Nella puntata culmine di Special Ops con Wil Willis, nome in codice Whiskey Whiskey, l’ex membro delle forze speciali americane trasformato in attore nella vita civile doveva infiltrarsi nel campo base di un’organizzazione anti-governativa, distruggere la torre di comunicazione, distruggere il sistema radar, salvare il pilota abbattuto, disinnescare la bomba, catturare i lanciamissili Stinger ed infine mettersi in salvo, fuggendo via negli ultimi minuti verso la luce splendente di un vittorioso tramonto. Lo show, organizzato come un reality basato sugli effettivi scenari di addestramento militari contro gruppi di OPFOR (forze d’opposizione simulate) fu in grado di suscitare non pochi dubbi sul realismo delle soluzioni e le capacità dimostrate dal dinamico protagonista, pur avendo il merito di dimostrare molte tattiche e procedure effettivamente previste dal codice operativo dei ranger e dei marine. Ma ciò che colpiva, soprattutto, erano la sua professionalità derivante da un passato pregresso che non tutti, tra gli spettatori, si erano davvero preoccupati di approfondire. Ovvero una carriera che l’aveva portato in precedenza non soltanto tra i famosi Ranger, ma all’interno di un gruppo di operativi che rappresentano, probabilmente, una delle elite più esclusive e stimate dell’intero ambito militare statunitense: i cosiddetti PJ. Acronimo significante Para Jumper, in realtà un gioco di parole tra i termini “paracadute” e “paramedico” due mestieri che s’incontrano nella mansione principale del corpo, sotto la diretta autorità dell’AFSOC (Comando delle Operazioni Aeree Speciali) che interviene ogni qual volta occorre trarre in salvo un uomo in situazioni impossibili, sotto il fuoco incrociato, dietro le linee nemiche, in un remoto luogo dello schianto tra montagne inaccessibili ai più…
Una volta preso atto di questo, dunque, non sorprende eccessivamente il fatto di ritrovarlo online, mentre istruisce i partecipanti a quello che sembrerebbe essere un corso di sopravvivenza per operativi o mercenari privati, con il compito di istruirli nell’esecuzione di una particolare tecnica di salvataggio dei soldati feriti, che lui chiama la “rotolata del ranger”. La mossa altamente specifica, in realtà, non compare su alcun manuale scritto e potrebbe rappresentare un suo perfezionamento di metodologie acquisite, oppure una completa invenzione mai effettivamente sperimentata. Lascio a voi il privilegio di trarre le conclusioni, benché personalmente, mi asterrei dal tentare di utilizzarla nel caso sfortunato in cui dovesse comparirne l’opportunità. Al fine di dimostrarla, in primo luogo, Willis chiede ad uno dei presenti di sdraiarsi a terra, recitando la parte del ferito totalmente privo di sensi. Quindi, al termine della sua esposizione carismatica e gestuale, si lancia sopra il malcapitato come in una mossa finale di un incontro di wrestling, finendo in un attimo fuori dall’inquadratura: purtroppo, qualcosa sembra non aver funzionato a dovere. L’insegnante ritorna sorridendo di fronte alla telecamera, ammettendo di aver sopravvalutato il peso della controparte e incolpandolo di aver “accompagnato la rotolata”. Ciononostante, l’effetto finale di quanto dimostrato è palese: l’istruttore ha preso il giovane in spalla e lo sta trasportando di traverso sulle sue spalle. Sono effettivamente passati meno di un paio di secondi. Come è possibile tutto questo? Al fine di dimostrarlo per il meglio, ma soprattutto per mostrarlo a colui che lo sta riprendendo col cellulare (“Farò di te una celebrità di YouTube!” Scherza la voce fuori il campo dell’inquadratura) chiede quindi ad un milite decisamente più corpulento di fare il morto, eseguendo nuovamente l’affascinante manovra. Mr Whyskey cala nuovamente a terra, afferrando nel contempo la gamba destra dei pantaloni dell’uomo. Quindi si appoggia a terra con il fondoschiena, per poi avanzare lateralmente mentre rovescia, in un solo fluido movimento, l’ipotetico ferito sul campo di battaglia. Si riescono quasi a sentire i proiettili che fischiano tutto attorno, mentre in un attimo lui si ritrova in ginocchio, l’individuo di traverso sopra le spalle, una mano libera pronta a rispondere al fuoco. Un soldato dotato della sua forza fisica in proporzione al compagno atterrato, a quel punto, potrebbe alzarsi e tentare di correre in salvo senza alcuna soluzione di continuità. Seguono ulteriori dimostrazioni, durante le quali Willis ammette chiaramente come, in una simile manovra, la priorità non sia limitare ulteriori danni a colui che sembrerebbe averne già subiti di significativi, bensì portarlo in salvo a qualsiasi costo, quando restare fermi costituirebbe una sentenza di morte certa. Non c’è granché da meravigliarsi, in questo: poiché ciò che lui sta dimostrando, in effetti, non è altro che la versione invertita di una tecnica per lotta senza l’uso di armi…
La vicenda della nascita del kata guruma (肩車 – ruota di braccia) è in un certo senso quella prototipica per la figura del gran maestro Jigorō Kanō, e quindi inerentemente relativa alla genesi della disciplina del Judo stesso. Si narra che ancor prima di diventare sensei, il giovane di costituzione gracile e massa muscolare piuttosto limitata, si fosse trovato dinnanzi all’occasione frustrante di sfidare un avversario che pesava molto più di lui, la cui costituzione troppo massiccia bastava a renderlo immune a qualsiasi tecnica di atterramento convenzionale. Rinunciando quindi alla vittoria, ma ritirandosi piuttosto per studiare le caratteristiche dell’avversario in relazione alla storia delle tecniche lotta di Oriente ed Occidente, Kanō elaborò un approccio totalmente diverso al problema: perché sollevare l’intero peso di una persona al fine di farla cadere a terra, quando è possibile ottenere lo stesso risultato con soltanto il 30% dello sforzo? Questo sistema di contrattacco, oggi annoverato tra i 67 atterramenti permessi nelle competizioni di judo, costituisce probabilmente il più tecnico e difficile da eseguire correttamente, soprattutto contro un avversario in grado di contrastarlo adeguatamente. Se portato a termine senza errori, tuttavia, viene considerato degno di chiamare l’ippon, ovvero la vittoria immediata del match da parte dell’abile esecutore. In esso, il tori (attaccante) fa un passo avanti posizionando il piede destro tra quelli dell’uke (difensore) mentre tira la manica di quest’ultimo a destra in alto. La gamba sinistra del tori si ricongiunge quindi con l’altra, mentre la nuca viene posizionata in corrispondenza del fianco destro dell’uke. Mentre quest’ultimo si solleva inevitabilmente sopra il supporto del braccio destro, quindi, il sinistro accompagna il movimento, scaraventandolo auspicabilmente a terra. Nella migliore delle ipotesi, nessuna mossa dovrà o potrà seguire l’esecuzione del kata guruma, poiché l’atterramento sarà portato a termine in un tempo straordinariamente breve. Con un processo concettualmente simile, benché diametralmente opposto, al sollevamento dimostrato da Willis al suo gruppo di studenti. Nella fine del breve racconto, è inutile dirlo, Jigorō Kanō sconfisse il suo corpulento avversario. Ed il resto, come si dice, è leggenda.
