Dal punto di vista più basilare, un artista lavora con le metafore. Le manovra, come fossero carte di una partita a poker, le accoppia e le separa, assembla tra loro i diversi componenti di un’idea. Ci sono autori che, una volta ottenuta l’ispirazione, non si attardano nel trasferirla all’interno di un oggetto, che tratteggiano, oppure scolpiscono, nel tempo più breve possibile. Altri preferiscono prolungare il momento. Come Ben Ahles di All-is-Art (è chiara l’assonanza?) l’artista il cui autoritratto è un pollo meccanico che fa oscillare in avanti il bacino, e la cui opera più recente, prima di giungere a compimento, ha richiesto un periodo totale di quasi un anno. Mesi e mesi, trascorsi a procurarsi, e quindi incollare tra loro, scatole intere di fiammiferi, facendo affidamento sulla loro forma per arrivare a un particolare obiettivo. L’artista, nel suo momento di illuminazione, aveva in effetti realizzato come ogni cosa che sia asimmetrica, ovvero possegga una “testa” e una “coda”, una volta sovrapposta a se stessa in quantità sufficiente debba in ultima analisi tendere alla forma di una sfera. E che palla, signori miei! Con un diametro di circa 0,75 metri, color verde astroturf, lievemente bitorzoluta. Qualcosa che non sfigurerebbe affatto all’interno di un planetario, tra le rappresentazioni di Marte, Venere e Giove.
Scrutando quindi l’abnorme creazione, disposta pericolosamente sul tavolo della sua officina, una voce ha iniziato a sussurrargli con insistenza. Giacché la metafora, ovvero il punto di quanto aveva creato, non traspariva in maniera sufficientemente chiara: “Sono la Terra. Sono il pianeta su cui vivete. Pronto ad esplodere per l’inquinamento, la guerra, l’inedia delle indistinte civilizzazioni.” O almeno, questo è quello che avrei sentito io. Del resto esiste, persino nel nostro secolo, chi pensa profondamente che il mondo sia piatto, nonostante l’occulta cospirazione dei poteri-forti mirata a farci pensare il contrario. Perché… Chi può dirlo, il perché. È così e basta! Finché un colossale refolo di fiamma, spedito oltre le regioni del cosmo da una supernova distante, non obliteri ogni diatriba residua. Verso l’unica destinazione finale. Che in questo caso, perfettamente adattato al linguaggio del Web, altro non sarebbe che una foresta, nell’inverno dello stato di New York, dove abita l’eclettico nonché misterioso artista originario del Vermont. “Certo…” verrebbe da pensare “Quale migliore luogo, per inscenare col fuoco l’Apocalisse ultima dell’esistenza, che in mezzo ad alberi resinosi, nella solitudine di un luogo dove ogni possibile aiuto è distante.” E se c’era un estintore, io non l’ho visto. Ma per lo meno si è vista la neve. Molta, candida ed omni-pervasiva, valida al fine di ridurre il propagarsi dell’eventuale disastro, implicato dal figurativo gesto che già si profila sul chiaro orizzonte degli eventi. A che serve una torta, del resto, se non viene mangiata. E un gessetto, se non ci scrivi. A che serve un fiammifero che non brucia. “Brucia, dannato, brucia!” Sembra quasi di udire, mentre il Fato avvero, per la prima e seconda volta, sembra tradire Ahles per il soffiar dispettoso del vento. Di certo, qualcuno afferma tra i commentatori, egli avrebbe potuto velocizzare il tutto strofinando direttamente la scatola sopra il globo, nell’inversione della procedura considerata normale, ottenendo più o meno lo stesso risultato dell’ardua comunione tra fonti di fiamma. Oppure, magari, le cose sarebbero andate meglio impiegando la tecnica che prevede l’inversione del fiammifero tenuto in mano, a seguito dell’accensione, affinché il legno bruci per qualche frazione di secondo in più a sostegno dello scopo desiderato. Ma chi può dirlo, forse non era QUELLO, lo scopo desiderato. Magari dev’esserci sofferenza, e dedizione, prima che il mondo cerino si scontri con la fine dei tempi, nella deflagrazione totale delle sue singole molecole costituenti. Ed è così che, finalmente, a partire dall’occhio del bersaglio s’inizia a bruciare, creando l’anello di fuoco che inesorabilmente si espande, propagandosi lungo la superficie della sfera diventata sublime nell’attimo della verità. Il ritmo è stranamente rallentato, per la rapidità con cui l’ossigeno viene sottratto alle prime propaggini del fuoco. Un sentore di zolfo inizia a diffondersi nell’aria tersa della foresta. Niente di meglio del profumo di metafore al mattino, che sveglia gli scoiattoli dal letargo, ricordandogli l’assoluta transitorietà della loro arboricola sussistenza.
