È una questione piuttosto nota, anche se raramente discussa, quella per cui le città giapponesi, il più delle volte, non seguono l’usanza di dare un nome alle strade. Disponendo, piuttosto, all’ingresso di ciascuna zona, delle mappe simili a quelle del centro commerciale o lo zoo, ciascuna delle quali riporta la disposizione, completa di numero assegnato a ciascun edificio, degli abitanti presso cui sono dirette comunicazioni via posta, pacchi o visitatori dell’ultima ora. Va da se che si tratti, ad ogni modo, di un sistema che si affida in modo considerevole alla disponibilità delle persone, nonché dell’essenziale poliziotto di quartiere, che dalla sua caratteristica micro-stazione (la “kōban”) può fornire indicazioni a chiunque si senta momentaneamente, o irrimediabilmente smarrito. L’eccezione che conferma la regola? A giudicare da una foto particolarmente famosa su Internet da un periodo di almeno 10 anni, c’è stata un’epoca lunga 10 anni in cui un’intero vicinato della vasta metropoli di Osaka avrebbe potuto beneficiare di un agevole punto di riferimento: il principale, e più amato, tra tutti gli stadi urbani, trasformato per ragioni misteriose in ben più di un semplice arredo urbano, bensì lo stesso muro di contenimento, ovvero l’anfiteatro, in cui edificare una tripla fila di graziose villette a schiera, con tanto di vasto parcheggio per gli abitanti e qualche albero decorativo, trasferito per l’occasione continuativa sull’ex terreno di gioco. L’illusione, per chi avesse osservato la scena dall’alto (i droni ad uso privato, all’epoca, erano per lo più una creazione immaginifica degli autori di fantascienza) sarebbe stata perfetta sotto ogni punto di vista, con tanto di lampioni accesi e luci sfavillanti dall’interno delle finestre posizionate in parallelo. Gli spalti, pronti a riempirsi di nuovo in qualsiasi momento, avrebbero fatto pensare all’inquietante vicenda cinematografica del Truman Show.
C’è un’intrigante storia, dietro a tutto questo o per meglio dire, ce ne sono diverse. Come facilmente desumibile dall’inserimento della curiosa testimonianza sul venerando portale Snopes, l’antesignano di qualsivoglia analisi digitale memetica, che amava presentarsi come “un catalogo di leggende metropolitane” il quale riporta, in apertura, l’interpretazione più famosa: il 17 gennaio del 1995, nell’area costiera di Kobe che dista soli 35 minuti dal centro di Osaka, si era verificato l’Hanshin Awaji daishinsai (grande terremoto di Hashin Awaji) un tremore di 6,9 della scala MMS, che causò danni devastanti e la perdita di 6.434 vite umane. Non appare del tutto inimmaginabile, né degno di biasimo, che un’amministrazione cittadina in cerca di un luogo per ospitare i numerosi profughi, avesse pensato di costruire un nuovo quartiere all’interno del proprio stadio, senza investire i fondi extra necessari per demolirlo. Senza considerare come esista, nel mondo antico occidentale, almeno un importante precedente: quello della città francese di Arles, che dopo la caduta dell’Impero Romano, si ritirò all’interno di una fortezza ricavata dallo stadio costruito sul modello del Colosseo. Niente di meglio per difendersi dagli zomb… Pardon, i barbari! Ad un’analisi più approfondita, tuttavia, questa interpretazione di seconda mano rivela subito i propri punti deboli: in primo luogo, perché mai una simile iniziativa avrebbe dovuto condurre a graziose villette a schiera, piuttosto che un più spazioso ed utile condominio? C’è poi la questione della stessa mentalità giapponese. Che nel momento in gli individui vengono colpiti dal verificarsi di un disastro inaspettato, raramente consente loro di affidarsi alle concessioni di terzi, affidandosi ai servizi offerti dalla società. Ma induce piuttosto in loro l’iniziativa immediata di porre rimedio e ricostruire, lavorando alacremente per edificare il nuovo mondo sulle macerie di quello vecchio.
