Una terra presso cui convergono due, o a seconda dei punti vista, anche tre continenti, situata idealmente sulla cima del globo terrestre quasi a sancire la sua importanza determinante nello scenario geopolitico passato, presente e futuro. Ma tutti sanno che il tremendo gelo dell’Artico, nella sua storia, è bastato a renderlo sostanzialmente inaccessibile, come uno scrigno pieno di ricchezze per il quale ancora non esiste una chiave. Il che non ha impedito, nel corso degli ultimi tre secoli, alle principali potenze nazionali di farsi avanti, nella speranza di riuscire ad accaparrarsi uno spazio da gestire in autonomia funzionale, in un’espansione territoriale dalle profonde implicazioni sulla scena internazionale. Ma la vera ricchezza di questa terra, fin dall’epoca della sua scoperta vichinga in epoca medievale, non fu mai la mera possibilità di edificarvi e costituirvi una comunità, giacché nessuno, mai, vorrebbe trasferirsi lassù, bensì la possibilità e il diritto di passarvi attraverso, aprendo un sentiero per il trasporto delle merci molto più breve, e potenzialmente redditizio, di tutte le (poche) alternative a disposizione. Attraverso l’impresa reiterata di vascelli come il 50 Let Pobedy (50 Anni di Vittoria) che pur essendo dedicato ad un anniversario fissato per il 1995, ha raggiunto l’epoca della sua prima missione operativa nel marzo 2007, dimostrando chiaramente la difficoltà ed il costo logistico di un simile varo.
Poteva perciò sembrare, come nella maggior parte dei casi simili, che la scelta migliore a tal fine fosse disporre di navi con scafo rinforzato e propulsione convenzionale, la cui finalità è quella di aprire letteralmente un canale, attraverso cui le portacontainer della loro stessa nazionalità potesse procedere verso i mercati redditizi dell’Asia Orientale. Laddove questo specifico ambiente d’utilizzo, e soltanto questo, rende assai più ragionevole un approccio drastico e risolutivo: l’impiego di battelli a propulsione nucleare. Spinti innanzi dall’uranio ultrariscaldato, collegati a possenti turbine a vapore, queste navi rappresentano dal lontano 1957 una particolare eccellenza ed un fiore all’occhiello del dipartimento statale Rosatom, organo di epoca sovietica incaricato di gestire ogni sfaccettatura della singola fonte energetica più potente attualmente disponibile all’umanità. Creazioni dell’ingegno russo perché in effetti, poteva davvero essere altrimenti? Una delle poche culture in cui l’opera ingegneristica domina sulla burocrazia e la politica, permettendo la creazione di singolari meraviglie, ineguagliate negli scenari civile e militare. Ed anche, occasionalmente, la creazione di veri e propri mostri. Definizione che in molti potrebbero scegliere come calzante, al primo sguardo rivolto nei confronti di uno di questi titani semoventi, massima espressione materiale del desiderio imprescindibile di spostarsi in avanti. Talmente grandi, con i loro 150 metri abbondanti di lunghezza, e così pesanti (23.000-25.000 tonnellate) da tagliare letteralmente il mare ghiacciato fino a una profondità di due metri e mezzo, risolvendo letteralmente ed immediatamente qualsiasi empasse. A partire dalla Lenin, prima rappresentante storica di questa classe di navi, a cui spettò il primato di primo vascello atomico civile di superficie, al quale seguirono ben 30 anni di operazioni ed almeno due gravi incidenti, entrambi risolti senza giungere al decommissariamento della nave. Per la costituzione di una leggenda che vive ancora, nello stesso porto di Murmansk dove si trova l’Atomflot, il porto di queste impressionanti navi, con il ruolo acquisito di nave-museo, per l’esposizione e la dimostrazione dell’ineccepibile storia tecnologica del più vasto paese al mondo.
Molto difficilmente, del resto, sarebbe stato possibile giustificare lo smantellamento e il riciclo di una nave dal così alto pregio costruttivo ed un simile lusso dei suoi ambienti di bordo, concettualmente paragonabili a quelli di una nave di epoche lontane. Tanto che una visita alla Lenin, assai chiaramente, costituisce un viale d’accesso diretto ad un tempo ed un metodo tecnologico ormai largamente dimenticati…
La Lenin costituì perciò, fin dal giorno del suo varo nel 1957, un’espressione di quello stesso canone delle opere pubbliche “in onore del popolo”, analoghe all’opulenta metropolitana di Mosca, costruite senza il benché minimo risparmio in materia di rifiniture. Costruita in soli tre anni, quindi dedicata allo storico leader del proletariato, la nave fu impreziosita con numerosi ambienti interni in legno di cedro e noce coreano, con vaste cabine simili a quelle di un prestigioso vascello da crociera. Dovete considerare, a tal proposito, come tali navi dovessero anche costituire nei fatti l’unico servizio passeggeri di superficie operante in quel determinato recesso del pianeta Terra, trovandosi ad ospitare personaggi di primaria importanza storica, come ad esempio Fidel Castro, Yuri Gagarin e il re della Norvegia. L’alternativa di prendere l’aereo era naturalmente sempre presente ma dico, volete mettere? Non capita tutti i giorni, di poter procedere alla velocità di 18 nodi (33 Km/h) nel bel mezzo di ghiacci sconfinati, soltanto apparentemente eterni.