A questo punto sarebbe lecito chiedersi, per il naturale istinto della curiosità umana, che tipo di creativo sia, quello che assembla fiammiferi per un anno, prima di andare a bruciarli nell’assoluto silenzio della natura nordamericana in inverno. E la risposta è, per certi versi assai prevedibilmente: contemporaneo e nichilista. Ma anche un po’ Pop, nella sua ricerca degli occasionali riferimenti alla cultura di massa, sempre validi nel lasciar trasparire lo scopo ultimo dei suoi solenni gesti. Come nell’opera di certo affascinante, del castello di cartone con trono di carote, concesse in dono al suo simpatico coniglietto dal muso nero di nome Wallace. L’animale che è arte, nella sua stessa esistenza, diventando così parte integrante di un processo comunicativo che trascende la più semplice disanima dei propri giorni. Perché conigli, e cartone, fin dall’epoca di Bugs Bunny, sono una combinazione vincente. Soprattutto quando la suddetta roccaforte intagliata in chiaro stile medievale, viene poi messa assieme a una misura tale dal trasformare il roditore orecchiuto in una sorta di gigante, che si aggira per i corridoi mangiucchiandone pezzi a piacere. Finché non giunge, finalmente, nella sala del trono, che richiamandosi a quello della più celebre serie fantasy letteraria e televisiva degli ultimi anni, è una composizione finemente intrecciata di… cose distinte. Non più spade fuse dal fuoco di drago, bensì carote tagliate in striscioline sottili, alimento particolarmente desiderabile secondo lo stereotipo cuniculare. Allontanando, dalla mente e dalla memoria, quell’espressione “il mio regno per un cavallo” sostituita con semplice immediatezza da “il mio trono per una cena.” Qualcuno potrebbe persino considerarlo come un preambolo per la catastrofe del pianeta fiammifero, conseguenza moderna dei giochi di potere che hanno iniziato al termine del primo impero frutto della mentalità umana.
Assoluta finalizzazione d’intenti, un filo di ragionamento a volte chiaro, altre rigoroso ed imperscrutabile, mani operose che perseguono l’obiettivo. C’è una vaga somiglianza, tra l’intento operativo di una nazione e ciò che guida colui che assembla i mattoni dell’arte. Il fine prima dei mezzi, perché i mezzi stessi, in un certo senso, costituiscono il fine. E tutto ciò che ne deriva, veicola un messaggio che l’osservatore già possedeva, in forma embrionale, tra le dispense dei suoi pensieri. Tra le altre opere rilevanti alla tesi di Mr. Ahles/All-Is-Art, generosamente mostrate sul suo sito web ufficiale, figura il topo gonfio come una mongolfiera che fluttua all’estremità di una corda, intitolato Elevated Condition, la cui triste esistenza è il risultato di un’inutile spéme di salvezza; ed Home, un’installazione consistente in un nugolo di cuscini sospesi al di sopra di una serie d’insoliti e semoventi arredi: una sedia con antenne cinetiche di compensato, un’armadio che si richiude su se stesso, una strana vetrina piena di calzini, mossi in qualche maniera da una serie di ingranaggi nascosti all’interno. E chi potrebbe mai dubitare che tutto questo, per citare lo stereotipico critico d’arte contemporanea, alluda “alla condizione umana”. Ovvero in altri termini, la non-esistenza di colui che fluttua, al di sopra delle esigenze materialistiche della vita, mentre l’entropia continua a divorare il mondo. Come la forza del nulla che avanza. Chi potrà mai dimenticare, dopo tutto, la tragica fine del cavallo Atreyu, nel film della Storia-Che-Non-Voleva-Finire-Mai…
Ma è alla fine, sempre il fiammifero che ricorre, come la volta in cui Ahles bruciò un vecchio tavolo per le saldature, arredo ormai inutile della stessa officina dove, tante volte in precedenza, aveva creato l’illusione di far fluttuare le cose. Questa volta, per sua e nostra fortuna, in assenza di vento, perché almeno apparentemente al chiuso, benché ciò portasse con se un’ampia serie di differenti problemi. Niente d’insuperabile, sulla sentiero che viene percorso dall’arte.
Perché se “tutto è arte” come ribadisce questo autore nel titolo del suo canale, e dimostra costantemente con l’evidente eclettismo dei suoi gesti, è allora palese che nella distruzione di una sfera di fiammiferi in totale ed apparente solitudine, c’è il segno della fine ma anche il seme di un nuovo inizio. Nel momento in cui l’oggetto, ormai carbonizzato, mantiene ciò non di meno la propria forma, circondata da conturbanti volute di fumo. Come il residuo di un’esplosione cosmica, l’imperscrutabile buco nero. Baratro non percorribile, eppure assolutamente presente, verso galassie e universi che forse non troveremo mai. Con il corpo…