Tutti sanno che il nemico naturale del piccolo arbusto ricoperto di addobbi in occasione della principale ricorrenza invernale, nella maggior parte delle abitazioni, è il gatto. Il quale semplicemente non potrebbe mai fare a meno, neanche volendolo, di cercarne il punto debole con gli artigli, afferrare il tronco, arrampicarsi tra le palle con la massima probabilità di far danni. Ma chi è, nell’ambiente sottomarino della barriera corallina, il felino dispettoso della situazione? Personalmente non ho alcun dubbio: dovrà necessariamente trattarsi del pesce tetrodontide, il più velenoso vertebrato al mondo. Agile nuotatore, perennemente alla ricerca di una preda, che sa come difendersi anche da creature molto più grandi di lui: incamerando l’aria fino a gonfiarsi, anche se al posto del pelo, frappone al mondo un manto di sottilissime spine. Per le sue abitudini, usano chiamarlo pesce palla. Anche l’albero di Natale che tende ad essere l’oggetto delle sue indesiderate attenzioni, dal canto suo, è molto diverso da quello di superficie. Innanzi tutto per le dimensioni: 5-10 cm invece che un metro e mezzo oppure due. Dimensione ridotta dalla quale, di contro, deriva una capacità decisamente insolita per le piante, soprattutto quando private delle radici: ritirarsi dagli sguardi indesiderati e nascondersi all’interno del proprio vaso. Vaso o forse dovremmo dire, nel presente caso, tubo. Quello che il colorato alberello, completo di decorazioni variopinte e tutto il resto, secerne all’inizio della sua vita di adulto, dopo essersi aggrappato all’essere che proteggerà la sua esistenza. Già, “adulto” perché a dire il vero, la creatura di cui stiamo parlando non è propriamente un vegetale, bensì uno di quegli anellidi policaeti (vermi!) che attraversano, nel corso della propria vita, almeno un’importante metamorfosi, dallo stato di larve galleggianti nel plankton a creature sessili, ovvero del tutto incapaci di muoversi fino al termine della loro esistenza.
Può così capitare negli ambienti tropicali del vasto oceano, di scorgere il dentone di cui sopra che fluttua con interesse nei pressi di un paio di questi variopinti soggetti, facendosi avanti un centimetro alla volta, finché non si trova a portata di bocca. Ed è allora, generalmente, che avviene l’inaspettato: l’albero coi suoi rami, il puntale e tutto il resto, si richiude su se stesso, prima di ritrarsi e scomparire del tutto dalla sua vista. Questo perché, alquanto inaspettatamente, gli è riuscito di vedere il pericolo prima che fosse troppo tardi. Già perché pur facendo parte della stesso phylum del lombrico di terra, altrettanto bilateralmente simmetrico e metamerico nel susseguirsi dei propri segmenti, le somiglianze sostanzialmente finiscono qui. Lo Spirobranchus giganteus ha infatti sviluppato un modo per notare l’avvicinarsi del pericolo, senza dover mettere degli occhi fuori dalla sicurezza del tubo di appartenenza: stiamo parlando, in parole povere, di molecole sensibili alla luce incorporate nel suo apparato branchiale, facente per l’appunto parte delle appendici simili a rami che lascia oscillare nella corrente, chiamati cheti, da cui il nome della classe di appartenenza: poli(molti) -cheti. Contrariamente al nostro termine di paragone, inoltre, i vermi-albero non hanno mai imparato a scavare. Semplicemente perché sono molto, molto più furbi di così. Nel momento in cui si posano per l’ultima volta lasciando indietro la loro vita di larve trocofore, infatti, fanno in modo di ancorarsi a una superficie “vivente” ovvero un qualche tipo di corallo roccioso come la madrepora o la porite, dalla struttura scheletrica in aragonite. Iniziando quindi a secernere il proprio tubo di calcite non solubile, affinché la colonia di polipi, crescendo nelle dimensioni, finisca inevitabilmente per incorporarlo. Condizione a seguito della quale, praticamente, il rifugio farà in modo di costruirsi da se. Un sistema che non potremmo che definire efficiente, vista la vita media di questi variopinti vermi: fino a 30-40 anni, benché allo stato brado, molto spesso, non riescano a raggiungere neppure i 20. E questo generalmente, a causa di qualche famelico felino di passaggio…