Ma il vero colpo di grazia a una simile teoria viene da un’altra foto stavolta in bianco e nero, rappresentante la stessa scena, datata 1991: ben quattro anni prima della catastrofe geologica. Nessuna iniziativa d’emergenza, dunque, e nessun bislacco approccio alla soluzione abitativa prelevato direttamente da un disaster movie anni ’90 (per non parlare del recente videogame post-apocalittico Fallout 3) in cui lo stadio diventava un quartiere cittadino. Bensì una spiegazione che appare, per certi versi, ancor più improbabile e sorprendente…
Un paio di pubblicità animate dell’epoca emergono immediatamente, cercando su YouTube il testo 大阪球場住宅博 (Ōsaka kyūjō jūtaku-haku – l’expo di case dello stadio di Osaka) ovvero il nome attribuito ad una delle iniziative dell’ultima era di questo edificio, costruito negli anni ’50 in uno spazio dovuto ai bombardamenti statunitensi e demolito, infine, nel 2000, per fare spazio ad un progetto di riqualifica che includeva tra le altre cose l’edificazione dell’avveniristico centro commerciale Namba Parks. È uno strano processo, questo, per il quale un luogo stimato un tempo come tempio del divertimento nonché casa professionale dei Nankai Hawks, squadra di baseball sponsorizzata dalla ferrovia elettrica delle prefetture di Osaka e Wakayama, possa essere relegato istantaneamente nel dimenticatoio collettivo, nel momento in cui suddetto club sportivo viene venduto alla società SoftBank di Fukuoka, con conseguente trasferimento nel 1989 sulla distante costa dell’isola del Kyshu presso lo stadio di Heiwadai, all’altro capo del paese. E dire che l’arena in questione, giusto due anni prima, aveva attraversato il suo periodo di maggiore fama internazionale, con due concerti in rapida successione dei giganti del Pop occidentale, Michael Jackson e Madonna. A partire da quel fatidico momento di transizione, qui si trasferirono i Kintetsu Buffaloes, un’altra squadra la cui fama non raggiunse mai, tuttavia, quella dei loro insigni predecessori, portando la gestione del diamante sportivo ad ospitare anche un certo numero di partite semi-professionistiche di leghe minori. Finché il 2 agosto del 1990, tra il dispiacere generale, venne annunciata l’ultimo match di baseball nell’arena dell’Ōsaka kyūjō, riuscendo a vendere la totalità dei biglietti, per 35.000 fan scatenati invitati, tra l’altro, in un giorno lavorativo della settimana. E fu allora, spenti per l’ultima volta i mega-riflettori installati nel 1951, che si decise di vendere lo stadio ad un “gruppo commerciale” di cui ad oggi, Internet non è tanto generosa da offrirci un nome.
L’idea di quest’ultimo, quindi, fu assolutamente geniale sulla carta: impiegare lo spazio vuoto del campo di gioco per edificare un expo semi-permanente di villette prefabbricate in stile occidentale, che potessero ricordare ai loro futuri clienti l’immagine prototipica della suburbia statunitense. È interessante notare come l’acquisto di immobili, in Giappone, non sia considerato tanto l’acquisizione di una proprietà di famiglia, da adattare e personalizzare in base alle proprie necessità, bensì alla stregua di un’automobile o un completo elegante, il bene personale che permette di esprimere la propria posizione e ruolo all’interno della società. Proprio per questo, non è affatto infrequente che le giovani coppie sposate si trasferiscano in luoghi già completamente arredati, lasciandosi dietro le tradizioni familiari, in una ricerca di nuovi valori estetici nettamente distinti da quelli dei loro genitori. In questo, l’occidentalizzazione sembrava una strada interessante, benché destinata a fornire dei guadagni minori alle aspettative. Secondo quanto riportato sul sito del fotografo Ned Bunnell The Online Photographer, infatti, sembra che la qualità costruttiva delle case nello stadio fosse relativamente inferiore alle aspettative locali, destinando l’ingente investimento a cadere nel proverbiali vuoto. Chiunque dovesse visitare oggi la città di Osaka, in effetti, noterà una grande quantità di futuribili grattacieli. E ben poche strade occupate dalle anacronistiche villette a schiera…
Eppure, l’expo continuò e continuò ancora. Non è particolarmente immediato comprendere come una simile iniziativa, ingombrante e relativamente costosa, possa essere rimasta in funzione per un periodo di quasi 9 anni, senza margini di guadagno misurabili e degni di nota. È tuttavia probabile che la stessa amministrazione cittadina di Osaka avesse partecipazioni pubbliche nella misteriosa compagnia di gestione, per non parlare del più importante dei valori aggiunti: una sorta di alibi, assolutamente statico e finanziato con capitali esterni, utile a rimandare l’inserimento nel budget della non semplicissima demolizione dello stadio, fino ad un anno fiscale in cui ciò sarebbe stato possibile senza arrecare importanti disagi alla popolazione. Che arrivò, puntualmente, al volgere del millennio, tra le deboli proteste di quella stessa popolazione nostalgica, che tanti anni prima l’aveva abbandonato.
Largo al nuovo che avanza, come si dice in ogni quartiere del mondo, soprattutto quando il terreno rilevante comporta una posizione strategica dalle potenzialità così notevoli, non troppo distante dall’aeroporto internazionale della città. E non è certo un caso se oggi qui sorge, all’interno di una sinuosa struttura simile ad un canyon artificiale con tanto di giardini pensili, uno degli edifici adibiti a scopi commerciali più famoso e redditizio dell’intera area del Kansai. Eppure, da qualche parte, ancora riecheggia la memoria di una diversa possibile città di Osaka, meno densamente popolata e costruita secondo un’estetica meno ambiziosa. In cui l’arena centrale, con i suoi spalti simili a mura, avrebbe potuto essere un baluardo da zombie, barbari o potenziali titani. Quante volte, ancora, dovremo abbandonare il sentiero che ci viene offerto dallo sconfinato regno dell’umana fantasia?