Avete mai avuto la sensazione, vestendovi prima di un importante colloquio di lavoro, di essere dei guerrieri che si preparano alla battaglia? Si tratta di un’associazione di pensieri tutt’altro che rara, quando si considera il ricco repertorio dell’immaginario fantastico contemporaneo. Attraverso cui, la camicia può diventare una sorta di cotta di maglia, mentre la giacca è la corazza in piastre d’acciaio che protegge i valorosi nel caos della mischia. La borsa con il curriculum, facente funzioni di scudo durante uno stringente duello ed infine la cravatta… Avrete di certo notato quella forma suggestivo, in grado di riprendere ed enfatizzare la linea di una spada appartenente al Medioevo europeo. Personalmente, non credo affatto si tratti di un caso. Ma le sfide della vita non iniziano e finiscono con questa specifica circostanza. Poiché prima di allora, ciascuno di noi ha dovuto affrontare l’ambiente scolastico e universitario, dove l’abito formale era facoltativo, eppure vigeva un altro tipo di standard autoimposto nell’abbigliamento dei giovani. Valido estate e inverno, con la pioggia e con il sole. Essenzialmente unisex, benché i due generi spesso finiscano per preferire un taglio specifico che si adatti alle forme del loro corpo. Sto parlando di loro: i blue jeans, il capo di vestiario inventato nel 1871 da Jacob Davis, per poi essere brevettato due anni dopo assieme all’imprenditore statunitense Levi Strauss.
Potrebbe perciò stupirvi come, assai prima dell’invenzione del color indaco moderno, usato per tingere il tessuto denim a partire da un simile momento di svolta della moda contemporanea, quel particolare colore fosse stato associato proprio ad una celebre casta di guerrieri: niente meno che i samurai giapponesi, cultori di un’ideale di vita e una particolare visione del mondo secondo cui persino la morte era accettabile, prima del disonore. La triste dipartita, ma non lo stato di malattia o sofferenza, che avrebbero impedito al guerriero di assecondare adeguatamente il volere del suo signore, partecipando alle successive campagne militari. Ragione per cui, sotto le protezioni in metallo, stoffa e legno di bambù dell’armatura tradizionale, era l’usanza del tempo indossare un capo color indaco, la cui particolare tintura si riteneva potesse difendere il corpo dalle infezioni delle eventuali ferite inferte dal proprio nemico. Si trattava di un potere magico in qualche modo razionalizzato, derivante dal prestigio di una lunga e costosa lavorazione, alla base di una tonalità che non tutti potevano permettersi, benché fosse intrinsecamente legata all’artigianato del territorio. Quello che non tutti sanno infatti è che la tintura dell’indaco, ancor prima dell’odierna combinazione chimica tra benzene, formaldeide e acido cianidrico (tutte sostanze non proprio benefiche per la salute umana) derivava effettivamente da una serie di piante nella fattispecie appartenenti, per l’appunto, al genere delle Indigofere. Originarie in massima parte dell’India, alcune regioni dell’Africa e del Sud-Est Asiatico e di cui si fece un commercio assai redditizio per l’intera epoca rinascimentale. Verso molti paesi ma non il Giappone, che già possedeva una valida alternativa: la Polygonum tinctorium o persicaria tinctoria, importata sull’arcipelago probabilmente già dai tempi della dinastia cinese degli Zhou (1045-771 a. C.) e coltivata soprattutto, con invidiabile successo, sull’isola meridionale dello Shikoku, nell’area della prefettura di Tokushima. Questa pianta, nota localmente col termine di sukumo, fu alla base di una tradizione artigianale che si estende per molti secoli, in grado di raggiungere il suo apice verso l’ultima parte del XV secolo, quando nel corso delle sanguinose guerre civili da cui emerse la lunga pace degli shogun Tokugawa, iniziò ad essere piuttosto frequente la vista dei samurai sul campo di battaglia vestiti in parte, o completamente di colori tendenti al blu. Pensate ad esempio alle figure storiche di Date Masamune, con il suo elmo recante l’astro lunare, e l’armatura di un azzurro intenso. O all’armatura cornuta di un indaco lucido di Uesugi Kenshin, il signore della guerra ribelle che fu la nemesi prima del grande Takeda, poi di Oda Nobunaga in persona, che secondo alcuni avrebbe sconfitto, se non fosse stato per la malattia che l’avrebbe condotto alla morte. Le piante, si sa, non possono curare tutti i malanni. Ma a seguito di un’adeguata lavorazione, possono far molto per migliorare la qualità della vita degli umani…
Ciò detto, la lavorazione della pianta di sukumo per la creazione di questa specifica tonalità non è esattamente una prassi che si possa apprendere e mettere in pratica da un momento all’altro. Ragione per cui, analogamente a quanto viene generalmente attribuito a molti campi artigianali e tecniche giapponesi, si ritiene opportuno che i suoi praticanti la apprendano attraverso il sistema di apprendistato diretto, generalmente a partire da un loro stesso familiare. Questo approccio, che ha notoriamente consentito di mantenere invariate per quasi un millennio pratiche artistiche o artigianali dei più svariati tipi, come ad esempio la creazione dell’imprescindibile katana (più che mai utile in questi giorni di onerose incertezze) ha però almeno un importante risvolto negativo. Il fatto che, con il trascorrere di molti anni, può anche succedere che l’erede designato decida dopo tutto nel corso della sua vita d’occuparsi d’altro. Facendo si che, una generazione dopo l’altra, i depositari dell’antica arte tendono ad essere sempre di meno. Il che, del resto, dona ai loro prodotti un alone di prestigio che spesso sfocia a pieno titolo nell’ambito dei veri e propri tesori culturali, con tanto di designazione ufficiale da parte dello stato.
