“Un hamburger morso da un lato, con un’oliva sopra tenuta ferma da uno stuzzicadenti” per quanto prosaica possa apparire questa descrizione di quella che potrebbe essere l’astronave di fantasia più famosa al mondo, simbolo iconico della saga di Guerre Stellari, è indubbio che renda l’idea in maniera piuttosto efficiente. Essa si allinea, inoltre, al luogo comune secondo cui i grandi creativi tendano ad avere le loro idee durante l’ora di pranzo, scarabocchiandole alla ben’è meglio su un tovagliolo che sia possibilmente, ma non necessariamente usa-e-getta. C’è un documento scritto, tuttavia, che sfata immediatamente questa leggenda: il foglio di bloc-notes fornito da George Lucas in persona a Colin Cantwell, il designer cinematografico di modellini che avrebbe curato la realizzazione dei principali velivoli del primo film. In esso, la versione preliminare della “nave pirata”, come era ancora definita in quella fase, aveva una forma affusolata con dei grandi motori e una cabina di comando che si allargava in punta. In un secondo momento, tuttavia, il regista decise di utilizzare questo particolare progetto per un’altro ruolo, quello della Corvetta della principessa, catturata dal gigantesco Star Destroyer nella scena di apertura del film. La forma che noi tutti conosciamo, simile a un disco volante, sarebbe quindi stata rielaborata in tutta fretta prima della sua scena d’esordio, con un processo creativo che resta largamente ignoto. Il che non ha impedito, negli anni, la speculazione dei fan. La prima possibile fonte d’ispirazione è stata individuata nel corso degli anni, notoriamente, nella cabina di comando, del tutto simile a quella del bombardiere americano della seconda guerra mondiale, il B-29 o Fortezza Volante. Ben pochi, tuttavia, hanno tentato di ricondurre la forma generale dell’astronave a un aereo effettivamente esistente. Perché in effetti, riuscite ad immaginare qualcosa di meno aerodinamico? Niente, assolutamente nulla, potrebbe mai staccarsi da terra essendo stato costruito a quel modo. Eppure…
Il Bartini Beriev VVA-14 fu costruito, in forma di prototipo, nel 1972, grazie all’opera del progettista e fisico italiano Roberto Oros di Bartini, emigrato in Russia a seguito della prima guerra mondiale. Una figura che ebbe un’influenza monumentale sulla storia dell’aviazione di quel paese, dopo aver lasciato la propria patria per non essere perseguitato dal fascismo, a causa della sua vicinanza al Partito Comunista Italiano. Questo fu l’aereo che rappresentava, in termini cronologici, il culmine finale della sua lunga carriera, incorporando molte delle idee avveniristiche messe in pratica nel corso degli anni, soltanto due anni prima di passare a miglior vita all’età di 77 anni. Volendo sintetizzare in una singola espressione il suo stile progettuale, Bartini fu la figura del primo ingegnere che abbandonava l’approccio largamente empirico usato dai suoi colleghi fino a quel momento, facendo un uso puntuale e totalizzante del calcolo matematico applicato all’ingegneria. Questo gli permise di affrontare i problemi con un approccio multiplo, mirato a migliorare le prestazioni degli aerei su più fronti allo stesso tempo. Non sempre, le soluzioni da lui preferite avevano un’efficacia palese agli occhi dei non iniziati. Ne è il lampante esempio questo vero e proprio mostro dei cieli, che fu costruito con l’assistenza dell’azienda pubblica Beriev, specializzata in aeroplani anfibi. La ragione di una tale scelta va individuata nell’obiettivo di fondo dell’intera questione: fornire all’Unione Sovietica un mezzo che potesse contrastare, in qualche maniera, i nuovi missili di classe Polaris schierati coi sommergibili dal temuto nemico americano, possibilmente andando ad affondare direttamente i temuti “battelli invisibili” disseminati negli oceani della Terra. E affinché potesse far questo, i requisiti prestazionali erano piuttosto significativi: occorreva un velivolo che potesse atterrare in mare con qualsiasi condizione meteorologica, decollando con un minimo preavviso. Esso doveva poter volare a bassissima quota, portando a bordo un’alta quantità di armi e munizioni. Proprio per questo, il “barone rosso italiano” come lo chiamavano per la sua ascendenza nobiliare, pensò fin da subito alla soluzione dell’ekranoplano. Un velivolo la cui forma più pienamente realizzata fino ad allora si trovava di stanza nel Mar Caspio, col nome ufficiale di Korabl Maket, ovvero “aereo sperimentale” (vedi precedente articolo sull’argomento) famoso per la sua capacità di volare grazie al cuscino d’aria creato dal cosiddetto effetto suolo. La sua versione, tuttavia, avrebbe dovuto poter volare anche ad alte quote e velocità, per raggiungere in breve tempo l’area in cui era stato individuato il sottomarino nemico. Ciò che ne derivò, fu qualcosa che il mondo non aveva semplicemente mai visto prima…