Ora l’applicazione in campo medico di un simile approccio al problema, in effetti, potrà far sollevare più di un sopracciglio. Basta una rapida scorsa al Manuale dell’etica di guerra e le capacità di combattimento dell’Esercito Americano (U.S. Army FM 3-21.75) per prendere atto di come sollevare un ferito senza l’uso della barella, e tanto più metterselo in spalla, sia estremamente sconsigliato in quasi ogni situazione, salvo l’occorrenza pendente di una possibile esplosione, fuoco o altra causa di morte certa. Lo stesso approccio del Fireman’s Carry (sollevamento del pompiere) usato in campo civile, ad ogni modo, è stato oggi superato da metodologie meno traumatiche per il ferito, come il trascinamento o il sollevamento cooperativo da parte di due o più operativi. Anche perché, in ambienti chiusi soggetti ad aria irrespirabile, portare in alto la testa di una persona immobilizzata può facilmente indurre al soffocamento, difficile da prevenire proprio perché la sua testa si troverà fuori dal campo visivo del soccorritore. Nel caso di lesioni alla spina dorsale non immediatamente evidenti, inoltre, comportarsi in questo modo sarebbe una sentenza di paralisi quasi certa. E figuratevi se, come l’ex salvatore paracadutista, vi venisse in mente di approcciarvi al problema con tutta la gentilezza di un campione di arti marziali nel corso del suo incontro per il titolo nazionale!
Eppure, è possibile immaginare una situazione in cui il sistema di Willis potrebbe salvare la vita di una persona. Se quest’ultima fosse immobilizzata, ma non priva di sensi, ed in grado di comprendere il suo effettivo stato di salute, gli potrebbe forse riuscire d’informare il soccorritore di essere pronto. E prima di finire vivi nelle mani del nemico (un destino, si sa…) i due si troverebbero a prendere la decisione di rischiare il tutto per tutto. Volendo essere hollywoodiani al 100%, potremmo persino immaginare il ferito sulle spalle del suo salvatore che agilmente partecipa alla sparatoria, impugnando la pistola d’ordinanza con le ultime risorse rimaste, mentre tenta di fare il possibile per portare a casa la di lui pelle. Voglio dire, chi può limitare l’orizzonte degli eventi possibili, sebbene non probabili in guerra? Tutto questo a patto, ovviamente, di avere spazio a sufficienza per portare a termine la prima, salvifica rotolata.
La categoria militare dei Para Jumper nasce verso la parte finale della seconda guerra mondiale, in particolare nel teatro bellico di Burma-India e Cina, dove avveniva di frequente che i C-46 e C-47 per il trasporto truppe precipitassero durante il tragitto nell’area dell’Himalaya, finendo in un’area dove la cattura da parte del nemico era assai meno probabile della morte per la semplice esposizione ad un territorio pericoloso ed inospitale, per di più popolato da tribù che praticavano il cannibalismo.
In quello scenario improbabile, il capitano John L. “Blackie” Porter istituì il gruppo informale della Blackie’s Gang, formato da paracadutisti con addestramento medico, capaci di lanciarsi per fornire assistenza, rifornimenti e una guida ai soldati smarriti, facendo il possibile per riportarli in un territorio sicuro. Il suo lavoro, mai ufficialmente autorizzato né premiato in vita con significative medaglie, andò incontro a rinomati successi, come il salvataggio dei 20 uomini precipitati nell’agosto del 1943 nei pressi della regione Naga di Burma. Qualche mese dopo, l’ideatore stesso del progetto perse la vita, a seguito dell’abbattimento del B-25 con cui si stava recando sulla scena del’ennesimo disastro aereo. Diversi anni dopo il suo sacrificio, fu elaborato il credo del corpo dei PJ: “Il mio compito è salvare la vita dei feriti. Sarò pronto a portare a termine le mie mansioni prima dei desideri e l’incolumità personale. Farò questo, affinché gli altri possano vivere.” Una scelta a tutti i livelli, questa, a cui difficilmente si possono frapporre limitazioni imposte dalla logica e il protocollo. A volte, in guerra, può servire usare tecniche non convenzionali. E sperare per il meglio.