Il capannone della sala d’aste Barrett-Jackson era gremito in quel saliente 2015, in cui Ron Pratte, facoltoso speculatore immobiliare nonché possessore di alcuni dei cimeli più importanti dell’automobilismo statunitense, aveva di nuovo messo in vendita il suo singolo pezzo di maggiore importanza, con grande risonanza mediatica in tutta l’Arizona. La ragione: devolvere una somma, potenzialmente considerevole, alla Fondazione delle Forze Armate, un’associazione benefica che assiste i parenti dei militari in guerra. L’oggetto era lì, adesso, con la sua colorazione di un rosso intenso e il tetto bianco perfettamente lucido, scintillanti cromature, le lettere argentate “GM” che capeggiavano sulla parte frontale neanche fossero il simbolo di un supereroe. E nessuno riusciva, fondamentalmente, a crederci. A tal punto era raro questo concentrato nostalgico di storia americana, anzi pressoché unico considerando il suo stato di conservazione e restauro, vagamente simile alla carlinga di un aereo che fosse stata modificata per circolare su strada. A un certo punto, il battitore cala il suo martelletto, iniziando la tipica cantilena dei venditori al rilancio statunitensi. Lentamente, ma inesorabilmente, il prezzo inizia a levitare: 250.000, 500.000, 900.000 dollari… Poi si passa ai milioni: 1, 2… 4. Eccolo, quindi, il punto di svolta: lo stesso prezzo pagato nove anni prima da quell’uomo d’affari coscienzioso, ovvero il valore stimato apparente, per quanto ci è dato da capire, di un GM Futurliner in piena condizione operativa. Avevate mai visto niente di simile prima d’ora?
Quanto del moderno concetto di bellezza è stato influenzato dagli alterni eventi del XX secolo! L’effetto delle due più drammatiche guerre nella storia dell’umanità, seguiti da progressi impressionanti in ambito aeronautico, spaziale e delle telecomunicazioni. Da cui ha preso forma una trasformazione di una cultura di massa ancora legata ai concetti di eleganza e identità nazionale verso un nuovo modo di vivere, altamente codificato, basato sullo strapotere della necessità. Con evidenti conseguenze a tutti i livelli, partendo dallo stile e l’applicazione stessa del design. Perciò, riuscite ad immaginarvi… Un’ulteriore evoluzione del naturalismo Liberty sposato all’estetica modernista, come quella che ebbe la sua genesi a Parigi, nel corso dell’Esposizione Internazionale di Arti Decorative, in cui la pianificazione è si, assolutamente presente, ma ancora legata alle preferenze individuali e un visibile controllo da parte di colui che progetta, ovvero in altri termini, l’artista di ogni possibile circostanza. C’è una visione ottimista, ed un evidente intento di distinguersi, nella linea aerodinamica del Futurliner, mezzo a motore simile a una corriera, firmato dalla figura cardine per i concetti di ergonomia, funzionalità ed estetica nella General Motors degli scorsi anni ’30 e ’40, il disegnatore Harley J. Earl. E una sorta di ingenuità volontaria, finalizzata alla creazione di un immagine semi-leggendaria, la creazione fantastica che potesse rappresentare, di fronte al pubblico generalista, l’ideale di quello che dovrebbe essere un autobus, prima ancora di quello che effettivamente è. Certo: per questo veicolo non fu mai ipotizzata, neanche lontanamente, una produzione in serie. Per soli 12 esemplari assemblati tra il 1936 e ’40, per un introduzione per lo più concettuale all’epoca della Fiera Mondiale di New York (1939) seguita da una lunga tournée per l’intero territorio degli Stati Uniti, denominata con uno spiccato senso del marketing la Parata del Progresso. Eravamo alle soglie della seconda guerra mondiale, con il paese appena uscito da una profonda crisi economica e nonostante i venti di guerra che iniziavano a montare in Europa, tutto sembrava, per lo meno a breve termine, andare assolutamente per il meglio. La dirigenza della General Motors fece quindi i suoi calcoli, determinando che quello era il momento ideale per proporsi come grande sostenitrice di questa forza incorporea ma pesantemente percepita, dell’inarrestabile attrazione della società civile ad opera del concetto di “futuro”. Considerate, tuttavia, che era ancora l’epoca dei cinegiornali, e senza lo strumento televisivo disponibile in tutte le case, GM su consiglio Harley J. Earl decise di operare nell’unico modo che avesse, fino a quel giorno, funzionato: andare nelle piazze per dimostrare la propria idea. Ed è ovvio che se a farlo fosse stata, ad esempio, una ditta di lavatrici, avrebbe usato autoveicoli perfettamente convenzionali. Ma dato che qui si trattava di uno dei due principali produttori di autoveicoli al mondo assieme a Ford, sembrò giusto farlo con un veicolo che potesse, di per se stesso, restare profondamente impresso nella memoria.