Ciò detto, e come precedentemente accennato, la storia della Lenin non fu affatto priva di incidenti. Il primo incontrato nel febbraio del 1965, quando per un errore umano l’acqua di raffreddamento fu espulsa dal generatore prima che il carburante usato fosse stato adeguatamente smaltito, causando una fusione completa di alcuni degli elementi tecnologici dello stesso, che dovettero essere completamente smontati così com’erano e gettati sul fondo della baia di Tsivolki, dove si trovano tutt’ora. Più significativo fu il caso del 1967, quando una perdita non meglio definita costrinse gli operatori a sfondare a martellate la parete dello scudo di contenimento biologico per fermarla, causando un danno che semplicemente non poteva essere riparato. A seguito del quale, l’unica strada possibile individuata fui rimuovere del tutto i tre reattori, sostituendoli con una coppia dei modelli più affidabili appartenenti alla serie OK-900. Sperando di non ripetere gli errori del passato, quindi, il governo sovietico varò nel 1975 la prima ed omonima nave della classe Arktika, un progetto allungato di 9 metri rispetto ai 134 precedenti, che integrava dal primo giorno il nuovo modello di reattori nucleari. La nave diventò soltanto due anni dopo il primo vascello civile a restare in navigazione per più di un anno di fila, arrivando entro il 2005, anno del suo ritiro dalle operazioni, ad aver coperto oltre un milione di miglia nautiche, un probabile record mondiale. Attualmente ritirata dalle operazioni, la nave si trova anch’essa attraccata presso l’Atomflot, in attesa che si decida se smantellarla o trasformare anche lei in museo. Delle restanti quattro navi della classe Arktika, nonché le due Taymyr, adattamenti perfezionati per l’utilizzo fluviale, almeno due restano tutt’ora operative secondo le agenzie internazionali, costituendo dei veri e propri primati non soltanto in campo navale, ma nell’intera storia dell’energia nucleare. In particolare si ritiene che la Vaygach, ultimata nel 1990 e dotata di un generatore KLT-40M, possa vantare una storia operativa corrente di oltre 177.000 ore, contro le 100.000 previste all’epoca della sua costruzione. Numerose istituzioni ambientaliste di varie nazionalità, a più riprese nel corso degli ultimi anni, hanno protestato contro l’utilizzo continuativo di queste navi, potenziale punto d’origine di future catastrofi del tutto prive di precedenti. Nonostante questo, i vecchi natanti non accennano a sperimentare alcun irreparabile segno di usura. A quanto ci viene detto…
Il futuro delle rompighiaccio nucleari russe è il progetto 22220, la cui prima esponente, anch’essa denominata Arktika (un nome amato a tal punto che l’equipaggio della sua antecedente rifiutò a più riprese, letteralmente di cambiarlo) è stata varata nel novembre del 2013, ma ancora attende di essere messa in servizio entro la fine dell’anno prossimo. A tal punto risulta essere problematica, l’implementazione e la messa in sicurezza di un sistema di propulsione basato sull’uranio. La sua nave sorella Sibir, della stessa lunghezza record di 173 metri, attende ancora di essere completata presso i cantieri navali del Baltico, da dove si unirà alla nuova generazione di coloro che intendono dominare questi mari a settentrione del mondo.
È stato recentemente calcolato che, con il progressivo scioglimento dei ghiacci artici a causa del mutamento climatico, il traffico commerciale in quest’area geografica è destinato a triplicare entro i prossimi 40 anni. Tratteggiando i confini di uno scenario nel quale, finalmente, le ingenti risorse impiegate nel programma decennale della Rosatom potrebbero ripagare ampiamente i loro committenti. Sarà interessante vedere, allora, in che modo reagiranno le classi dirigenti delle altre superpotenze mondiali, da sempre scettiche nei confronti dei processi degenerativi a cui sta andando incontro da tempo questo pianeta sovrasfruttato. Possiamo soltanto sperare che durante tale presa di coscienza storica, in alcuna maniera, venga in mente a qualcuno l’implementazione e l’impiego di nuovi pretesti per giustificare l’uso delle armi.