La potenza di una nave che non può essere affondata

Le storie degli antichi cavalieri giungono talvolta all’apice in questa maniera: il nostro eroe, circondato dai nemici del regno getta da una parte l’elmo ormai ammaccato e tira fuori dal suo fodero, finalmente, l’arma troppo forte che aveva giurato di non usare mai più. Perché protetta da uno spirito, o da un santo, e per questo costruita con acciaio meteoritico. Entrambi margini davvero significativi di miglioramento. Una spada che non può spezzarsi è sotto molti punti di vista, l’implemento bellico definitivo. Essa potrà penetrare oltre le piastre di un armatura come se fosse fatta di burro. Sarà in grado di deviare il colpo di mazze, alabarde o altre armi molto più pesanti, nonché meno maneggevoli di lei. In duello, devierà il colpo del nemico piegandosi per assorbirlo, per poi riprendere la forma pronta per il colpo successivo, come se non fosse successo alcunché. La ricerca di attrezzi equivalenti nella guerra moderna, storicamente, è stata spesso fatta oggetto di approfondite analisi scientifiche e tecnologiche. Nello scontro tra gli eserciti in divisa mimetica, dove il concetto dell’onore è ormai un lontano ricordo, sarebbero ben pochi a volersi privare di un simile vantaggio in battaglia: sommergibili che non possono essere individuati, aerei troppo rapidi per qualsivoglia intercettore, carri armati impossibili da penetrare tramite l’impiego di munizioni convenzionali. Un’ideale trasformabile, in base alle diverse circostanze d’ingaggio. Che potrebbe aver raggiunto l’apice, in campo navale, nell’epoca remota del 1909. Stiamo parlando di Fort Drum, la pseudo-imbarcazione più resistente che sia mai stata impiegata dall’esercito degli Stati Uniti ed in effetti, il mondo intero.
Teddy Roosevelt, che odiava questo soprannome, fu per molti versi il prototipico eroe americano: grande cacciatore, esploratore, naturalista e soldato, fino al giorno, nel 1901, in cui diventò il 26° presidente del suo grande paese. Ma prima di riuscirci, come molti dei suoi predecessori, avrebbe combattuto strenuamente, mettendo a rischio la sua sopravvivenza in guerra. Quella, nella fattispecie, ispano-americana, combattuta in merito a un tema ritenuto niente meno che fondamentale all’inizio del secolo scorso: l’indipendenza dell’isola di Cuba. Fu così che, in quello che Teddy avrebbe definito “il suo giorno più grande”, lo storico repubblicano guidò all’assalto la carica dei Rough Riders, l’anti-convenzionale e largamente autofinanziato reggimento dalla composizione estremamente eterogenea, lungo il ripido versante della collina di San Juan, 2 Km ad Est di Santiago di Cuba. Egli avrebbe raccontato con orgoglio questa storia nella sua autobiografia, descrivendola come la nemesi di un qualsiasi condottiero europeo: “Qualunque teorico l’avrebbe ritenuto impossibile. Attaccare il nemico ancora in possesso del suo morale e in posizione elevata, dietro formidabili fortificazioni. C’era solamente un modo in cui avrei potuto condurre quegli uomini alla vittoria. E quel modo era mettermi davanti e correre su per la [dannata] collina.” Storia più volte raccontata, ed elogiata nelle classi liceali, mentre comparabilmente molto meno ripetuta è la vicenda personale del suo successore nella carica suprema, quel William Taft che si era formato come politico in un campo totalmente differente. Avvocato, poi giudice, quindi membro di spicco dello stesso partito repubblicano che aveva mantenuto il controllo del paese a seguito dell’assassinio di William McKinley, 25° presidente, da parte di un anarchico al termine del conflitto ispanico-cubano. La prima cosa davvero importante che Taft fece per il suo paese, d’altra parte, avrebbe lasciato un segno estremamente duraturo nella storia dei protettorati d’Oriente: nominato da Roosevelt stesso come capo della Commissione per le Fortificazioni, fu inviato nel 1905 nelle Filippine, dove lo Squadrone Asiatico delle navi da combattimento americane aveva dovuto subire nel corso del conflitto la pressione congiunta delle flotte spagnola e tedesca, vincendo solamente dopo aver fatto fronte a significativi problematiche logistiche e mancanza di rifornimenti. “Mai più” giurò quindi l’allievo del formidabile Teddy, elaborando un piano del tutto privo di precedenti: la costruzione di una serie di forti costieri, armati fino ai denti, che nessun cannone nemico avrebbe potuto facilmente ridurre ai più miti consigli. Tra i quali, quello più formidabile sarebbe stato posizionato proprio sull’isolotto di El Fraille, nella parte meridionale della baia di Manila, non lontano da Corregidor. I tecnici nominati da Taft scelsero quindi, per il caso specifico, una soluzione resuscitata letteralmente dalle pagine della storia militare. Fatta saltare con la dinamite l’intera parte superiore di quel pezzo affiorante di barriera corallina, lo ricoprirono di cemento armato e piastre d’acciaio, creando il guscio più solido che fosse immaginabile da un uomo di marina. Per caso, o del tutto volutamente, il profilo risultante prese un aspetto idrodinamico e marcatamente navale, quasi volesse prendere il largo da un momento all’altro. L’unione tra installazione militare ed isola era ad un tal punto totalizzante, che in effetti non si capiva più dove finiva la natura, ed iniziava l’opera imprendibile dell’uomo.

