecore vengano il più delle volte allevate. Sia chiaro, a questo punto, che stiamo parlando di un animale dalla doppia funzione: lana e carne. Ragione per cui, venuta meno la capacità di produrre un manto di lana completo due volte l’anno, generalmente la Schwarznasenschaf viene riservata al mercato alimentare, dove si dice che offra ottime possibilità di guadagno, soprattutto in forza della sua stazza superiore alla media. Non è tuttavia affatto raro, che un esemplare riesca a salvarsi venendo adottato da famiglie amorevoli, sopratutto in funzione della sua grazia e carineria evidente. Una contraddizione in termini alla radice della maggior parte dei rimproveri su scala internazionale (sopratutto rivolti all’Estremo Oriente) per quanto concerne la consumazione abituale di specie che noi consideriamo troppo nobili, o culturalmente inadeguate. Del resto se qualcosa è bello o buono per me, non è detto che debba esserlo per tutti quanti.
Personalmente, a tal proposito ripenso talvolta alla grande rivelazione finale del romanzo di fantascienza interstellare del 1974 di Larry Niven e Jerry Pournelle, la Strada delle Stelle (The Mote in God’s Eye) in cui una razza aliena fa tutto il possibile per nascondere agli umani la loro più vergognosa verità: che ogni forma inferiore di vita su quel pianeta, incluso lo stesso cibo servito a tavola, sia in realtà il prodotto di una “variazione genetica” dell’unica specie senziente e parlante che lo abita, ovvero loro stessi. Vero e proprio cannibalismo, dunque, frutto di questo ambiente immaginario in cui non esistevano piante o animali in grado di sostenere l’esistenza di chicchessia. Al che ricordo di aver pensato molto chiaramente: e allora? Che differenza c’è? Non mangiamo forse anche noi, alcune delle cose che ci sono più care? In quella distruzione reciproca, che è il cruccio fondamentale e il motore stesso dell’esistenza. La natura più profonda, ed irrinunciabile, della nostra purissima sussistenza. Ma è soltanto in questo dramma infinito, fatto di rimorso e sofferenza interiore, che l’amore può assumere il suo ultimo significato. Ciò che ci rende diversi da una pietra. Ma simili, anzi identici, agli animali che condividono un tale viaggio con noi.

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