Nel XIX secolo l’occasione di osservare da vicino animali provenienti da lontano non si presentava particolarmente spesso. Con la sola eccezione dei soldati, dei mercanti viaggiatori e dei diplomatici, la gente viveva ancora in una bolla, mantenuta solida dall’assenza di comunicazioni, trasporto a lungo raggio, persino valide ragioni per rischiare la propria incolumità e salute, affidandosi all’ambiente non propriamente salubre di un vecchio veliero o imbarcazione a vapore. Perciò quando i visitatori della casa del naturalista, dottore e zoologo Thomas C. Jerdon facevano la conoscenza con il gatto che manteneva i suoi solai liberi dai numerosi scoiattoli di Hastings, nel Sussex, non c’erano molti che s’interrogassero in modo particolare sulla sua provenienza. Del resto, non era sempre facile sottrarre la scena alla sua lontra ed al vero e proprio pitone, che con sguardo minaccioso scrutava i commensali, all’apparenza meditando su chi avrebbe tentato di stritolare prima dell’ora del tè. Ma a tutti coloro che, da quella tavola imbandita, veniva in mente di attrarre lo scaltro felino con qualche boccone proteso verso il pavimento, nella speranza di riuscire ad accarezzarlo, la verità iniziava a palesarsi un poco alla volta. Per prima cosa, il felino in questione appariva particolarmente minuto. Non tanto in termini di lunghezza (40-45 cm, dopo tutto, non sono particolarmente atipici) ma per l’altezza da terra e la costituzione, che ad occhio permettevano di stimare il suo peso a circa un terzo rispetto al normale. Anche la colorazione era diversa, con un susseguirsi di macchie disposte a partire dalla testa e fin quasi all’attaccatura della coda. La forma della testa, infine, era strana, con un cranio lievemente più aerodinamico ed allungato verso la parte posteriore. In altri termini, si trattava di un gatto alieno.
Non extraterrestre, s’intende, bensì proveniente da una terra lontana, un luogo che Jerdon aveva conosciuto fin troppo bene durante la lunga trasferta nel distretto di Ganjam come membro della stessa associazione naturalistica di Charles Darwin, vissuta nel tentativo di alleviare la sofferenza delle truppe di occupazione inglesi, causata da un quasi costante stato di dissenteria. Nei quattro anni successivi al 1837, quindi era vissuto laggiù, conoscendo tra gli altri il piccolo gatto che aveva, successivamente, riportato in patria. Le cronache e le biografie, purtroppo, non ci svelano il nome dell’animale, ma possiamo fortunatamente dire di aver compreso perfettamente la sua specie di appartenenza: Prionailurus rubiginosus, ovvero, il gatto rugginoso, un’altro esponente della stessa categoria di piccoli predatori popolata dal gatto dai piedi neri (Felis nigripes) il gatto pescatore (Prionailurus viverrinus) e/o lo stesso gatto leopardo del Bengala (Prionailurus bengalensis). Creature create dall’evoluzione non tanto per dominare una specifica nicchia, quanto diventare i veri e propri signori del loro ecosistema, in grado di catturare e fagocitare pressoché qualsiasi essere vivente fosse a portata di zampa, potendo contare su una massa fisicamente inferiore alla loro. Tra cui: roditori, uccelli, lucertole, rane e insetti. Mentre la loro strategia, nel tentativo di sfuggire ai predatori, era sempre più o meno la stessa: arrampicandosi sugli alberi, facendo affidamento sui loro artigli sicuri ed affilati. In tempi più moderni quindi, a causa della sua abitudine di cacciare sul terreno coltivato, dove i rifugi per le prede sono inerentemente in quantità inferiore, il felino in questione si è trovato in condizioni di conflitto con le popolazioni locali, anche per l’abitudine non proprio gradevole di intrufolarsi nei pollai, con conseguenze fin troppo facili da immaginare. Generalmente lontano dalla coscienza ecologica del senso comune, questo animale sta godendo di un periodo di fama su Internet grazie al video diffuso dalla BBC, per promuovere la sua nuova serie di documentari “Big Cats” (benché nel caso specifico, non si tratti esattamente di un “Big”…)
Il gatto rugginoso, benché si sospetti abbia subito un calo di popolazione sulla base di alcune analisi statistiche e matematiche, non è ancora stato inserito nell’indice delle specie a rischio. Questo principalmente per l’efficienza e il rateo di successo della loro prassi riproduttiva, non del tutto dissimile da quella del gatto domestico, con 5 o 6 giorni disponibili quasi ogni mese, indipendentemente dalla stagione dell’anno attualmente in corso. Dopo un paio di mesi circa, quindi, la gatta cerca un luogo riparato in cui partorire uno o due cuccioli, che alla nascita sono talmente piccoli da avere un peso paragonabile a quello di un uovo di gallina. La longevità in cattività si aggira sui 12 anni, benché le dure condizioni della vita selvaggia, generalmente, li porti a sopravvivere per un periodo sensibilmente più breve.