L’aspetto di Fort Drum all’inizio degli anni ’40 come rappresentato in un modellino giapponese. Gli alloggi per i soldati sarebbero stati successivamente smantellati, per aumentare l’arco di tiro dei cannoni. La torre di controllo del fuoco, invece, sarebbe presto andata distrutta a causa del feroce bombardamento nemico.

Fort Drum nacque dunque come la realizzazione moderna della fregata (o galeone) di pietra, un concetto preso in prestito da nientemeno che la Royal Navy d’Inghilterra. La quale era stata la prima, all’inizio del XIX secolo, a pensare di attribuire un nome iniziante con l’appellativo navale HMS (Her Majesty’s Ship) ad un scoglio, situato a largo di Martinique nelle Antille, con lo scopo di tenere sotto mira ed intimorire le navi francesi. Il concetto, a ben pensarci, è tutt’altro che sconveniente. Da un punto di vista sia organizzativo che funzionale, che necessità ci sarebbe mai stata di modificare i ruoli dell’equipaggio passando da quello di una nave attiva ad una fortificazione fissa? Così il forte-nave di Manila nacque, e prosperò per diverse decadi, finché non sarebbe giunto alla resa dei conti finale. Che giunse, come per innumerevoli altre istituzioni militari, all’avviarsi della serie di conflitti e sanguinose battaglie nota come seconda guerra mondiale. Il 7 dicembre del 1941, i giapponesi attaccano sorpresa la base americana di Pearl Harbor, precipitando una situazione d’attrito che ormai andava avanti da parecchi anni. Pochissimi giorni dopo, secondo il piano preciso elaborato dall’ammiraglio Tojo, una forza composta da circa 130.000 soldati, 90 carri armati e 541 aerei assale le postazioni statunitensi sulle isole di Luzon, Camigui, Vigan, Aparri e Gonzaga, sottoponendole a una pressione che difficilmente avrebbero potuto sopportare. Fu allora che nacque, sulla base del puro e semplice bisogno, la nuova norma dell’Island Hopping, ovvero muovere rapidamente le proprie forze da un’isola all’altra, non esitando a ritirarsi, qualora se ne presentasse la necessità. Fu così che i giapponesi presero le Filippine. Tutte quante, esclusa una manciata di isolette. Quelle che erano state fortificate, tanti anni prima, dalla commissione di Taft. Ora non è chiaro, che cosa trattenne dal ritirarsi quel manipolo d’uomini già condannati dalle circostanze. Se si trattò di un qualche tipo di eroismo, o un semplice ritardo nella presa di coscienza dei comandanti. Fatto sta che a seguito della battaglia, sarebbe iniziato uno degli ultimi veri assedi nella storia della guerra. Completo di bombardamenti reciproci, più tentativi d’assalto. Un ribaltamento dei ruoli. E un drammatico, apocalittico esito finale.
Passarono diversi mesi, durante i quali i riflettori e le mitragliatrici di Fort Drum disturbavano le operazioni di bombardamento costiero, e suoi due cannoni principali M1909 da 356 mm e 17 Km di gittata, chiamati Marshall e Wilson, fornivano supporto alle truppe, grazie alla triangolazione offerta da alcuni distaccamenti rimasti sulla terra ferma. Il primo tentativo di far tacere per sempre Fort Drum sarebbe giunto il 13 febbraio del 1942, quando una nave passeggeri catturata dal nemico si avvicinò a “poppa” dell’isola-nave, nel tentativo di trovare un punto cieco nelle sue difese. Fu allora che una bocca di fuoco ausiliaria da 76 mm, installato proprio la notte prima, diventò il primo pezzo d’artiglieria americano a fare fuoco su un’imbarcazione giapponese. Nel corso delle successive battaglie il vecchio fortino fu sottoposto a feroci bombardamenti da ogni direzione mediante l’impiego di howitzer da 240 mm, senza tuttavia riuscire a penetrare le pareti spesse in alcuni punti più di 6 metri e disabilitando in maniera soltanto temporanea i suoi cannoni pesantemente corazzati. Dell’intero equipaggio americano, nessuno restò ucciso e ci furono soltanto due feriti, benché i veterani che sarebbero usciti indenni dalla guerra raccontarono una storia semplicemente infernale, con l’intera isola che vibrava come colpita da un terremoto, mentre frammenti di cemento ed acciaio venivano letteralmente scagliati in tutte le direzioni. Nonostante questo, Fort Drum riuscì a resistere fino a maggio del 1942, quando aprì nuovamente il fuoco contro la seconda ondata delle forze di occupazione dell’isola di Corregidor. Ed avrebbe probabilmente, resistito ancora, se non per il tipico ultimo capitolo di qualsiasi assedio: i soldati all’interno, purtroppo, avevano finito l’acqua da bere. Così, a malincuore, si arresero. Ma non prima di aver drenato tutto l’olio dai cannoni, facendoli sparare un’ultima volta e mandandoli così letteralmente in frantumi. Gli autori di una simile strenua resistenza vennero quindi presi prigionieri e trasportati da un’isola all’altra nel corso delle alterne vicende della guerra del Pacifico. Dei 428 membri del battaglione 59°, soltanto 28 avrebbero fatto ritorno in patria.

