Skyshelter, grattacielo d’emergenza costruito da una mongolfiera

Sono 13 anni, ormai, che con cadenza regolare la rivista di architettura eVolo presenta i risultati del suo concorso internazionale “Skyscraper Competition” rivolto a tutti i giovani designer, studenti di architettura o perché no, i veterani che non hanno perso l’impulso di sognare. Con risultati degni di comparire, in rapida sequenza, sulla copertina di dozzine di romanzi di fantascienza. Già, perché il soggetto selezionato di volta in volta, al di la di fornire una contestualizzazione di tipo estremamente generico (quest’anno il tema è “sostenibilità”) lascia completa carta bianca ai diretti interessati, con l’intesa non scritta che qualsiasi ipotesi plausibile, per quanto non probabile, è passibile di partecipare e persino, con le giuste condizioni, vincere il premio finale. Onore riservato, verso la metà di aprile, a Damian Granosik, Jakub Kulisa e Piotr Pańczyk, creativi con un’idea davvero particolare, con il merito ulteriore dell’attualità. “Le statistiche dimostrano che ogni anno” Esordisce il breve video di presentazione: “….Si verifica una quantità maggiore di disastri naturali: inondazioni, vulcani, terremoti. Ma fornire i soccorsi dovuti spesso non è facile, a causa di problemi logistici e relativa inaccessibilità.” Di certo costruire un campo profughi richiede il verificarsi di determinate condizioni, soprattutto all’interno di un territorio rovinato dal recente verificarsi di simili eventi: si richiede, tra le altre cose, acqua corrente, energia elettrica e soprattutto, uno spazio sufficientemente grande da erigere una quantità di tende proporzionale al numero di chi ha urgente necessità di assistenza. Il che significa, all’intero di un’ipotetica città devastata: A – Scegliere un luogo che sia lontano dalla maggior concentrazione di feriti, oppure B – ritardare le operazioni, al fine di rimuovere le macerie e fare spazio ai servizi umanitari richiesti di volta in volta. Ma è mai possibile, nel tecnologico 2018, che esista un terzo e più risolutivo sentiero?
L’idea alla base del grattacielo Skyshelter, il cui nome completo risulta essere “Skyshelter.zip” (con un riferimento vagamente démodé al formato di archiviazione dei file inventato nel 1989 da Phil Katz) è disporre di un qualcosa che non soltanto risulta essere prefabbricato, ma anche dotato di una forma compatta estremamente facile da trasportare, ad esempio tramite l’impiego di elicotteri, fino al punto di sua maggiore necessità. L’edificio compresso nelle dimensioni (da cui il suffisso del nome) viene quindi saldamente ancorato al terreno mediante l’impiego di apposite fondamenta meccanizzate, poco prima di essere connesso ad un serbatoio semovente di elio o altri gas più leggeri dell’aria, al fine di riempire lo spazio cavo, fino a poco prima appiattito, che occupa lo spazio corrispondente ad un terzo della sua elevazione complessiva. Dando origine a quello che non sarebbe esagerato definire come una sorta di gioco di prestigio sovradimensionato: nel giro di una manciata di minuti, l’oblungo dirigibile inizia a salire, trascinandosi dietro le “mura” della struttura, in realtà nient’altro che stoffa polimerica con un’intelaiatura di pannelli creati grazie alla stampa 3D, in grado di fornire l’adeguato grado di isolamento dalle intemperie o le basse temperature. Con una progressione verso l’alto che potrebbe ricordare, essenzialmente, il funzionamento di una fisarmonica gigante. A quel punto, una volta raggiunta l’altezza desiderata in proporzione al numero dei bisognosi (che potrà anche non essere la quota massima prevista) il pallone verrà assicurato con dei cavi d’acciaio capaci di resistere ai venti trasversali, diventando un soffitto solido quanto qualsiasi altro. Ma, con un trovata certamente in grado di rientrare tra quelle che hanno concesso ai tre visionari il premio di quest’anno, dotato di un buco verticale in mezzo, con un depuratore situato nell’estremità inferiore, capace di raccogliere e purificare l’acqua piovana a vantaggio degli occupanti, oltre a fornire l’irrigazione a eventuali orti verticali che questi ultimi dovessero decidere di installare all’interno, nel caso in cui la loro residenza dovesse trasformarsi in una sede semi-permanente. Mentre nell’ipotesi migliore, che la situazione dovesse risolversi in un tempo ragionevole, il grattacielo potrà essere rapidamente sgonfiato, pronto per il sollevamento mediante la stessa serie di elicotteri che l’aveva portato fino a lì…

Una serie di cellette interconnesse tra loro non è quello che viene generalmente in mente quando si pensa ad un grattacielo. Appare perciò palese che qui, una delle finalità principali era stupire.