Tra le regioni di appartenenza del gatto, suddiviso in due sottospecie citate il Gujarat e il Maharastra nella parte centro-occidentale dell’India ed il Terai a settentrione. Nel maggio del 2012, alcuni esemplari sono stati fotografati nel Parco Nazionale di Bardia, in Nepal, mentre nello Sri Lanka, alcune differenze morfologiche minori hanno portato alla definizione di una diversa sotto-specie, denominata Prionailurus rubiginosus phillipsi. Gli ambienti preferiti includono le foreste decidue, sia pluviali che asciutte, le foreste di bambù, le pianure erbose indipendentemente dal grado di aridità ed anche i pendii scoscesi, tra le cui rocce amano cercare i piccoli rettili che costituiscono una parte importante della loro dieta. Se disponibile, un altro territorio di caccia particolarmente amato sono le piantagioni di tè, con comprensibile fastidio degli agricoltori umani. Nel periodo dei monsoni, a seguito di una grande pioggia, un’abitudine osservata in questi gatti è quella di arrampicarsi sui termitai per ghermire le termiti alate che riemergono in superficie, facendone un pasto particolarmente ricco e sostanzioso. Ma all’avvicinarsi di un qualunque felino più grande, sono sempre pronti a scappare e mettersi in salvo sui rami più alti degli arbusti soprastanti.
Il gatto rugginoso, per sua fortuna, è oggi considerato particolarmente inadatto alla trasformazione in animale domestico, a causa del temperamento incontrollabile e naturalmente aggressivo, oltre all’abitudine al miagolio costante e particolarmente acuto. Quando si sentono le storie sopra citate sul naturalista Jerdon, dobbiamo quindi presumere che egli avesse scelto un esemplare particolarmente calmo e propenso ad adattarsi alla vita in caso. Pur non essendo dunque soggetti a traffici per la rivendita in Occidente ed altrove, ed essendo troppo piccoli perché la sua pelle possa avere un importante valore, i P. rubiginosus si sono dovuti spesso scontrare con l’ostilità degli abitanti delle zone rurali, che non soltanto gli hanno dato la caccia per l’inerente incapacità di comprendere il concetto di proprietà privata, ma se ne sono effettivamente nutriti, a causa di un territorio non sempre benevolo nell’elargire i fondamentali frutti del sostentamento umano. Tanto che, secondo gli accordi internazionali del CITES, questi gatti sono stati oggi inseriti nelle specie protette del loro intero areale, uno dei pochi casi tra gli animali non ufficialmente a rischio d’estinzione, vietando sostanzialmente che venga in mente d’infastidirli a chicchessia. Ciononostante, il processo di studio di questa specie appare tutt’altro che completo, ed approfondimenti scientifici continuano ad essere effettuati con cadenza relativamente frequente. Ad aprile del 2013, ad esempio, fece notizia la scoperta di due esemplari nella regione del Kutch, dove si riteneva precedentemente che la specie fosse ormai estinta.
Nell’ampio spettro delle diverse situazioni animali contemporaneo, lo stato del gatto rugginoso è una sorta di via di mezzo. Né fiducioso nella sua capacità di continuare a dominare i boschi d’India, a causa della costante deforestazione ed espansione dei contesti urbani, né formalmente minacciato, per via della sua naturale capacità di proliferazione. Gli ambientalisti più responsabili, tuttavia, concordano nel definirlo una specie chiave per la natura locale, da tenere sotto osservazione e se possibile, aiutare in maniera duratura ed altrettanto rilevante. Occorrerà, per usare una metafora delle nomenclature vigenti, digerire la ruggine assieme al metallo.
Come spesso accade, possiamo a questo punto affermare soltanto: chi vivrà vedrà. O per meglio dire, sentirà (se possibile) ancora quel verso insistente, di un piccolo, quanto vorace cacciatore. Il passo lieve dei gatti leopardati non lascia un segno evidente nel sottobosco. Ma la loro presenza, immancabilmente, arricchisce l’ecosistema. Ed i più selvaggi sogni di tutti di noi.