Oggi Fort Drum costituisce una significativa attrazione turistica della sua zona, con un accesso severamente regolamentato da parte delle istituzioni. Soltanto uno dei due cannoni si trova ancora in posizione mentre l’altro, fatto saltare per aria al momento della conquista giapponese, è ricaduto all’interno della struttura.

E questa avrebbe potuto essere la fine della nostra storia se non che, come ci insegna la storia, raramente un valido castello viene davvero abbandonato. Così che gli americani, attraverso la serie di significative vittorie conseguite da un lato all’altro del più grande oceano terrestre, ritornarono, finalmente, nel territorio delle Filippine. E nel 1945, durante l’offensiva per la ricattura di Manila, si ritrovarono di nuovo al cospetto della nave di pietra e cemento di William Taft, questa volta dalla parte sbagliata di quelle imprendibili mura. Per loro fortuna, i cannoni non erano mai stati rimpiazzati dai giapponesi. Il problema di come sbaragliare le truppe asserragliate all’interno, tuttavia, non avrebbe trovato una semplice soluzione. Se non che ad uno dei membri della nuova spedizione, il tenente colonnello del 38° Fred C. Dyer, presente alla presa dei bunker nemici presso l’isola di Caballo, venne la più risolutiva e drastica delle idee. Attrezzando una Nave da Sbarco Media con delle manichette antincendio, i soldati dotarono l’imbarcazione di un serbatoio con una miscela di diesel e benzina estremamente infiammabile. Quindi, una volta eliminati i cecchini del forte, vi si avvicinarono e lo innaffiarono letteralmente di un simile liquido nefasto. Ogni passo dell’operazione era stato organizzato e condotto con efficienza da manuale. Furono aggiunti degli esplosivi nei punti chiave della struttura, perfettamente noti ai genieri americani. Quindi una volta raggiunta la distanza di sicurezza con la nave, si fece fuoco contro il bersaglio mediante l’impiego delle munizioni traccianti. Ci fu un’esplosione e l’isola prese fuoco. Il liquido ardente penetrò nelle prese d’aria, nelle feritoie e in ogni possibile apertura, soffocando e bruciando vivi gli uomini all’interno. Dal punto di vista dei vincitori, questa volta, non era più tempo di prendere prigionieri. E così ebbe fine, in maniera pressoché totale, la guerra del Pacifico nelle Filippine. Nonché l’ultima e più possente tra tutte le navi di pietra.
Sarebbe stato possibile adottare una soluzione alternativa? I soldati, ormai privi di armamento a lungo raggio, potevano essere lasciati là dentro a morire di fame? Avrebbero mai accettato, simili samurai redivivi alla presa del tempio di Honno-ji, di deporre tranquillamente le armi? Difficile giungere ad un qualche tipo di conclusione acclarata. Come sarebbe avvenuto di lì a poco con lo sgancio delle due atomiche, esistono decisioni che cancellano ogni possibile alternativa dal corso della Storia. Scelte che vengono prese, per lo più, in tempo di guerra. Ed è proprio questo il principale rischio, e la più grave conseguenza, della peggiore fra tutte le attività umane.

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