Intriganti, pratici o poco pratici, spesso sorprendentemente rivoluzionari. Ma chi dovesse pensare che i grattacieli della competizione di eVolo debbano sempre e necessariamente basarsi sull’applicazione di tecnologie avveniristiche, sarebbe presto smentito dal secondo classificato di quest’anno, proposta dell’hongkong-ese Tony Leung, intitolato Jinja: il grattacielo/tempio shintoista, concepito come una versione verticale di antiche strutture all’interno del santuario di Izumo, nella prefettura di Shimane, luogo dedicato al culto di Ōkuninushi-no-mikoto, nume tutelare del matrimonio. Edifici che l’autore non esita a definire “i primi grattacieli d’Oriente” simili a granai sopraelevati, all’interno dei quali venivano custodite le scorte di riso per la comunità locale. Tra i quali in particolare, quello poco fa citato viene talvolta narrato fosse in grado di raggiungere i 96 metri d’altezza, l’equivalente di un edificio di 25-30 piani. La funzione principale di un simile versione moderna, dunque, sarebbe proprio il riproporre gli antichi metodi all’interno dello spazio relativamente compatto, di questo tempio aperto e in grado di funzionare come punto d’incontro per tutti. Edificato con metodologie sostenibili, nello specifico, presso un angolo del quartiere Ginza a Tokyo, uno dei singoli luoghi più densamente popolati della Terra. Con un susseguirsi a sviluppo verticale di spazi dedicati alla coltivazione idroponica, stanze per la meditazione o le attività votive, e veri e propri giardini pensili, così straordinariamente necessari all’interno di una zona dalla simile densità urbana. Persino i gradoni del tetto, volendo, potrebbero essere adibiti ad ospitare delle risaie di tipo più naturale. La ragione del secondo premio conseguito all’interno della competizione, probabilmente, va ricercata nell’unione che qui si realizza tra antico e moderno, in maniera tanto lampante quanto dotata di proficui secondi fini, validi nell’accrescere il senso civico e la coscienza ambientalista delle persone.
Altrettanto utile, sebbene in maniera drasticamente diversa, potrebbe dirsi il terzo classificato ad opera del cileno Claudio C. Araya Arias, l’unico grattacielo ipoteticamente utile nella prevenzione degli incendi. Termine riferito non tanto ad eventuali sviste tragiche e distruttive all’interno di un tale specifico spazio architettonico, bensì ai veri e propri disastri regionali, che nella stagione estiva 2016-2017 hanno battuto in quantità di 5.244 la nazione di appartenenza di questo concorrente, costando la casa a più di 2.500 nuclei familiari. Poiché tuttavia, una volta toccato il fondo non si può che tentare di risalire, è nota la maniera in cui le persone con propensione architettonica vedano in simili eventi l’opportunità di rinnovare ed accrescere le contromisure tecnologiche a disposizione, messe a disposizione di tutti coloro che sono rimasti più gravemente colpiti. Ed è così che nasce Waria Lemuy (in lingua locale: “città foresta”) un intrigante struttura modulare con parti in legno, metallo e plastica, dotata di una grande quantità di collettori della limitata umidità dell’aria sudamericana. Il che, oltre a fornire acqua corrente pressoché illimitata agli occupanti, dovrebbe permettere alla struttura di generare a intervalli regolari dei veri e propri banchi di nebbia, capaci di modificare in maniera positiva l’atmosfera non particolarmente ignifuga di una simile regione di provenienza. L’edificio quindi, vera e propria interfaccia tra uomo e natura, potrebbe anche fornire l’acqua necessaria per irrigare un sistema di coltivazioni sottostanti, aiutando la flora a riprendersi dalle numerose devastazioni subite negli ultimi anni.

Le funzionalità di Waria Lemuy, finalizzate al riciclo dell’umidità contenuta nell’aria, sono più complesse e meno facili da comunicare a una giuria. Ragione, probabilmente, in grado di precludergli i due scalini più alti del podio.

Una volta elencati i tre vincitori, possiamo a questo punto enumerare la quantità complessiva dei partecipanti al concorso di eVolo: niente meno che 526, tra cui 27 considerati degni di una menzione speciale. Per conoscere molti dei quali, consiglio di visitare la ricca galleria d’immagini in abbinamento a questo articolo di New Atlas, oppure il sito ufficiale dell’evento. E per quanto sia ragionevole mettere in dubbio l’effettiva fattibilità di molti di questi progetti, è indubbio che la quantità d’idee messe in campo sia straordinariamente elevata, così come il ventaglio dei problemi presi in considerazione dagli abili inventori, ingegneri e disegnatori a sostegno di ciascuna proposta.
La domanda su cosa resti dunque, alla fin della fiera, di un simile tripudio di voli (estremamente) pindarici, non può che restare aperta alla specifica mentalità di chi voglia esprimere un giudizio. Alcuni potrebbero considerare il tutto come un’iniziativa al limite dell’intrattenimento, come la succitata letteratura di genere fantascientifico o il concetto stesso di fare ipotesi su un distante futuro. È tuttavia probabile che la stragrande maggioranza delle persone per così dire serie, avrebbe affermato qualcosa di molto simile dinnanzi a una rassegna del moderno skyline di New York o Londra, verso l’inizio di due o tre secoli fa. È impossibile, allo stato corrente dei fatti, determinare quale siano le tematiche più pervasive, che condizioneranno il susseguirsi delle generazioni a partire da quella corrente. Per non parlare dell’apporto gravoso, e complesso, degli eventuali disastri o guerre che pendono sulla nostra testa. La ragione principale dell’ottimismo, dunque, resta quella che gli è sempre appartenuta: porre le basi per elaborare un qualcosa di positivo, piuttosto che accettare con rassegnazione gli eventi. Ben vengano, in tutto questo, le più favolose ed avveniristiche mongolfiere.

Lascia un commento