I Futurliner erano enormi, con un peso complessivo di 12 tonnellate per una lunghezza di 10 metri per 2,4 di larghezza. Nonostante il potente motore di produzione militare a 302 cu in (con una potenza paragonabile a quella delle auto sportive di 20 dopo) essi potevano perciò muoversi a una velocità massima di 64 Km/h, guadagnandosi l’appellativo di “elefanti rossi”. L’estetica, con l’evidente cromatura nella parte inferiore, mirava a suggerire un’idea di ricercatezza aerodinamica, allusiva ai due grandi progressi nel campo dei trasporti a memoria d’uomo: la locomotiva e l’aereo, mentre il pilota (pardon, l’autista) sedeva al centro ed in alto, in una cabina che non avrebbe sfigurato in uno di quei bombardieri che avrebbero, di lì a poco, iniziato a devastare l’Europa. Il veicolo era dotato di 8 ruote accoppiate a due a due, ciascuna fornita di uno pneumatico personalizzato con fianco candido e la dicitura “GM’s Parade of Progress” destinata a diventare probabilmente illeggibile, per la polvere e lo sporco, al raggiungimento di un determinato chilometraggio. Eppure, nonostante le dimensioni, l’unico spazio per dei passeggeri si trovava sul retro, in un piccolo scompartimento privo di finestre e fornito di appena un paio di scomode panche. Questo perché, assai prevedibilmente aggiungerei, lo scopo primario dei Futurliner non era affatto quello di trasportare le persone, bensì, meravigliarle.
Ecco, dunque, il momento della verità: ogni qualvolta un’appartenente alla vasta schiera di autisti assunti dalla casa madre raggiungeva una delle piazze segnate sul tour, e una volta parcheggiato il veicolo, la parte superiore del tetto si sollevava verticalmente, accendendo l’insegna luminosa nascosta al suo interno. I suoi mezzi di supporto tiravano fuori le bandiere e le insegne da usare per attirare i passanti. Quindi il fianco della carlinga si apriva, rivelando la ragione stessa della sua esistenza. Ciascuna corriera aveva, in effetti, un “tema” che poteva essere una determinata tecnologia, un aspetto importante della modernità, un commento sullo stato corrente della società umana. C’era, ad esempio il numero 3, intitolato “Potere dell’Epoca Aerea” all’interno del quale un marchingegno meccanico faceva sollevare, in sequenza, alcuni modellini appartenenti alla storia recente dell’aviazione. Oppure quello dedicato ai “Miracoli del Caldo e del Freddo” con dimostrazioni pratiche della nuova tecnologia di climatizzazione dell’aria. Molte delle attrazioni contenute originariamente nelle corriere sono andate perdute mano a mano che esse trovavano nuovi impieghi, lasciandoci il privilegio d’immaginare il contenuto del numero 6 “L’energia e l’uomo” o del 10 “Opportunità per la gioventù”. Almeno in un caso, tuttavia, il diorama è stato recuperato ed esposto presso il museo aziendale General Motors Heritage Center di Detroit, dove si trova in condizione perfettamente funzionante. Si tratta de “I nostri bivi americani” un intrigante modellino rappresentante l’immagine delle campagne statunitense, gradualmente trasformate nelle periferie cittadine, attraverso un sistema che prevedeva il ribaltamento automatico di intere sezioni del piccolo paesaggio, mentre la voce registrata dell’attore Parker Fennelly si lanciava in una breve analisi dell’evento storico e tute le sue possibili implicazioni. Già soltanto osservare un simile apparato all’opera lascia immaginare l’effetto che, indubbiamente, simili show dovevano avere sulla popolazione, non poi così diverso da quello delle prototipiche “carrozze del medico miracoloso” che ancora oggi fanno la loro comparsa nei film sull’epoca del Far West o analoghi territori di frontiera. Con la sola, significativa differenza, che il soggetto della loro palese enunciazione era una panacea reale dello stato dei fatti, a cui tutti avevano effettivamente diritto, con la partecipazione di GM o meno.