Una qualifica che oggi viene attribuita alla tecnica dell’aizomi (letteralmente: produzione dell’indaco) della prefettura di Tokushima, di cui sono rimasti solamente quattro produttori che si possano definire DOC, ovvero in grado di dimostrare la correttezza di ogni singolo punto della loro filiera. La ragione è chiaramente economica oltre che, come precedentemente accennato, legato a dinamiche di tipo sociale. I loro kimono cerulei in effetti, le stoffe, le giacche e le tende… Dovranno necessariamente essere vendute ad un prezzo superiore rispetto ai prodotti di quel colore frutto dell’odierno approccio industriale, vista la complessità di un approccio di lavorazione che è stato poeticamente definito, già in precedenza, “infernale”. Riferendosi così non soltanto all’odore pungente, del tutto inevitabile considerato il ruolo svolto nell’intera faccenda dal processo di fermentazione, ma anche alla notevole fatica, ed impegno, richiesto per mesi agli agricoltori/preparatori di questa tinta sempre più rara e preziosa. Tutto inizia, inevitabilmente, con il raccolto, che viene attuato generalmente al termine della stagione piovosa (tsuyu) all’inizio dell’estate. Le foglie risultanti, quindi, vengono trasportate all’interno di un magazzino dove con l’ausilio di grandi ventilatori, si separano quelle più piccole e morbide dalle alternative, affinché ciascuna varietà possa essere stagionata per il tempo ritenuto corretto. A questo punto la materia vegetale viene essiccata al sole, prima di essere posta in delle apposite balle in cui rimarrà per circa un mese. Trascorso il tempo adeguato, le foglie vengono tirate fuori e bagnate con acqua, un passaggio a seguito del quale gli addetti dovranno mettersi a rimescolarle periodicamente, con appositi bastoni, per un periodo che potrà raggiungere anche i 100-120 giorni. Si tratta del passaggio definito kirikaeshi, durante il quale l’aria del magazzino diventerà praticamente irrespirabile, per l’emanazione spontanea di gas d’ammoniaca, sprigionato dai batteri che si occupano di far fermentare la pianta di sukumo. Appositi rotoli di paglia, chiamati bozu, verranno introdotti per aiutare a regolare la temperatura, che dovrà necessariamente rimanere su dei valori attentamente definiti. Successivamente, una volta spostata la risultante poltiglia in appositi contenitori (“recipienti infernali”) l’artigiano/agricoltore, secondo metodologie tramandate da secoli nella sua famiglia, dovrà aggiungere le giuste quantità di crusca (per nutrire i microrganismi all’interno) cenere ed idrossido di calcio, al fine di mantenere adeguata l’acidità della mistura. Se tutto è stato effettuato secondo il giusto metodo, a quel punto, la sostanza nera nei contenitori svilupperà un processo di alcalinizzazione, dal quale verrà sprigionata la sostanza dell’indigotina. Una volta rimosse le scorie mediante un processo di filtratura, la tinta sarà quindi pronta per l’uso.
Perciò che siate dei soldati o coraggiosi guerrieri, condotti dai risvolti della vita ad affrontare le sfide di scuola o lavoro, è sempre utile ricordare che ogni singola tonalità di vestiario ha una lunga e significativa vicenda storica in qualche paese lontano.
Difficile, dopo tutto, negarlo: ciascuno di noi, una volta che avremo fatto l’ingresso in un’organizzazione composta e guidata da persone adulte, dovrà accettare di vivere in qualche misura alla stregua di un samurai. Aderendo a un codice comportamentale e una propria serietà professionale, e accettando con tutto il suo essere l’imposizione inevitabile dell’autorità. Ragione per cui, dovremmo essere lieti di poterci vestire d’indaco, ogni volta che ce ne viene offerta la possibilità. Per lo meno quel mistico colore, secondo le credenze medicinali del folklore nipponico, potrà proteggerci dalle più gravi e durature conseguenze dei colpi ricevuti in battaglia. *Risultati per lo più metaforici, consultare il medico in tutti casi in cui siano effettivamente implicati dei colpi vibrati con spade o altri implementi di metallo. **Accidenti, ma con chi l’avete fatto il colloquio?
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