La sottile linea che divide il genio dalla follia, quel tratto distintivo che caratterizza, ed allo stesso tempo rende vulnerabili, tutte le più grandi menti nella storia dell’umanità. Nel 1882 il filosofo Friedrich Nietzsche scrisse presso la sua casa di Genova, dove si era trasferito a seguito della breve ma travolgente storia d’amore con Lou von Salomé, una breve poesia: “La sfera della scrittura è una cosa che mi assomiglia: fatta d’acciaio / ma facilmente rovinata nei viaggi/ pazienza e tatto sono necessari in abbondanza / oltre a dita sottili per poterci usare.” Questo testo, preservato in originale presso gli archivi Goethe und Schiller di Weimar, scritto sopra una semplice pagina di quaderno, ha qualcosa di molto particolare: è la prima creazione dell’autore scritta a macchina, in lettere maiuscole di una chiarezza e precisione notevolmente superiori a quelle prodotte dalla principale strumentazione di scrittura dell’epoca, la limitata Remington & Sons. Ed è a dire il vero la stessa collocazione geografica di una simile vicenda, a renderla singolare: in quegli anni di cambiamento, l’idea stessa che un dispositivo artificiale potesse sostituire la scrittura con la penna era un’idea considerata altamente improbabile, che iniziava a muovere i primi passi unicamente negli Stati Uniti, dove l’emancipazione della donna come impiegata d’ufficio, nella mansione nascente di segretaria, aveva permesso di associare questo strumento “di facile utilizzo” a una professione tanto nuova e stravagante.
Che uno dei maggiori filosofi della sua epoca, già largamente riconosciuto nel corso della sua vita (merito tutt’altro che scontato) potesse firmare un simile aforisma, lodando con una metafora lo stesso apparato tramite cui lo stava imprimendo su carta, fu fondamentalmente dovuto a due fattori: primo, il fatto che lui stesse soffrendo, in quel periodo, di forti e frequenti emicranie, che lo privavano per giorni interi della capacità di mettere a fuoco chiaramente i testi. Secondo una diceria, il grande uomo di cultura aveva letto e scritto talmente tanto da essere diventato quasi cieco. E secondariamente, il fatto che fosse venuto a conoscenza, attraverso le notizie dei giornali europei, di una straordinaria invenzione, messa a punto dall’ecclesiastico e preside di un istituto per sordomuti della Danimarca, il rinomato Rasmus Malling-Hansen della città di Copenhagen. Un apparato che aveva vinto la medaglia d’oro all’Esibizione Nazionale del suo paese di Arte, Agricoltura e Tecnologia Industriale, prima di replicare il successo presso le fiere di Vienna del 1873 e di Parigi nel 1878, battendo con il suo primo posto la macchina da scrivere opera di Sholes e Glidden, da cui sarebbe provenuta la succitata soluzione americana al problema. E da essa l’intera discendenza futura di tutte le nostre tastiere, sia meccaniche, che digitali e i touchscreen. Quello che non tutti ricordano, tuttavia, è che la stessa disposizione dei tasti QWERTY, tutt’altro che alfabetica, fu il frutto indesiderato di una limitazione tecnica: il fatto che per le prime Remington, l’utilizzo da parte di un tipografo eccessivamente veloce era un biglietto sicuro per l’inceppamento, causa la lunghezza eccessiva delle delicate asticelle al termine delle quali si trovavano i caratteri per la scrittura. Così persino oggi, siamo rallentati nella nostra operatività tipografica da problematiche totalmente irrilevanti. Confrontiamo, dunque, un simile dispositivo con quanto era stato messo a punto dall’inventore danese: la sfera per la scrittura di Malling-Hansen, come sarebbe diventata celebre negli anni a seguire, era un dispositivo molto più compatto, semplice, meccanicamente preciso. Il suo inventore aveva una tale fiducia nel principio alla base del suo funzionamento, che aveva elaborato una tecnica di utilizzo a dieci dita, che permetteva di trasferire i pensieri su carta, a quanto si racconta, con la stessa velocità di un moderno utilizzatore di PC. Secondo le sue biografie, egli aveva avuto l’idea osservando i suoi studenti sordomuti che comunicavano tra loro a gesti, superando di molto la rapidità della voce. Per questo, la sua idea era non soltanto di fornire loro una “voce” per iscritto, ma anche di fornire a tutti gli altri la chiave per una metodologia espressiva irraggiungibile tramite l’apparato fonatorio convenzionale.
Negli anni immediatamente successivi, il filosofo del Nichilismo avrebbe quindi scritto una delle sue opere più famose, Also sprach Zarathustra (Così parlò Zarathustra) una disanima del ruolo di chi possiede informazioni importanti per il popolo, ma deve distruggere le strutture pre-esistenti verso la creazione del superuomo. Considerato il contenuto della sua breve poesia, possiamo intuire che la sua relazione con la nuova macchina da scrivere non fu sempre facile. E in effetti, la sua sfera meccanica, Nietzsche finì letteralmente per odiarla…
Nota: la sfera mostrata in apertura è il modello con alfabeto Braille, creato da Malling-Hansen per assistere i non vedenti nella scrittura.
