Quando il Consiglio Imperiale Ottomano si riuniva, ogni ingresso del palazzo di Topkapi veniva guardato a vista da uno stuolo di giannizzeri armati fino ai denti: lance, sciabole, fucili. Nessuna arma veniva considerato inadatta a salvaguardare l’elite governante dai più sconvenienti elementi di Kostantîniyye, la Città d’Oro, luogo instabile proprio in funzione della sua storia, della sua vastità, della posizione strategica che la poneva a collegamento delle terre turche con l’area dei paesi di lingua bulgara e la Grecia. Nella maestosa sala nota come il Kubbealtı, sotto cui si trovava il prototipico Divano, al tempo stesso un gruppo di persone, nonché il seggio sopra cui si sedeva, convenzionalmente, il sommo Sultano del più vasto impero dell’Oriente rinascimentale. Il 24 novembre del 1731 la moltitudine dai maestosi turbanti taceva mentre, per l’ennesima volta, Mahmud il gobbo subiva passivamente le decisioni dei suoi funzionari. Era stato posto nominalmente al comando, d’altra parte, proprio per il suo poco interesse nei confronti del potere assoluto, all’esercizio del quale preferiva la poesia, l’arte o lo studio della natura. A seguito dell’insurrezione armata dell’anno prima istigata dall’ex soldato Patrona Halil, culminante con la deposizione di Ahmet III, zio dell’attuale governante, e lo strangolamento del suo gran visir. L’unico erede possibile era quindi stato trasportato in tutta fretta presso il complesso delle tombe di Eyüp sulle coste del Mar Nero, dove in una tradizionale cerimonia aveva ricevuto la leggendaria spada di Osman, facendone l’ultimo ricevente dell’egemonia imperiale. Una qualifica certamente scomoda, per un uomo di 35 anni che non aveva mai governato e che da ragazzo aveva dovuto sopportare l’umiliazione di vedere suo padre usurpato, per poi trascorrere lunghi anni nella prigione dorata della propria residenza privata. Dalla cui condizione, tuttavia, aveva saputo trarre vantaggio, circondandosi dei più rinomati sapienti attivi nella capitale, inclusi pittori, scultori e fabbricanti di gioielli. Vivendo in un’opulenza che persino oggi, avremmo difficoltà a concepire ed acquisendo, un giorno dopo l’altro, la dote fondamentale della pazienza. Mentre l’argomento in discussione delle ultime ambascerie giunte dal regno di Francia si andava gradualmente esaurendo, quindi, Mahmud si alzò in piedi.
Era una grossolana violazione del protocollo, che fece calare immediatamente il silenzio in sala. Le maioliche delle pareti riccamente decorate, intervallate da un portico ornamentale, parvero riflettere per un istante il suo sguardo carico di determinazione. Il sultano, quindi, fece un gesto all’indirizzo della porta, pronunciando le più inaspettate parole: “Fate entrare il condannato.” Due armigeri della guardia di palazzo, scelti tra i fedeli sostenitori della sua famiglia, entrarono quindi dalla porta principale, accompagnando a forza una figura in abiti pregiati. Un sussurro agitato percorse la sala, quando i presenti si accorsero di chi si trattava: era Patrona Halil in persona, il patriota “liberatore” dell’anno prima. Come per l’esecuzione di un copione attentamente provato, quindi, uno dei paggi del sultano fece un passo avanti dalla schiera dei servi, tutti rigorosamente musulmani, presenti all’incontro per aumentare il prestigio dei rispettivi padroni. Costui spiccava tra gli altri tuttavia perché, d’un tratto, ci si rese conto che era armato. Muovendosi come un automa, fece i pochi passi necessari a portarsi accanto al sultano, prima di porgergli il più incredibile oggetto che chiunque, fra i presenti, avesse mai visto prima di quel momento. Si trattava, piuttosto chiaramente, di un moschetto, costruito secondo le ultime innovazioni tecnologiche europee. Esso era, tuttavia, completamente fatto d’oro, e ricoperto di pietre preziose. Mentre lo impugnava con fare solenne, e tutti sembravano pronti a credere che avrebbe sparato lì ed in quel momento, Mahmud I lo abbassò di scatto verso il pavimento, sollevando in un solo fluido movimento lo sportello che si trovava sul calcio. All’interno del quale si trovava l’unica e più terribile di tutte le armi: un calamaio adibito a scrivere, assieme all’inchiostro necessario per farlo. “Patrona Halil, tu neghi di aver cospirato contro lo zio imperiale, fomentando scontenti tra la popolazione della nostra splendida città, per spodestarlo e mandarlo in esilio? Neghi di aver chiesto, da una posizione di forza, che il suo più stimato consigliere fosse messo a morte?” Ad ogni domanda,l’uomo tentava di rispondere con enfasi, ma un colpo dei suoi carcerieri lo riportavano a più miti consigli. Il fucile era tornato adesso nelle mani del servo, mentre un collega teneva sotto gli occhi del basso e tarchiato sultano una lista, da cui lui leggeva con voce stentorea le accuse. “Neghi di aver cercato l’aiuto degli infedeli, nel tentativo di promuovere la religione cristiana nella terra che fu resa sacra dagli eredi del nostro Profeta?” Qui l’espressione del veterano si fece rassegnata. Il suo destino, a quel punto, era chiaro.