Il Bartini-Beriev nasce da un punto di vista concettuale attraverso il sistema degli OKB (Opytnoe konstructorskoe bjuro) gli uffici di progettazione sperimentale, delle istituzioni formali create dal governo di Mosca, che riunivano gruppi di tecnici ed assistenti sotto la guida di rinomati ingegneri dell’epoca della guerra fredda. L’ingegnere italiano, che ne aveva guidato diversi a partire dagli anni ’30, si era più volte lamentato del modo in cui simili istituzioni creassero un clima spiacevolmente competitivo, in cui si nutrivano rivalità reciproche e vere e proprie faide generazionali tra i fautori di una diversa idea. Ciononostante, gli era più volte riuscito di condurre il suo gruppo a notevoli successi, come la produzione del bombardiere Idrovolante MTB-2 o il caccia sperimentale in cromo-molibdeno Stahl-6. Nel 1938, nonostante questo, con l’inizio dell’epoca del terrore stalinista, Bartini fu temporaneamente imprigionato, a causa delle idee politiche considerate sediziose. L’agosto dell’anno successivo tuttavia, per sua fortuna, il suo Stahl 7 (un bimotore per il trasporto passeggeri) stabilì il nuovo primato mondiale di velocità volando 450 Km/h per un tragitto di 5.000 Km. Fu evidente del tutto palese, a quel punto, che si trattava di una figura troppo valida per tenerla immobilizzata tra quattro mura, e il grande ingegnere fu di nuovo messo al lavoro. Nel corso della seconda guerra mondiale, Bartini venne integrato nell’OKB-4, dove collaborò al fine di creare uno dei primi velivoli a reazione, concettualmente non dissimile dall’aereo sperimentale tedesco Me 163 Komet. Anche il suo R-114, tuttavia, non entrò mai in produzione, causa il termine della guerra e la chiusura, per lo meno a brevissimo termine, delle più gravose ostilità internazionali.
Dopo aver tentato di proporre alcune macchine volanti di grandi dimensioni che non incontrarono l’entusiasmo dei militari, Bartini ricevette il nuovo incarico ufficiale, per la creazione di quello che sarebbe passato alla storia come il suo più strano e famoso aereo. Il velivolo anfibio, definito in un primo momento progetto M, aveva una configurazione a catamarano, con due scafi galleggianti ed una cabina di comando centrale, il tutto spinto in aria da una coppia di possenti turboventole Soloviev D-30, in grado di spingerlo fino alla notevole velocità di 760 Km/h. Il progetto di Bartini ebbe modo di procedere, inizialmente, in due fasi distinte: il VVA-14M1, primo modello, costituiva una prova pratica di quanto stabilito con i suoi calcoli e sul tavolo da disegno. Si trattava di un aereo preliminare, dal già considerevole peso di circa 20 tonnellate, sul quale furono testati due tipi di galleggianti, rigido e gonfiabile. Venne scelto alla fine il primo, causa la tendenza a deformarsi della seconda soluzione, ben presto accantonata. Con il VVA-14M2, Bartini passò ad un maggior grado di sofisticazione, aggiungendo due ulteriori motori usati solamente per il decollo breve, fornendo il velivolo di un sistema fly-by-wire ed equipaggiandolo di tutto punto per un ipotetico impiego operativo. La versione definitiva dell’aereo, tuttavia, designata VVA-14M1P, non fu mai portata a compimento. In essa si sarebbero stati aggiunti 12 piccoli ugelli a reazione nella parte inferiore, per permettere al mezzo di decollare in maniera perfettamente perpendicolare al suolo. Ciò affinché, contrariamente agli altri idrovolanti, non fosse bloccato in caso di onde eccessivamente alte. Tale specifico miglioramento, tuttavia, non fu mai implementato prima del decesso del progettista, causa ritardi nella fornitura logistica degli apparati richiesti. I primi test di volo anfibi, nonostante questo, ebbero inizio nel 1975.
Anfibio, versatile, veloce, potente. Dal punto di ciò di quello che avrebbe potuto fare, l’aereo del barone italiano naturalizzato col nome russo di Lûdvigovič (per l’ideale sovietico, non era possibile rivendicare titoli nobiliari) non era poi così distante dal concetto di una strabiliante astronave del mondo della fantascienza. Il caso, e l’inesorabile termine della sua vita, vollero tuttavia che esso non potesse mai raggiungere la sua piena potenzialità. Per lo meno, nel mondo fisico delle cose vere.
A quanto ricordo, il mercantile corelliano appartenuto sugli schermi all’esimio Harrison Ford, canaglia spaziale, è perfettamente in grado di decollare in verticale. È tutto molto più facile per gli uomini di buona (o spregiudicata) volontà ingegneristica, quando si sceglie di operare nel regno della più pura e fantastica immaginazione. Un aereo del tutto indistinguibile dal VVA-14 viene usato dal protagonista Snake ed EVA per fuggire da Tselinoyarsk in Alaska, nel videogioco di spionaggio Metal Gear Solid 3. Alcuni affermano, inoltre, che proprio questo stesso velivolo potrebbe costituire la base dell’eponima nave spaziale della serie Tv di fantascienza Firefly. Quasi come se la forma dell’aereo in questione, apparentemente troppo distante dall’aerodinamica convenzionale, dovesse renderlo inadatto al volo atmosferico sui cieli di questa Terra. La Storia ne costituisce, invece, la prova: non c’è niente di più lontano dalla verità.