C’è una problematica questione, a tal proposito, che condiziona notevolmente i propositi di sopravvivenza del verme in questione: la sua costante necessità di nutrirsi. Il suo variopinto apparato di rametti, oltre a costituire un organo di respirazione e percezione del pericolo, ha anche un’ulteriore funzione: quella di filtrare al’acqua ed accaparrarsi il cibo. Una volta rimasti intrappolati tra i cheti, infatti, i malcapitati microrganismi che transitavano di lì vengono immediatamente inseriti in un meccanismo tentacolare, che un poco alla volta farà in modo di trasportarli fino alla bocca dell’animale. Il che significa che, data la tendenza ad abitare in zone densamente popolate dai suoi simili, il verme dovrà fare il possibile per sporgersi il più possibile da tubo, pena l’incapacità di procurarsi calorie sufficienti a giungere fino all’età riproduttiva. Ciò detto, tra pesci restano sempre ben pochi, quelli capaci di riflessi tanto fulminei da ghermirlo prima che possa sfuggire mettendo in atto la sua unica strategia difensiva: nascondersi. Cosa che sa fare molto bene, vista anche la presenza dell’opercolo calcificato che sostituisce nel presente caso l’ornamento della stella cadente, di una misura perfettamente idonea a chiudere, in maniera pressoché inespugnabile, l’unico accesso del tubo. In maniera talmente impenetrabile, che alcuni studiosi hanno ipotizzato come l’assalto reiterato dei pesci palla che passano di lì sia più che altro finalizzato a ghermire altri organismi epibionti del corallo e dello stesso policheto, piuttosto che divorare un così difficile bersaglio. Ma gli incidenti, come si dice, possono pur sempre capitare.
Il verme, diffuso ampiamente dai Caraibi all’Indo-Pacifico, ha almeno una grande fortuna rispetto agli altri abitatori degli abissi: non ha una particolare importanza economica per l’uomo. Fatta eccezione per la categoria degli acquaristi, che lo considerano un’aggiunta notevolmente attraente a qualsiasi habitat artificiale sommerso, benché negli acquari rischi di diventare preda di qualsivoglia pesce carnivoro sia stato incluso nella sua selezione di appartenenza. L’inclusione all’interno della quale, per forza di cose, viene generalmente effettuata tramite il trasferimento delle stesse rocce vive. Poiché nessuno può riconoscere, e prelevare dal flusso della corrente, le larve trocofore di una specifica creatura marina. Una volta che queste ultime si ancorano alla madrepora o porite di loro preferenza, mediante l’impiego dell’organo denominato parapodio, inizieranno il periodo di crescita, dispiegando la doppia corona di rametti da cui prende il nome la loro genìa. Raggiunto il momento della verità, quindi, libereranno a loro volta una certa quantità di materiale riproduttivo, che potrà essere a seconda del sesso di appartenenza uova o gameti maschili, affinché il movimento delle correnti oceaniche si occupi del resto. Ma ben presto i nuovi nati si stancheranno di questa vita, iniziando come loro prerogativa a cercare un luogo in cui costruirsi la casa.
L’albero di Natale, per sua stessa definizione, è un’esistenza controllata e definita dall’uomo. Che molto spesso, per sua e nostra sfortuna, viene messo in condizione di passare a miglior vita poco dopo il dì della festa, laddove in natura avrebbe potuto diventare un arbusto alto e nobile, latore di un significato altrettanto antico e degno di essere tramandato. Anzi, dal punto di vista di un’analisi razionale e spassionata, probabilmente molto più dell’alternativa. Perché gli esseri naturali possono ricreare le condizioni della propria stessa esistenza, rendendo se stessi pressoché immortali. Mentre cos’è una tradizione, persino così antica, se non il soggettivo punto di vista di un gruppo d’individui sostanzialmente privo di alcun riscontro? Nelle profondità degli abissi, il Natale non cessa mai di essere celebrato. Mentre l’unico dono che si fa agli altri, è il privilegio di poter continuare ad esistere. Gatti, pardon! Pesci palla, permettendo.