La Parata del Progresso ebbe un successo notevole, per le sue due prime edizioni annuali, finché il coinvolgimento diretto degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale a seguito dell’attacco di Pearl Harbor non impose sul paese un’austerità che non lasciava più spazio a simili frivolezze. Mentre il gusto dell’Art Decò veniva abbandonato per un brutalismo della funzionalità bellica, con corrispondenze a tutti i livelli dei trasporti e dell’utilità pubblica, le corriere rosse della General Motors vennero lasciate all’interno dei loro garage, in attesa di un ritorno di tempi migliori. Fu soltanto nel 1953 quindi che, dopo una lunga e costosa opera di restauro, l’evento ebbe modo di essere nuovamente espletato, a seguito di una campagna pubblicitaria che mirava la casa madre a ritornare verso quella posizione di preminenza che gli era, un tempo, appartenuta. I nuovi temi espressi dagli stand semoventi furono, questa volta, progressi scientifici come il motore a reazione, il forno a microonde, il suono stereofonico. L’expo viaggiante andò quindi avanti per qualche tempo, anche se il successo di una volta era ormai soltanto un lontano ricordo. Questo perché a quel punto, esattamente come previsto dai suoi originali ideatori, la tecnologia moderna aveva permeato la vita delle persone, portando in particolare dentro tutte le case proprio quella televisione che fin da principio, aveva costituito un tema facente parte del repertorio di questi stand. Cosicché la gente, che ormai aveva lasciato entrare il mondo stesso dalla finestra elettrica al centro della propria casa, aveva un interesse trascurabile, per non dire nullo, nell’uscire per acquisire qualche nuovo scampolo di conoscenza. E questo valeva sopratutto per le nuove generazioni, un tempo il pubblico più affascinato dai Futurliner. Nel bene e nel male, il mondo era veramente cambiato.
Oggi i nove straordinari autobus superstiti, di cui uno è stato venduto due volte per la cifra succitata di 4 milioni di dollari, costituiscono una sorta di Santo Graal del collezionismo motoristico internazionale. Svariati si trovano in collezioni private, uno è al museo NATMUS di Auburn, un altro ha partecipato al programma di restauro automobilistico Bitchin’ Rides. Il numero 7, ridotto a poco più di un guscio arrugginito, è stato acquistato anni fa da un gruppo di youtuber tedeschi, che prevedono di riportarlo agli antichi fasti entro un periodo di 10 anni. Una missione certamente non facile, che tuttavia merita il nostro encomio. Non capita spesso l’opportunità di toccare con mano la storia. Di mettersi al volante della storia, guidandola su e giù per gli svincoli autostradali. E imprecare di rabbia, quando manovrando la storia, si finisce per impattare la porta del garage, lasciandogli un piccolo graffio sulla carrozzeria.