Mentre i diversi visir presenti si guardavano bene dal sollevare questioni, osservando e prendendo nota del cambiamento in atto, Mahmud estrasse la penna dal calamaio, sfolgorante per le ulteriori pietre preziose. Chi si fosse trovato nella posizione idonea ad osservare da dietro le spalle del sovrano, avrebbe letto chiaramente il contenuto della condanna. “Strangolamento fino al sopraggiungere della morte.” Quale crudele, eppure stranamente appropriata, ironia…
Estremamente rappresentativo dei conflitti intestini che sconvolsero e determinarono il corso, nei secoli, del potente Impero Ottomano, pur essendo relativamente poco significativo da un punto di vista storico (non espanse i confini, non risolse importanti questioni, non promulgò riforme) il sultano Mahmud I viene soprattutto ricordato per aver praticato una politica di riapertura verso l’impero Mughal, con il quale fece in modo di cooperare contro il nemico comune delle armate di Persia. La sua principale capacità, tuttavia, fu quella di liberarsi dal ruolo di mero uomo di paglia, facendo condannare coloro che pretendevano di tirare le sue fila da dietro i paraventi, con un breve, quanto risolutivo, spargimento di sangue. Un altra caratteristica particolare della sua figura, come già accennato, era quella di essere un grande patrono delle arti. Particolarmente vicino all’elite degli armeni, il popolo sito ad oriente della Turchia noto per la sua lunga storia e la capacità di produrre manufatti dal pregio assolutamente privo di paragoni. Naturalmente, all’epoca, la tragedia del futuro genocidio che sarebbe stato condotto proprio dai primi ai danni dei secondi alle soglie della prima guerra mondiale, era ancora ben lontano dalle aspettative e i timori di tutti. Nessuno avrebbe mai potuto sognare la crudeltà e l’efficienza destinata a provenire dal pragmatismo dei secoli moderni. In pieno Rinascimento, ciò che contava soprattutto per le minoranze etniche, era l’abilità nei commerci e la capacità di parlare più lingue. Qualità certamente possedute da Hovhannes Agha Düz, rinomato gioielliere tra i cui clienti più affezionati poteva annoverare lo stesso sultano Mahmud I.
Secondo quanto spiegato nei materiali a supporto della mostra Pearl on a String (Perle su un Filo) tenutasi al Museo d’Arte Asiatica di San Francisco la scorsa primavera, di cui questo stesso fucile fu il singolo pezzo più importante, non fu tuttavia lui da solo a produrne l’esagerata magnificenza. Oggi si ritiene in effetti che manufatti come questo fossero in realtà il frutto di un lavoro d’equipe, con partecipazione da parte di armieri, fabbri, persino orologiai… Questi ultimi per studiare i meccanismi dei numerosi scomparti segreti, un vero punto cardine degli status symbol di allora. Così troviamo, nello sfolgorante moschetto, oltre al già citato comparto per il kit da scrittura, un secondo spazio cavo nel calcio, contenente un coltello altrettanto incrostato da gemme di vario tipo, tra cui rubini, smeraldi, perso i diamanti per cui resta famosa, tutt’ora, la terra di Armenia. Accessori per fare la punta alla penna, e calibrare la polvere da sparo, potevano essere estratti dal retro del castello dell’arma. Pensate che la cura maniacale dei dettagli aveva portato Agha Düz a includerne diversi anche all’interno delle pareti dei diversi scomparti che, per la maggior parte del tempo, sarebbero rimasto chiusi. Questo perché un oggetto qual’era un simile capolavoro, nel momento della verità, avrebbe dovuto costituire lo status symbol più elevato concepibile dai consiglieri dell’onnipotente sultano, un chiaro simbolo del suo potere e ricchezza letteralmente inimmaginabili a coloro che potevano soltanto seguirlo, oppure andarsene in esilio. Perché di certo, nessuno si aspettava che un uomo dalle poche propensioni atletiche come il gobbo Mahmud I potesse recarsi a caccia, oppure comandare di persona un esercito verso il fronte di battaglia. Quindi perché non dotarsi, piuttosto, di un’arma per colpire una diversa, e più figurativa, tipologia di bersagli?
Di oggetti come questo ne abbiamo molti, ma non moltissimi: importanti non soltanto per il loro valore intrinseco, bensì per l’opportunità che ci offrono di capire maggiormente la psicologia di un personaggio, dei suoi sottoposti, di un’intera epoca ormai trascorsa. Certo per il gusto moderno, un moschetto come quello di Mahmud I potrebbe sembrare decisamente poco pratico nonché esteticamente appagante. Potremmo anzi affermare, senza timore di aver esagerato, che nell’estrema ricerca di ricchezza decorativa abbia abbandonato anche l’ultima briciola di eleganza. Considerate tuttavia, che la corrente del Barocco europeo era senz’altro giunta, per il tramite dei commerci con l’Italia, fino a questi luoghi. Il che, assieme alla sapienza metallurgica del popolo armeno, non poteva che condurre a simili eccessi. Soprattutto quando al committente, non mancavano le risorse per tentare di dimostrare un qualcosa di fondamentale: che non importa quanto si potesse lavorare alle sue spalle per influenzarlo, il sultano era pur sempre il sultano. Con l’assoluto potere di vita, e di morte, su tutti i suoi sottoposti all’interno dei confini ottomani.
Pensate soltanto per un attimo, quanto dolore e quanta sofferenza si sarebbero potute evitare nella storia dell’uomo, se soltanto non fosse stato, realmente, così…