Fluttuando sulle ali nere, il cavaliere della notte, fuoriesce dalle tenebre per porre fine all’intera umanità. Minuscolo, invisibile, se non fosse per colui che lo trasporta. Il chirottero della frutta che si stacca dal soffitto per sfiorare, con le artigliate zampe, la testa della turista olandese. In quel breve momento, con uno scambio d’aria, avviene il passaggio di un microrganismo che fluttua sicuro verso il suo obiettivo. La trasmissione del virus ebola è compiuta. Con l’entusiasmo dubbioso di chi ha visitato un luogo del tutto al di fuori dalla grazia di Dio, la donna quarantenne lascia la caverna ugandese abitata dal nugolo di mammiferi volanti. E senza sospettare nulla, torna nel suo paese d’origine. Trascorrono alcuni giorni. Finché una mattina, non si sveglia con la febbre ed un senso di nausea diffuso. Poche ore dopo, il suo corpo si ricopre di ecchimosi dovuti ad emorragie interne. Neppure il ricovero d’urgenza può salvarla: lei era già morta, quel giorno in Africa, sotto il segno del pipistrello. Cose orribili che abitano nel sottosuolo. Demoni pelosi dallo squittìo innocente. Vittime di un senso d’orrore diffuso da parte degli uomini, talvolta eccessivo, che tuttavia può trovarsi giustificato in determinati luoghi e per alcune valide ragioni. La prima delle quali, è la capacità di trasmettere malattie agli umani.
Eppure, ci sono persone che non temono la morte. Gente fatta di una tempra ulteriore, che in nome di un’obiettivo che considerano importante, o per mera mancanza di prudenza, sfidano ripetutamente la sorte, intenzionati a dare un senso alla scienza odierna e futura. Individui come Richard Oslisly, geo-archeologo dell’Institut de Recherche pour le Développement di Marsiglia, che nel 2008, mentre si trovava in visita nell’Africa Orientale, presso la regione costiera della laguna di Fernan Vaz in Gabon, sentì dai locali la storia di un sistema di caverne molto profondo, a un giorno di marcia nella foresta, occupata da un ecosistema particolarmente interessante. Trascorsa la notte assieme alle sue guide, egli marcia quindi fino all’imbocco dell’antro, dove s’inoltra senza un attimo di esitazione. I locali, presi da un terrore quasi mistico, restano fuori a guardare. Illuminando la scena con la luce della sua torcia, lo scienziato rileva quanto gli era stato già detto: letterali decine di migliaia di pipistrelli, appartenenti a specie come il Rousettus aegyptiacus, l’Hipposideros aff. ruber/Gigas… Ma proprio mentre stava per fare mente locale sull’interessante visione, qualcosa di strano attira la sua attenzione in un angolo della caverna. Un paio di occhi rossi, a quattro metri di distanza, che lo fissano con intensità surreale. Nel frastuono dell’antro, sente un suono impossibile da fraintendere: il soffio nervoso di un coccodrillo.
Dopo una breve visita di conferma l’anno successivo con l’amico speleologo Marco Marti, quindi, egli prese la decisione d’organizzare un vero e proprio team di ricerca, al fine di andare a fondo nella questione. Grazie alla sua reputazione, nonché quella dell’IRD francese, lo scienziato mette assieme una squadra composta da esploratori, biologi e addirittura un chimico, al fine di giungere al nocciolo della questione. L’anno è il 2010. Alla luce delle torce, un poco alla volta, il gruppo inizia il catalogo delle creature che abitano il sistema delle caverna frutto del carsismo, eppure curiosamente priva di stalattiti o stalagmiti. Vengono scovate dozzine di specie, tra cui una miriade d’invertebrati, grilli che ricoprono come un tappeto intere stanze di un simile ambiente. Ma soprattutto, si effettua una stima numerica dei coccodrilli, apparentemente intrappolati per via di alcune frane itercorse nelle tenebre eterne della caverna. Da quanto tempo, non si sa. Ne vengono avvistati e identificati all’incirca 20, su un numero ipotizzato di 50-100, benché fosse difficile evitare di contare lo stesso animale due volte nell’assoluto buio della caverna. Tutti appartenenti alla specie relativamente piccola degli Osteolaemus tetraspis, anche detta dei coccodrilli nani africani. Ne viene trasportato fuori un esemplare eccezionalmente grande, misurante 1,7 metri. Sotto la luce del sole, improvvisamente, appare chiara l’inaspettata verità: il rettile, invece che grigio come vorrebbe la norma, è di un marcato colore arancione intenso, che riflette la luce neanche si trattasse di un gilé catarifrangente. Gli scienziati, di fronte a una simile vista, si affrettano a prelevare campioni di DNA, per effettuare una comparazione con gli altri coccodrilli nani della zona. Una volta acquisito un campione statistico di circa 200, l’analisi degli aplotipi (combinazioni di geni trasmessi da una generazione all’altra) non lascia più alcun dubbio: la popolazione dei coccodrilli sotterranei sta mutando, dando luogo all’evidente nascita di una nuova specie.