Sul perché uno strumento tecnologico tanto lodato dai suoi utilizzatori coévi, nonché considerato estremamente avanzato dai posteri, abbia causato tanti problemi al filosofo del Nichilismo sono state avanzate diverse teorie. Quella più accreditata è che la sua sfera per la scrittura, che gli fu spedita direttamente dall’inventore, fosse stata danneggiata durante il trasporto attraverso l’Europa, rovinando il complesso meccanismo basato su un elettromagnete, che permetteva alla carta di scorrere lateralmente e longitudinalmente durante l’utilizzo. Nietzsche dovette rivolgersi in effetti, più volte, ad un ignoto meccanico genovese, che a quanto ci è dato sapere, non conoscendo a fondo l’avveniristico dispositivo, potrebbe aver letteralmente peggiorato le cose. Non è in effetti del tutto impossibile che in quel momento estremamente delicato per l’adozione del nuovo standard di scrittura, il sentito dire derivante da chi aveva scambiato lettere con lo stimato uomo di cultura tedesco, abbia ritardato e contrastato una più rapida propagazione della sfera di Malling-Hansen, contribuendo a farla mettere da parte poco prima che le nuove, inferiori proposte provenienti dagli Stati Uniti riuscissero ad accaparrarsi ogni possibile segmento di mercato. Ci sono momenti, nel corso della storia dell’ingegneria, in cui il caso influenza il corso intero di un’intera branca dello scibile applicato, talvolta accrescendo il guadagno collettivo per l’effetto di una determinata tecnologia. In questo caso, diametralmente opposto, potremmo invece affermare che un servizio postale inefficiente abbia condizionato la scelta di una soluzione piuttosto che un’altra, come all’epoca della videocassetta VHS o Betamax, danneggiando drasticamente una delle due possibili linee temporali.
Già mentre l’invenzione di Sholes e Glidden, perfezionata attraverso l’investimento di molte migliaia di dollari da parte dell’azienda produttrice di armi da fuoco Remington, veniva adottata su larga scala da parte della banca Western Union nel 1870 come metodo per copiare rapidamente i telegrammi, la sfera danese entrava nel suo primo ciclo di produzione, faticando a prendere piede a causa di una drammatica mancanza di fondi. Nonostante la stima dei pari verso la figura del suo inventore, ritratto in più occasioni a convegno con i nobili della sua città, nonché membro di un’importante loggia massonica, nessuno a Copenhagen sembrò pronto a credere alla sua visione con la stessa prontezza degli americani, limitando significativamente la diffusione della sfera. Un apparato, tra l’altro, non semplicissimo da produrre: nella sua configurazione a forma di cupola, non del tutto dissimile da un puntaspilli, erano infatti collocati 54 tasti a molla, ciascuno dei quali montava un carattere deformato ad arte, affinché producesse un’impressione perfetta una volta estruso verso il centro del foglio sottostante, che veniva spostato da un sistema simile allo scappamento di un orologio, mosso da una primitiva, ma efficace, batteria a 10 o 12 celle. L’apparato era inoltre dotato di barra spaziatrice, la capacità d’integrare carta carbone per la copiatura, funzione di linee rientrate per l’inizio dei paragrafi e una campanella, che suonava per segnalare la fine della linea. L’intero meccanismo sferoidale poteva inoltre essere sollevato su un cardine, permettendo all’utilizzatore di gettare uno sguardo sul foglio per notare gli eventuali errori di battitura, qualcosa di letteralmente impossibile all’epoca, quando veniva considerato normale scrivere a macchina senza poter vedere in alcun modo il frutto in corso d’opera del proprio lavoro. Il dispositivo fu più volte perfezionato dal suo inventore, tra gli anni 70 ed 80 del XIX secolo, eliminando ogni possibile imperfezione del meccanismo. Si ritiene che l’esemplare in possesso di Nietzsche, andato perduto, fosse della tipologia più avanzata, dotato di nastro sostituibile per la scrittura a colori. Nonostante questo, il filosofo non imparò mai a cambiarlo, necessitando di rivolgersi ogni volta al suo ignoto consulente e meccanico genovese.
La macchina da scrivere, insieme al telaio meccanico Jacquard del XVII secolo, rappresenta uno dei momenti in cui la tecnologia funzionale dell’industrializzazione apportò dei cambiamenti estremamente significativi alle radici dello stesso concetto di modernità. Non credo sia negabile come, in qualsiasi momento, la combinazione di uno strumento per realizzare in serie gli schemi tessili grazie all’impiego di schede perforate, con qualcosa che fosse capace di produrre parole su carta, avrebbe potuto anticipare di oltre 150 anni l’invenzione del primo computer.
Tuttavia, il nostro destino sarebbe stato un’altro, come fu scritto dal momento in cui il profeta Zarathustra dell’epica di Nietzsche, in realtà l’ersatz di Zoroastro, tornava dalla sua montagna per parlare agli uomini del mercato, proclamando con furia: “Il vostro nemico dovete cercare, e la vostra guerra dovete condurre e per i vostri pensieri! […] Dovete amare la pace come mezzo per nuove guerre.” Ecco, l’abbiamo trovato: il momento esatto in cui il filosofo rinuncia alla sua umanità, scegliendo di andare oltre. Se soltanto i grandi pensatori potessero conoscere la serenità! Allora, probabilmente, ci renderemmo conto che molte delle più lodevoli creazioni non vengono dai trionfi, ma dall’insorgere di una difficoltà. Così impareremmo a trarre, anche noi, ispirazione dai discorsi dei sordomuti. Ed il progresso seguirebbe una strada diversa, rispetto alla continua ricerca di armi “migliori”.