Il che d’altra parte, era quello che già sospettavano, principalmente per una singola ragione: i coccodrilli nani, normalmente, hanno bisogno della luce del sole per sopravvivere. Poiché stiamo parlando di animali a sangue freddo, sostanzialmente incapaci di regolare la propria temperatura del corpo, sono in effetti pochissime le popolazioni di coccodrilli o alligatori che vivono nel sottosuolo nel mondo intero e per lo più, tendono a farlo soltanto per dei periodi relativamente brevi della loro esistenza. Nel caso di questi Osteolaemus del Gabon, invece, fu chiaro fin da subito che ci si trovava dinnanzi a una popolazione completamente sotterranea, causa l’impossibilità per gli animali di risalire, per lo meno una volta raggiunta l’età adulta, fino alla superficie della foresta. Diversi punti significativi differivano in loro dall’olotipo di questa specie: piuttosto che nutrirsi di pesci e piccoli crostacei come i loro simili, del tutto assenti nel sistema sotterraneo di Abanda, i rettili si nutrivano infatti d’insetti ed ovviamente, pipistrelli. Una dieta apparentemente più che mai salutare, visto come il team di Oslisly, in breve tempo, fosse riuscito a rilevare condizioni fisiche e dimensioni statisticamente migliori nei piccoli di coccodrilli di caverna rispetto a quelli di superficie. Ma la stranezza principale, che resta tutt’ora irrisolta, era piuttosto un altra: in natura, questi animali hanno normalmente bisogno di vegetazione per fare il nido e deporvi le proprie uova. Nonostante l’analisi approfondita, a nessuno dei membri della spedizione riuscì, né la prima né le successive volte, a trovare delle vie d’accesso verso la foresta da questo luogo del tutto segregato. Come era possibile, dunque, che la popolazione dei cavernicoli continuasse a riprodursi? Con l’unico ingresso disponibile di un pozzo verticale di quasi 7 metri, la spiegazione del loro ciclo vitale era destinata a restare un mistero.
Mentre per quanto concerne la questione del colore giallo, un’ipotesi non tardò ad arrivare. Fu da subito chiaro, in effetti, per i biologi facenti parte del gruppo, che la livrea atipica dei coccodrilli non era dovuta a un tratto genetico, bensì un semplice fattore costante della loro esistenza: quintali, letterali tonnellate di guano di pipistrello. Che mescolandosi con l’acqua, dava l’origine a una sostanza dal pH talmente basso, da agire come una sorta di acido naturale. A cui soltanto la fenomenale capacità di adattamento dei rettili, un anno dopo l’altro, aveva permesso di sviluppare un certo grado d’immunità. Del tutto impossibile, tuttavia, restava mantenere la colorazione grigio-mimetico degli altri coccodrilli nani.
Intrigati dalla serie di sorprendenti scoperte, oltre alla possibilità di assistere alla letterale nascita di una nuova specie, i membri della spedizione si trovarono d’accordo nel ritornare anche l’anno successivo. E quello dopo ancora, per una serie di spedizioni che sarebbe terminata nel 2015, portando alla pubblicazione dell’articolo sulla rivista African Journal of Ecology “Diet and body condition of cave-dwelling dwarf crocodiles in Gabon” (leggibile a questo indirizzo) in cui questo sorprendente ecosistema segreto del Gabon viene sottoposto a disanima ed analisi approfondita. Offrendoci uno sguardo privilegiato su quanto la natura possa, occasionalmente, effettuare una deviazione da quella che potremmo considerare lo stato delle cose vigenti.
In natura, la specie degli Osteolaemus tetraspis è per lo più notturna, timida e sempre attenta all’eventuale presenza di predatori. Caratterizzata, come lascia intuire il nome latino, da quattro placche protettive all’altezza della gola, proprio perché facilmente preda di carnivori più grandi, in funzione delle sue dimensioni che raramente superano il metro e mezzo, coda inclusa. L’ipotesi maggiormente accreditata, di conseguenza, resta quella che i coccodrilli si fossero rifugiati da tempo immemore nel sottosuolo per sfuggire al pericolo di essere divorati. Finendo poi, loro malgrado, per restare intrappolati in eterno a causa dei sommovimenti di detriti del sistema carsico di Abanda. Perciò non è affatto impossibile che tra molti anni, o persino secoli, emerga da una simile casualità una specie del tutto mutata, pallida come la luna e perfettamente in grado di ghermire i pipistrelli in volo, con un agile balzo verso il soffitto della caverna.
E chissà che quel giorno, questa forzosa riduzione della popolazione alata possa bloccare sul nascere la diffusione di un altro virus ebola, ancor più letale di quello che conosciamo. La natura non è nulla, se non efficiente a comprendere le ragioni della contingenza. Creando infinite meraviglie. O infiniti orrori.